Libro di Prem Shunyo
Nepal
Potevo sentire la magia del Nepal ancor prima che l’aereo atterrasse e sussurrai: “Sto tornando a casa!”. I funzionari dell’aeroporto erano gentili e sorridenti e le persone che incontravamo per le strade avevano i volti più belli che avessi mai visto, in tutto il mondo; anche se i nepalesi sono ancora più poveri degli indiani, hanno una dignità e un portamento che affermano il contrario. La strada per Pokhara passa attraverso una giungla lussureggiante, e quando ci fermammo per fare pipì, mi incamminai come incantata in un boschetto dove c’era una cascatella che formava un laghetto circondato da rocce, con le orchidee che si attorcigliavano agli alberi come enormi ragni e un ruscello che, misteriosamente, scompariva in una stretta vallata.
“Chetana! Chetana!” Qualcuno mi chiamava e venni strappata da quel momento magico. Il pulmino su cui viaggiavamo, guidato da due sannyasin nepalesi che ci erano venuti a prendere all’aeroporto, riprese la strada che andava su e giù per le montagne, costeggiando ordinatissime piantagioni di riso, boschetti di bambù e profonde gole attraversate da fiumi impetuosi. Era buio quando arrivammo alla Comune di Pokhara, quattordici ore più tardi. Era molto buio – non c’era elettricità! Entrammo nella sala da pranzo con una bottiglia di vodka in mano e chiedemmo se per favore potevamo metterla in frigorifero. Forse era la prima volta che una bottiglia di liquore entrava in quel posto. Mi guardai intorno e vidi che i venti sannyasin che vivevano lì erano indiani o nepalesi, quasi tutti uomini. La sala da pranzo era lunga una ventina di metri, con le pareti e il pavimento di cemento. Era vuota, fatta eccezione per le pentole con il cibo da un lato, e un tavolo con una sedia dall’altro, dove sedeva Swami Yoga Chinmaya. Era il leader e il ‘guru’ della Comune e tutti si preoccupavano che non si entrasse nella sala dall’ingresso privato di “Swamiji”, come veniva chiamato per rispetto. Per noi lui era come sempre Chinmaya, e lui non fece obiezioni; ci lasciò fare quello che volevamo. Così come consentiva che gli altri lo considerassero un guru, così accettò semplicemente che noi lo trattassimo come una persona normale. Chinmaya ha indubbiamente una forte presenza, si muove sempre molto lentamente e raramente il suo volto cambia espressione. È l’immagine del mistico di mille anni fa. E’ stato un discepolo di Osho fin dai primissimi tempi a Bombay e a quell’epoca ne era il segretario. Lo avevo notato dieci anni prima, nell’Ashram di Pune, quando lui e la sua donna si rasarono a zero e dichiararono di aver scelto la via del celibato.
I sannyasin di Osho provengono da ogni paese del mondo; ma tra noi non ci sono nazionalità. Abbiamo abbandonato ai suoi piedi tutte le religioni del mondo; qui non ci sono induisti, cristiani, mussulmani, ebrei. Qui ci sono gli individui più diversi, tutti mischiati in questa pentola a pressione cosmica che accoglie tutti, dai giovani punk ai vecchi sadhu; dai nuovi rivoluzionari all’antica aristocrazia; dalle persone più semplici a quelle più sofisticate, dall’artista all’uomo d’affari… qui si incontrano tutti i colori dell’arcobaleno fino a sparire in un prisma di luce bianca! Quando vidi i commensali seduti per terra, uno di fronte all’altro a una distanza di sette otto metri, che i bagni e le docce erano all’aperto e non avevano l’acqua calda, che le nostre camere erano cellette di mattoni con i materassi per terra, mi resi conto che questa era una situazione completamente diversa da quella cui ero abituata e che avrebbe richiesto tutta la meditazione di cui ero capace.
La mattina dopo, mentre mi recavo al bagno attraversando un piccolo spiazzo d’erba, mi voltai e vidi l’Himalaya. In quel punto, tre quarti dell’orizzonte era coperto da montagne. In realtà non si poteva parlare di orizzonte, era come se non appartenessero né alla terra né al cielo, erano indescrivibili. I picchi innevati erano sospesi nel cielo e sembravano così vicini da poterli toccare. Quando il sole si alzò, accarezzò la cima più alta tingendola prima di rosa e poi d’oro, per poi passare a quella successiva. Guardai l’alba illuminare una a una le cime dell’Himalaya, e scossi la testa per la meraviglia; perché nessuno me lo avevamai detto? Ho sempre pensato che l’Himalaya fosse una normale catena di montagne, ma non è vero! Osservavo incantata; mentre le montagne cambiavano colore nel cielo mi sentivo trasportata in un’altra dimensione. Seppi senz’ombra di dubbio che sarei stata molto felice in quel posto.
I giorni passavano senza che ricevessimo notizie di Osho. Guardavo le montagne pensando a lui che si trovava proprio sull’altro versante. Mi balenò l’idea di prendere un autobus che attraverso le montagne mi portasse in India, fino a Kulu, giusto in tempo per la passeggiata di Osho nei giardini di Span, salutarlo col namasté e tornare a Pokhara. Io e Asheesh ci confessammo le nostre preoccupazioni per la sicurezza di Osho: sebbene ci sentissimo rincuorati, sapendo che Neelam era con lui… in cuor nostro, temevamo di non rivederlo mai più. Passarono settimane senza notizie, e ormai ci eravamo adattati alla perfezione al ritmo della nostra vita monastica. La Comune si trovava in un posto incantevole e facevamo lunghissime passeggiate lungo percorsi dove l’acqua dei fiumi aveva trascinato via intere fette di terreno, lasciando dirupi profondi centinaia di metri. Affacciandomi con cautela ai bordi di un crepaccio, potevo vedere sul fondo mucche che pascolavano pacifiche e rocce enormi che una volta erano parte di grandiose cascate e ora se ne stavano immobili, scolpite dall’incessante lavorìo delle acque. Oppure, un’improvvisa apertura nel terreno rivelava, centinaia di metri più in basso, un piccolo torrente. Era facile cadere in uno di quei burroni per non essere più ritrovati, come era accaduto a un turista tedesco. Ben presto cominciai a godermi il rituale mattutino di lavare me e i miei vestiti all’aria aperta, e dopo un po’ mi abituai persino alla dieta, che includeva peperoncini piccanti a colazione. I sannyasin che vivevano nella Comune erano gentili e innocenti, e alcuni di loro diventaro no nostri amici. Chinmaya era un padrone di casa generoso e la sua estrema spiritualità era equilibrata dalla presenza di Krishnananda, il suo miglior amico, un nepalese selvaggio, dai lunghi capelli neri e il naso schiacciato che amava correre all’impazzata con la moto. La sfida che stavo affrontando, vivere nell’ignoto e nell’incertezza di non sapere se avrei più rivisto Osho, mi fecero capire che dovevo ‘vivere’ Osho. Dovevo vivere come mi aveva sempre insegnato: totalmente e nel presente. Questo mi diede una grande sensazione di pace e accettazione: potrei trovarmi lì, ancora oggi, in quel villaggio, tranquilla, solitaria, se non fosse accaduto che…una sera, mentre cenavamo, Krishnananda entrò come un fulmine, fece una piroetta in aria e gridò: “Osho arriva in Nepal, domani!” Tutti smettemmo immediatamente di mangiare, corremmo a preparare i bagagli e tutta la Comune prese posto su due pulmini, alla volta di Kathmandu.
La mattina seguente andammo tutti all’aeroporto, dopo aver preso delle stanze al Soaltei Oberoi Hotel, dove Vivek, Rafia e Devaraj avevano la loro base, mentre cercavano di trovare una casa o un palazzo per Osho. Arun era il sannyasin nepalese che dirigeva il centro di meditazione di Kathmandu. Aveva organizzato una spettacolare festa di benvenuto per Osho. Per tradizione, in Nepal la famiglia reale viene festeggiata con strade ornate da vasi di ottone pieni di fiori. La polizia era perplessa, diceva che non avremmo dovuto festeggiare così, perché solo il re doveva ricevere un simile trattamento. Ma non poterono farci nulla: sannyasin vestiti di rosso e centinaia di curiosi erano in fila per le strade e all’entrata dell’aeroporto. L’aereo atterrò, la folla iniziò a eccitarsi, si accalcava per vedere, qualcuno lanciò in aria dei fiori… e d’un tratto ecco che Osho oltrepassò le porte a vetri, fece un ampio gesto di saluto e salì su una Mercedes bianca, pronta ad accoglierlo. Andammo di corsa all’Hotel Oberoi, dove Osho avrebbe alloggiato in una suite al quarto piano; Vivek e Rafia erano nella stanza di fronte alla sua. Rafia aveva ideato un complicato sistema di allarme nella stanza di Osho, in modo che di qualsiasi cosa avesse bisogno, potesse chiamare Vivek: a mezzanotte, una guardia del servizio di sicurezza dell’ hotel, lo aveva trovato ancora inginocchiato nel corridoio, con la moquette completamente sollevata, che stava collegando alcuni fili elettrici provenienti dalle due stanze! Io e Mukti dividevamo una stanza al piano di sotto, che sarebbe diventata per metà dispensa e per metà lavanderia. Vi trovammo tre bauli di utensili, più alcuni sacchi di riso e di lenticchie e varie ceste di frutta e verdura che occupavano metà della stanza. L’altra metà ospitava tutto il necessario per la lavanderia. Ci mettemmo d’accordo con il personale, molto accomodante: Mukti avrebbe cucinato per Osho nella cucina dell’hotel. Le avevano riservato una parte della cucina che avrebbero mantenuta pulita apposta per lei, evitando di lasciare in giro della carne o del pesce. Io avrei lavato i vestiti di Osho nella lavanderia dell’albergo, in compagnia di una cinquantina di nepalesi. Era tutta gente stupenda, mi pulivano la lavatrice prima che arrivassi e aspettavano, anche dopo aver finito il loro turno, per assicurarsi che tutto fosse a posto. Poi prendevo le tuniche e le portavo su in ascensore, tenendole sollevate su enormi grucce di legno, cosa che faceva divertire molto sia gli ospiti, sia il personale dell’hotel. Stiravo sul letto della nostra stanza, in mezzo a un numero sempre crescente di ceste di frutta e verdura che i sannyasin portavano in regalo a Osho. Il cibo in Nepal è di qualità inferiore a causa della povertà del suolo e Mukti, assistita da Ashu, stava organizzandosi per importare frutta e verdura dall’India.
Nel frattempo, i sannyasin nepalesi andavano all’alba al mercato arrivando tutti i giorni con quanto di meglio avevano trovato. Il giorno in cui arrivò, Osho ci chiamò nella sua stanza. Ci chiese come stavamo e disse che aveva sentito che c’era stata un po’ di agitazione fra noi. Mukta e Haridas erano partiti proprio il giorno prima per la Grecia, avendo perso ogni speranza che Osho arrivasse in Nepal e anche Ashu e Nirupa non erano state felici a Pokhara. Quando Osho sentì la frase: “Beh, non era certamente lo standard di vita a cui eravamo abituate”, disse che anche lui non aveva vissuto proprio come avrebbe voluto, e ci ricordò che prima era stato in prigione, poi aveva vissuto a Span, dove per la maggior parte del tempo non c’erano né acqua né elettricità. Mi vergognai moltissimo, anche se non ero stata io a pronunciare quella frase. Venimmo a sapere che Jayesh aveva dovuto fare piani complicatissimi per riuscire a fare espatriare Osho dall’India al Nepal. Due giorni prima della partenza,Osho era uscito da Span, era salito su una vecchia Ambassador insieme a Neelam, ed erano andati direttamente all’aeroporto dove avevano preso un volo di linea per Delhi. Che quel giorno ci fosse un volo era già una cosa eccezionale, ma che vi fossero anche due posti liberi fu un vero miracolo!
La polizia era arrivata solo alcune ore dopo per arrestarlo e ritirargli il passaporto… un arresto inaspettato e ridicolo: l’ufficio delle imposte voleva che Osho pagasse le tasse sulla cauzione di mezzo milione di dollari che avevamo dovuto versare al governo degli Stati Uniti. Non credevano che la cauzione fosse stata pagata da amici di Osho, e ritenevano che anche l’India avesse diritto a una parte del bottino! Laxmi aveva contribuito a rendere la situazione ancora più confusa, spargendo la voce fra i sannyasin di Delhi, che Hasya e Jayesh volevano rapire Osho. In un valoroso tentativo di salvare il loro Maestro, i sannyasin di Delhi provarono a riprendersi Osho, ma furono fermati da Anando. Il sipario calò su quello scenario caotico, quasi miracolosamente: Osho aveva preso l’aereo per il Nepal giusto in tempo per evitare un secondo arresto. Scoprimmo poi che Span, la proprietà di cui Laxmi aveva parlato a Osho, non solo non era stata acquistata, ma non era neanche in vendita! I sannyasin di Delhi arrivarono a Kathmandu un paio di giorni dopo, con l’offerta di un palazzo in India dove Osho avrebbe potuto vivere. Non capivano che a quel punto non poteva più tornare in India,ma Osho parlò con loro. Avevano portato un video per fargli vedere il posto, e Osho, con mia grande sorpresa, ci invitò tutti a vederlo insieme a lui. Ci mettemmo a sedere ai suoi piedi nel soggiorno della sua stanza e iniziò la proiezione. Dopo dieci minuti di riprese di alberi lungo la strada che portava al palazzo, vedemmo cinque o sei casette di pietra, quasi senza tetto. Queste erano le case della servitù, ovviamente c’era molto lavoro da fare, ma quello non era un problema, ci eravamo trovati in situazioni peggiori. Poi la cinepresa continuava a riprendere altri alberi: dissi a me stessa che qualcuno doveva aver detto al cameraman che Osho adora gli alberi. Osho chiese se c’era acqua corrente nel palazzo. “Sì, sì,” rispose Om Prakash, che aveva portato il video. Dopo altri cinque minuti di riprese di alberi, vedemmo il “palazzo.” Aveva solo quattro stanze ed erano in uno stato di avanzato disfacimento. “C’è acqua nella proprietà?” chiese Osho di nuovo. “Sì, sì,” fu la risposta. Quel palazzo di quattro stanze doveva essere abbandonato da almeno cinquant’anni. “E l’acqua?” insistette Osho… fu a quel punto che si vide un filo d’acqua che scendeva dalle pietre del giardino ricoperte di muschio. “Abbiamo il diritto di usare quella piccola fonte?” chiese Osho. “L’acqua appartiene a una scuola femminile,” spiegò Om Prakash, “ma non c’è nessun problema.” Adesso capivo. Ecco perché Osho aveva voluto che tutti vedessimo il video; voleva che ci facessimo un’idea di come è difficile concretizzare qualcosa con alcuni dei suoi sannyasin. Era chiaro che i loro cuori erano con lui, ma dovevano essere completamente folli a volerlo riportare in India e ancora più folli a pensare che potesse vivere nei resti di quello che una volta era una casa di sole quattro stanze, e senz’acqua! Osho spiegò loro che avergli chiesto di tornare in India era un atto d’amore, ma era assurdo. Disse che avrebbe creato problemi per lui e per loro e li invitò a tornare in India, pensarci su e ritornare dopo sette giorni. Non ritornarono più e Osho disse che dovevano aver capito la situazione e che la loro insistenza era frutto dell’amore e non della ragione.
Ovunque Osho si venga a trovare, in contrasto con il suo silenzio, viene sempre circondato da un turbine di energia. Gli ho chiesto se a crearlo era la sua ‘lila’(la sua energia cosmica), oppure era l’esistenza che creava un equilibrio fra questi due estremi? Mi rispose che non era nessuna delle due cose: il mondo è folle, caotico e il suo silenzio metteva semplicemente in evidenza questa verità, non la creava. E concluse dicendo che il perfetto equilibrio della natura sarebbe stato assoluto silenzio. La mattina dopo Osho iniziò a parlare a un gruppo di dieci persone, nel suo salotto. La prima domanda fu di Asheesh che chiedeva: “In questi periodi di incertezza, la parte migliore e la parte peggiore sembrano manifestarsi in quelli di noi che ti sono intorno. Per favore puoi commentare come mai accade?”. Osho: “Non ci sono ‘periodi d’incertezza’, poiché i tempi sono sempre incerti. Questa è la difficoltà con la mente: la mente vuole certezze – e i tempi sono sempre incerti. Pertanto, quando la mente trova, per puro caso, un piccolo spazio di certezza, si adagia: una specie di illusorio senso di stabilità la circonda. La mente ha la tendenza a dimenticare la vera natura dell’esistenza e della vita, e comincia a vivere in una specie di mondo dei sogni; incomincia a confondere l’apparenza con la realtà. La mente si trova a suo agio, perché ha sempre paura del cambiamento, per una semplice ragione: nessuno sa che tipo di cambiamento verrà – buono o cattivo? Una cosa è certa: il cambiamento scuoterà il mondo delle vostre illusioni, delle aspettative, dei sogni…”. E proseguì dicendo: “Ogni volta che il tempo colpisce una delle vostre illusioni più care, accade che ci venga tolta la nostra maschera.” E raccontò di come la gente aveva lavorato duramente a Rajneeshpuram, e proprio quando si stavano dando gli ultimi ritocchi, era sparito tutto! “ Io non mi sento frustrato – non ho guardato indietro neppure una volta. Sono stati anni stupendi, li abbiamo vissuti meravigliosamente, e questa è la natura dell’esistenza: le cose cambiano. Cosa possiamo farci? Proviamo a fare qualcos’altro – ma anche quello cambierà. Qui non c’è nulla di permanente. Ad eccezione del cambiamento, tutto cambia. Per questo io non mi lamento. Neppure per un momento ho sentito che qualcosa non aveva funzionato… perché qui nulla ha funzionato, ma per me niente è andato per il verso sbagliato. Abbiamo solo cercato di costruire bellissimi palazzi con carte da gioco. Forse, eccetto me, tutti si sentono frustrati. E poi vanno in collera con me perché non lo sono, perché non li sostengo. E questo li fa arrabbiare ancor di più. Se anch’io fossi irritato, se anch’io mi lamentassi o fossi particolarmente disturbato, questo li consolerebbe. Ma non lo sono… Adesso sarà difficile far diventare realtà un altro sogno, perché molti di coloro che hanno lavorato per realizzare quel sogno, si sentono sconfitti. Sono sconfitti! Sentono che la realtà o l’esistenza non si prendono cura di gente innocente che non stava facendo del male a nessuno, che stava solo cercando di creare qualcosa di bello. Perfino con loro l’esistenza segue le stesse regole, non fa eccezioni… Riconosco che è doloroso, ma noi siamo responsabili di quel dolore. Ci sembra che la vita sia ingiusta, imparziale, perché ci ha tolto un giocattolo dalle mani. Non si dovrebbe avere tanta fretta di arrivare a una conclusione simile. Aspettate un po’. Forse tutti i cambiamenti sono sempre per il meglio. Dovreste essere abbastanza pazienti. Dovreste dare all’esistenza un’altra possibilità… Per tutta la vita sono andato da un posto all’altro perché qualcosa falliva. Ma io non fallivo. Migliaia di sogni possono fallire, ma questo non fa di me un fallito. Al contrario, ogni sogno che svanisce mi rende più vittorioso, perché non mi disturba, non mi sfiora nemmeno. La sua scomparsa è un vantaggio, è un’opportunità per imparare a essere maturi. In questo modo affiorerà la vostra parte migliore. E qualsiasi cosa succeda non farà nessuna differenza – la vostra parte migliore continuerà a crescere verso le vette più alte… Ciò che importa è come uscite da quei sogni infranti, da quelle grandi aspettative svanite nell’aria senza lasciare alcuna impronta. Come ne siete venuti fuori? Se ne siete usciti indenni, avete scoperto un grande segreto, avete trovato la chiave maestra. Allora niente può sconfiggervi, niente può disturbarvi, niente può farvi andare in collera né può trattenervi. Continuate a camminare verso l’ignoto, verso nuove sfide. E tutte queste sfide affineranno la vostra parte migliore.”
La domanda successiva era di Vivek: rivela il suo approccio alla vita concreto, realista, del tutto femminile. “Amato Maestro, cos’è la casa? ” “Non c’è nessuna casa, ci sono solo abitazioni. L’uomo è nato senza casa, e rimane tutta la vita senza dimora. Certo, trasformerà molte abitazioni in case, ma si sentirà sempre frustrato. E l’uomo muore senza dimora. Accettare questa verità provoca un’incredibile trasformazione. In questo caso non cerchi più una casa, perché la casa è sempre qualcosa laggiù, lontano, qualcosa di separato da te. E tutti stanno cercando una dimora. Quando scopri la sua illusorietà, allora, invece di cercare una dimora, comincerai a cercare quell’essere che è nato senza casa, e il cui destino è di restare senza casa.” (da Light on The Path)
Anando arrivò con Bikki Oberoi, il padrone della catena degli Hotel Oberoi. Hasya e Anando erano diventate sue amiche a Delhi e lui sembrava interessato ad aiutare Osho. Arrivarono viaggiando in prima classe e il personale dell’hotel era in gran subbuglio; stava tirando fuori i tappeti rossi! Quando vidi entrare Anando, gli occhi mi uscirono dalle orbite: in mezzo a tutta quella fanfara, camminava fieramente con il mio mini asse da stiro sotto il braccio. Non aveva nemmeno tentato di mimetizzarlo, tutti potevano vedere che si trattava di un asse da stiro, ma Anando non ne era minimamente imbarazzata. Quell’asse da stiro mi era mancato tantissimo; ero commossa che me l’avesse portato come bagaglio a mano in quella particolare circostanza. Il quarto piano dell’hotel venne interamente occupato da sannyasin.Una delle camere diventò un ufficio, dove si svolgeva sempre un’attività frenetica. In quella successiva, Devaraj e Maneesha lavoravano giorno e notte a trascrivere i discorsi di Osho. La loro stanza era sempre piena di gente, perché arrivava in continuazione qualcuno ad aiutarli. In questa stanzetta, sempre ingombra di carrelli della colazione, l’Osho Times tedesco insieme aManeesha selezionava le lettere e le domande dei sannyasin per il discorso, e dava il benvenuto a chiunque volesse aiutare a rivedere le trascrizioni dei discorsi.
Anche se Osho si era riposato per alcuni giorni, non sembrava forte come prima. In quel momento non ce ne rendevamo conto, ma i primi sintomi dell’avvelenamento da tallio iniziavano a manifestarsi. Premda, l’oculista di Osho, era stato chiamato in tutta fretta dalla Germania al manifestarsi di sintomi preoccupanti: continue contrazioni delle palpebre, divergenze delle pupille, indebolimento dei nervi oculari e riduzione della vista. Premda curò i sintomi, pur non sapendo spiegarne la causa. In quel periodo, aiutavo la cameriera nepalese Radhika a pulire l’appartamento di Osho. Alle sette di mattina, entravamo di corsa nel suo soggiorno, mentre lui era in bagno, e pulivamo i mobili di legno scuro con gli intricati intagli fatti a mano che ovviamente nessuno aveva mai pulito prima di allora. Anche se c’era un piccolo aspirapolvere, era più efficiente pulire il tappeto rosso con un panno umido. Rafia e Niskrya arrivavano subito dopo mettendoci sempre una gran fretta, perché dovevano trasformare il soggiorno in uno studio di registrazione in tempo per il discorso delle 7:30. La sera, nella sala dei ricevimenti dell’hotel, Osho parlava alla stampa e ai visitatori, in un primo tempo prevalentemente nepalesi. Successivamente il colore della platea prese a cambiare: dal grigio e nero alle diverse sfumature di arancione. Un monaco buddhista, piccolo, pelato e con la tradizionale tunica color zafferano iniziò a frequentare quei discorsi, sedendosi in prima fila e ponendo domande a Osho. La prima sera, Osho cominciò col dire: “Essere un Buddha è stupendo, essere un buddhista è orribile.” Il monaco buddhista ricevette un trattamento completo, e io ero stupita e piena di ammirazione nel vederlo tornare anche le sere successive. Venne regolarmente per alcune settimane, finché un giorno Osho ricevette una sua lettera in cui faceva sapere che il suo monastero gli aveva proibito di andare ai suoi discorsi!
Ogni mattina Osho teneva un discorso per pochi intimi, nel suo soggiorno; e io, dopo essere stata lontana da lui per la prima volta, da quando ero arrivata a Pune dieci anni prima, ora sentivo che ogni momento era prezioso. Vivevo quegli attimi come ricchezza d’amore, di gioia e di eccitazione nell’esplorare ‘il cammino’ con il Maestro. Stavo imparando che la ricerca della verità, di quel punto dentro di me che non è inquinato dalla personalità, è una grande avventura. Non ho dubbi sul fatto che esiste uno ‘stato’ in cui una persona può essere totalmente rilassata, senza desiderare o aver bisogno di qualcosa di più; una sensazione così appagante che nulla di ciò che succede all’esterno la può disturbare. Lo so perché l’ho sperimentato in alcuni fugaci momenti e ho visto che per Osho è una dimensione permanente. Osho prese l’abitudine di passeggiare nei giardini dell’albergo, oltre i campi da tennis, la piscina e i prati. Ma non riusciva a vedere granché dei giardini, perché era sempre attorniato da visitatori e discepoli che venivano a salutarlo. Alcuni semplicemente sorridevano e lo salutavano, altri si gettavano ai suoi piedi, creando situazioni imbarazzanti. Era una scena stupenda vedere Osho attraversare l’atrio dell’hotel e uscire in giardino. Intorno a lui, anche in mezzo alla folla più numerosa, c’era sempre spazio… in quelle occasioni, ho visto molti turisti girarsi sorpresi, alla vista di Osho. Ad alcuni, perfino degli europei, ho visto fare il gesto del namasté, anche se sono sicura che non sapevano quello che facevano, perché dopo che Osho era passato avevano un’espressione sbalordita: essendo del tutto ignari di cosa significa incontrare un Maestro, non aspettandosi nulla, ne rimanevano toccati e ne venivano infiammati. Alcuni turisti americani e italiani, che ho osservato con particolare attenzione, hanno veramente visto Osho, anche se non so come la loro mente abbia reagito dopo quell’incontro. Arrivarono anche diversi discepoli dall’Occidente, tra cui Niskrya, un videoamatore. Accadde spontaneamente: si presentò un giorno di fronte alla stanza di Osho con i suoi macchinari, spuntando dal nulla. Di certo aveva delle buone referenze: Sheela lo aveva espulso due volte da Rajneeshpuram, togliendogli il mala. La sua presenza si rivelò preziosa: senza di lui nessuno di quei bellissimi discorsi sarebbe stato registrato.
I discorsi di Osho sono sempre imprevedibili; non credo abbia mai dubitato dell’assoluta libertà di opinione, né abbia fatto valutazioni su ciò che è conveniente dire, o non dire. Osho è il chiaro esempio di un essere che non ha interessi di parte da difendere, né si piegherebbe mai a non dire ciò che pensa, per evitarne le conseguenze. Pertanto con lui il rischio è sempre alto, soprattutto in questo mondo diviso tra interessi e convenienze. Entrando in Nepal, Hasya gli aveva spiegato che era un paese induista, e che la legge proteggeva quella religione, per cui lo pregò di non dire niente contro l’induismo. Così in un discorso serale, davanti a diversi dignitari del paese, venuti ad ascoltarlo, e ad alcuni giornalisti, lui se ne uscì dicendo che i suoi amici gli avevano chiesto di non parlare contro l’induismo… ma cosa poteva farci? Questo era il posto giusto dove parlarne male, come potevano aspettarsi che parlasse male del cristianesimo, proprio lì? No, quello se lo sarebbe tenuto per quando si fosse recato in Italia. Proprio in quei giorni, Sarjano era arrivato in Nepal con la troupe televisiva di Enzo Biagi, mentre le trattative per far ottenere a Osho un visto turistico per l’Italia sembravano volgere al meglio. Ma era indispensabile il massimo riserbo per evitare complicazioni. Una sera, durante il discorso, Sarjano era accanto a Osho e lo stava fotografando, quando lui all’improvviso dichiarò che avrebbe visitato l’Italia. Non potei trattenere le risate, vedendo Sarjano alzare gli occhi al cielo, pronunciando a fior di labbra le parole “visto per l’Italia” e mimando la scena di strappare dei fogli, gettandoseli alle spalle! Eravamo in Nepal da tre mesi ed era arrivato il momento di estendere i visti. Non eravamo riusciti a trovare un palazzo, ma neppure una semplice casa per Osho, così vivevamo ancora in hotel. La situazione non sembrava promettente, anche se la gente del posto, e soprattutto il personale dell’hotel, era molto gentile e rispettoso nei confronti di Osho. Gli uomini che lavoravano in lavanderia mi chiedevano continuamente i biglietti per i discorsi serali e a loro si aggiunsero anche le cameriere e i camerieri. Una volta, quando un cameriere ci portò il tè in camera, Mukti stava ascoltando il suo walkman; il cameriere esclamò: “Stai ascoltando Bhagwan?” Si mise a sedere, si fece dare il walkman e rimase finché la cassetta del discorso non finì. Ho amato moltissimo quella gente. Anche se criticavano, lo facevano senza malizia, e sempre dopo aver ascoltato ciò che Osho diceva. Un giorno, mentre facevo degli acquisti, un negoziante mi disse: “Il tuo guru – non va bene.” E questo perché Osho in un discorso aveva detto: “…Buddha ha rinunciato alla ricchezza, ma quello non è niente: io ho rinunciato alla povertà!”.
Tuttavia, non sembrava quello il luogo in cui poter restare: certo, alcuni ministri erano venuti ai discorsi, ma il re non aveva il coraggio di riconoscere Osho. Malgrado le ricerche che avevamo fatto in lungo e in largo, non sembrava esserci un solo pezzo di terra o una proprietà in vendita. Ma la sorpresa finale fu il rifiuto dell’estensione del permesso di soggiorno. Era evidente l’interferenza del governo indiano! Rinnovare il permesso di soggiorno in Nepal è un fatto di ordinaria amministrazione, perché il paese vive praticamente sul turismo, ma nel nostro caso era diverso… Ancora una volta, si profilava una separazione: Osho non avrebbe potuto restare in contatto con i suoi discepoli occidentali, e i nove decimi dei suoi discepoli provengono dall’Occidente. Fu in quella situazione, e in molte,moltissime altre successive, che Osho ci mostrò la sua totale fiducia nell’esistenza e nei suoi discepoli.
In quei giorni, infatti, nacque l’idea di fare un giro del mondo… e Osho accettò. Amrito, una donna molto bella e carismatica che dall’epoca in cui era stata eletta Miss Grecia, aveva molti contatti con il governo e con l’alta società di quel paese, era appena arrivata a Kathmandu con il marito e l’amante. La prima volta che li incontrai nell’ascensore dell’hotel, pensai: “ Mmm, sembrano tipi interessanti.” Parlarono con Hasya, Jayesh, Vivek e Devaraj e insieme decisero che la Grecia sarebbe stata la prima tappa del tour. Ci preparammo a trasferirci lì: Osho, Vivek, Devaraj, Mukti e Anando sarebbero partiti per primi. Rafia, Asheesh, Maneesha, Neelam e io saremmo arrivati subito dopo con i bagagli. Nirupa e Ashu invece sarebbero tornate in Canada, il loro paese di origine, per ridurre un po’ la carovana. La mattina in cui Osho partì, piangevano tutti. Piangeva il personale dell’albergo, inclusa Radhika, la nostra cameriera, che singhiozzava senza riuscire a controllarsi. E piangevamo noi, nel lasciare quel posto così incantevole. Poiché l’aereo privato che avevamo affittato era rimasto bloccato a Delhi, decidemmo che Osho sarebbe partito con un volo di linea. Cliff, il pilota di Osho, che non vedevo da quando ero salita sul jet a Portland, arrivato a Kathmandu con la Royal Nepal Airlines, si trovò all’aeroporto proprio nel momento in cui arrivava la macchina di Osho. Correndo sulla pista, fece in tempo ad aprirgli la portiera della macchina. Poi venne a trovarci all’hotel. Ordinammo del tè per lui e per Geeta, la sua ragazza giapponese. Mentre parlavamo del volo di Osho che doveva passare via Bangkok e Dubai, Cliff ci spiegò il suo piano: sarebbe tornato a Delhi con un volo di linea, avrebbe portato l’aereo privato a Dubai e lì si sarebbe incontrato con Osho. Quando i camerieri arrivarono con il tè, Cliff era già partito… arrivò a Dubai con l’aereo privato proprio poco prima che Osho atterrasse. Pioveva a dirotto; Cliff strappò di mano un ombrello a un arabo e arrivò sotto la scaletta dell’aereo appena atterrato.
Quando Osho sbarcò dall’aereo, Cliff era lì con l’ombrello aperto… Osho, vedendolo, ridacchiò.