I miei giorni di luce con Osho: Capitolo Terzo

Libro di Prem Shunyo

L’ amore arriva senza volto

Alla casa di Osho è stato dato il nome ‘Lao Tzu’, e un tempo apparteneva a un Maharaja.

Fu scelta perché sovrastata da un gigantesco mandorlo che cambia colore come un camaleonte, dal rosso all’arancione, dal giallo al verde. Le sue stagioni mutano ogni poche settimane, eppure non l’ho mai visto con i rami spogli; cade una foglia e un’altra foglia verde e lucida ne prende subito il posto. Sotto il suo fogliame c’è una piccola cascata, creata da un italiano pazzo che non ha mai più fatto ritorno a Pune. Nel corso degli anni, il tocco magico di Osho ha trasformato il giardino in una giungla: ci sono boschetti di bambù, stagni con i cigni, una cascata in marmo bianco che di notte si illumina di blu riversandosi in piccoli laghetti che risplendono di luci dorate.

Imponenti rocce bianche, provenienti da una cava del deserto Rajastano, brillano al sole, contrastando con i muri di granito nero di un’ala della biblioteca. C’è un ponte in stile giapponese sopra un ruscelletto e un roseto che fiorisce fuori stagione ed è illuminato anche di notte, così che le rose siano sempre visibili dalla sala da pranzo di Osho, con un surrealismo clownesco dai colori sbalorditivi. In mezzo alla giungla serpeggia una specie di corridoio avveniristico, tutto in marmo e vetri, dotato di impianto ad aria condizionata. Fu costruito per dare la possibilità a Osho di passeggiare nel giardino senza essere disturbato dal caldo e dall’umidità del clima indiano e rende ancora più misterioso questo giardino, dove pavoni bianchi e blu si corteggiano in una danza stravagante; per non parlare di cigni, fagiani dorati, pappagalli e uccelli del paradiso, tutti portati dai discepoli di Osho da ogni parte del mondo, come bagaglio a mano… immaginatevi di arrivare alla dogana di Bombay e dire al finanziere: “Sì, viaggio sempre con i miei cigni.”

Ci sono anche moltissimi uccelli indiani che vengono a lisciarsi le penne specchiandosi nei vetri della sala da pranzo di Osho, ignari che dall’altra parte un buddha li sta osservando. La sala da pranzo è piccola e semplice e Osho siede davanti a una vetrata attraverso cui può vedere il giardino. Un cuculo lancia per primo il suo richiamo, al mattino, e mezz’ora dopo si sveglia il resto dell’orchestra. Inoltre, un gallo elettronico con tanto di altoparlanti, esplode ogni ora in un sonoro chicchirichì. “Per rammentare a tutti che stanno ancora dormendo,” ha spiegato Osho. Lui ha uno straordinario rispetto e un profondo amore per tutte le cose viventi. Gli ho sentito dire a proposito di certi alberi che dovevano essere tagliati per costruire una casa: “Gli alberi sono vivi e una costruzione è una cosa morta; gli alberi sono più importanti, dovrete costruire attorno a loro.” All’interno, la casa è più che altro una biblioteca; le pareti di marmo dei corridoi sono ricoperte di scaffali con ante a vetro. Ricordo che, il giorno in cui traslocai, arrivai con la valigia e ci sbattei subito contro, per puro miracolo non si ruppe nulla.

Quando cominciai a lavare i vestiti di Osho, ero in stato di shock. Aspettai che si dileguasse,ma non c’era niente da fare. L’energia era così forte in quella lavanderia, che dovevo ripetermi continuamente: “Qualsiasi cosa fai, non chiudere gli occhi.” Pensavo che, se avessi chiuso gli occhi, sarei proprio ‘partita’. Tutto veniva lavato a mano e steso sul tetto ad asciugare. Io giocavo con l’acqua come una bambina al mare e finivo per ritrovarmi sempre gocciolante e inzuppata da capo a piedi. Molte volte scivolavo sul marmo bagnato e cadevo come un’ubriaca, ma mi rialzavo incolume. Il lavoro mi coinvolgeva così tanto, che talvolta mi sembrava che Osho fosse nella stanza. Una volta, improvvisamente commossa mentre stavo stirando una sua tunica, mi inginocchiai con la fronte appoggiata sul tavolo da stiro e lui era lì, lo giuro!

Adesso i tempi sono cambiati, abbiamo la lavatrice e raramente mi bagno le mani, anche perché indosso i guanti di gomma, ma la quantità di roba da lavare è sempre miracolosamente in proporzione alle ore lavorative. Non ho mai capito come lavare i vestiti di un solo uomo potesse essere un lavoro a tempo pieno. Eppure lo era. Quando mia madre venne a sapere che sarei rimasta in India e che avevo il privilegio di essere la lavandaia di Osho, mi scrisse che non riusciva a capire come avessi potuto fare tutta quella strada solo per lavare i panni di qualcuno e mio padre aggiunse che, se tornavo a casa, avrei potuto lavare la sua di roba…

Non solo ho fatto tutta quella strada fino in India per fare la lavandaia, ma ho continuato a farla in ogni angolo del mondo! Dall’attrezzata e quasi asettica lavanderia di Pune, sarei passata nel seminterrato di un castello nel New Jersey; in una casa prefabbricata nel deserto dell’Oregon; in una baita nel Nord dell’India, dove non c’era acqua e dovevamo sciogliere la neve nei secchi; nel seminterrato di un hotel di Kathmandu dove lavoravo con altri cinquanta nepalesi; in un bagno a Creta; in una cucina convertita in lavanderia in Uruguay; in una stanza da letto di una villa della campagna portoghese; e poi di nuovo nel posto dove avevo incominciato, a Pune.

La lavanderia era come un grembo materno per me, ed era ubicata di fronte alla stanza di Osho, quindi in una parte della casa dove non veniva mai nessuno. Ero completamente sola e spesso l’unica persona che vedevo durante tutto il giorno era Vivek. La gente mi chiedeva se non mi annoiassi a fare sempre lo stesso lavoro, ma la noia mi era sconosciuta perché la mia vita era molto semplice e avevo pochissime cose a cui pensare. I pensieri c’erano, ma erano come ossa prive di carne. Da quando ero arrivata da Osho, la mia vita era cambiata in un modo che non mi sarei mai potuta immaginare. Ero così felice e appagata, che lavorare in lavanderia era il mio modo per esprimere gratitudine; e la cosa buffa è che più attenzione e amore ci mettevo, più realizzata mi sentivo, creando un cerchio di energia che continuamente ritornava verso di me.

Osho non si lamentò mai, né rimandò indietro qualcosa, anche se durante il mio primo monsone gli portai degli asciugamani che puzzavano di muffa. Dovete aver vissuto in India durante i monsoni, per capire quello che succede ai panni umidi: l’odore di muffa non si sente fino a che l’asciugamano viene usato e quindi non me n’ero accorta. QuandoVivek mi disse che gli asciugamani puzzavano di muffa, rimasi sorpresa, ma quando aggiunse che in realtà era una settimana che andava avanti così, mi turbai e chiesi: “Perché Osho non me l’ha detto subito?” Aveva aspettato alcuni giorni per vedere se me ne accorgevo da sola, o per vedere se le cose sarebbero cambiate senza doversi lamentare. A volte mi fermavo, mi sedevo immobile e venivo sopraffatta da un’immensa sensazione d’amore. Non che pensassi a qualcuno o tantomeno vedessi la faccia di qualcuno nella mia mente: era una strana sensazione. Prima d’allora, mi ero sentita colpita dall’amore solo quando qualcun altro ne aveva fatto scattare il meccanismo e anche allora non era mai stato così forte. Mi sentivo come ubriaca, ma un’ubriacatura sottile e raffinata, e scrissi una poesia:

“La memoria non rievoca il tuo volto

Per questo l’amore arriva, senza volto.

Sconosciuta è la parte di me

Che ti ama.

Non ha nome. Viene e va.

E quando si allontana

Mi asciugo il viso solcato dalle lacrime

Perché rimanga un segreto.”

Osho rispose:

“L’amore è un mistero, il più grande mistero che esista. Puoi viverlo, ma non puoi conoscerlo: puoi assaggiarlo, farne l’esperienza, ma non puoi comprenderlo. È qualcosa al di là di ogni comprensione. Quindi, la mente non può prenderne nota. Non diventa mai un ricordo. I ricordi non sono altro che appunti presi dalla mente, i ricordi sono tracce lasciate nella mente. L’amore non ha corpo. Non lascia impronte.” Spiegò che quando l’amore viene sentito come preghiera, non contaminato da alcuna forma, viene sentito nel superconscio. Ecco perché non mi era familiare il modo in cui amavo.

A quel tempo non avevo ancora compreso cosa volesse dire superconscio. All’epoca moltissimo di quello che Osho diceva era al di là delle mie possibilità di comprensione, ma ho cominciato a capirlo sempre di più, facendone esperienza personalmente.

“…Ci sono tre stadi della mente: inconscio, conscio e superconscio… Man mano che il tuo amore cresce, capirai molte cose del tuo essere che ti sono rimaste sconosciute. L’amore ti condurrà a stadi più elevati e ti sentirai molto strana. Il tuo amore sta entrando nel mondo della preghiera. È incredibilmente significativo, perché al di là della preghiera c’è solo Dio. La preghiera è l’ultimo scalino dell’amore. Al di là c’è il Nirvana, la liberazione.”

Ascoltare Osho parlare di livelli di consapevolezza o di illuminazione sembrava pura magia. Mi sentivo così ispirata, così eccitata che volevo urlare. Una volta gli dissi che i suoi discorsi erano così eccitanti che mi facevano venire voglia di urlare. “Urlare?” commentò, quasi interdetto, “mentre sto parlando?”.

Lavorare vicino a Osho è una grande benedizione e non importa cosa fai: se gli cuci i vestiti, o lavori per riparare l’impianto dell’aria condizionata, o cerchi di aggiustare le tubature di notte, per permettergli di fare una doccia al mattino, oppure esegui una delle altre piccole mansioni che i discepoli amano fare, da che mondo è mondo, pur di stare vicino al proprio Maestro. Quella benedizione deriva solo dalla tua consapevolezza e dal tuo amore. Sarà una cosa molto difficile da capire per coloro che vivono e lavorano per denaro, e in funzione dei soldi, e non si sentono realizzati dal proprio lavoro. Costoro dividono la giornata in due parti: il tempo che appartiene al padrone o all’azienda, e il tempo ‘libero’. Nell’Ashram esiste solo il tempo libero, e io lo dedico a ciò che mi nutre di più. Mi sento viva e rinvigorita quando faccio qualcosa per Osho, perché la sua consapevolezza accende la mia, e ogni cosa fatta con coscienza e consapevolezza è più divertente. Mi ha sempre colpito il modo in cui la gente lavora per Osho, sebbene conosca l’immensa gioia che se ne trae. Se si lavora tutta la notte facendo qualcosa per Osho, la qualità stessa di quel modo di lavorare crea una sensazione incredibile, e questa è la ricompensa: sentirsi benissimo. E quando sei con qualcuno che ti fa sentire così bene, che cosa puoi fare, se non dire grazie attraverso le piccole cose con cui sei in grado di esprimerlo?

È così facile amare Osho, perché il suo amore non pone condizioni, non chiede niente in cambio, e per esperienza so che non posso fare niente di ‘sbagliato’ ai suoi occhi. Posso essere inconsapevole e commettere errori, ma sarò solo io a soffrirne e lui lo sa. La sua compassione sembra immensa, lui ci chiede solo di meditare e imparare dai nostri errori. Ho sempre visto Osho in uno stato permanente di beatitudine. Non l’ho mai visto di cattivo umore o perdere il suo calmo e centrato rilassamento. Lui non ha desideri o ambizioni, non ha bisogno di niente e di nessuno. Proprio per questo, non ho mai neppure preso in considerazione la possibilità di essere sfruttata. Non mi ha mai detto cosa fare o come farlo. Se gli avessi domandato un parere riguardo a un problema, al massimo mi avrebbe dato un consiglio, e io ero libera di accettarlo o meno. Qualche volta non l’ho fatto e ho voluto fare a modo mio, lui non mi ha mai criticata. Accettava che quello era il mio modo per imparare – anche se era il più difficile – perché poi i fatti hanno sempre dimostrato che aveva ragione lui.

Divenne sempre più ovvio, per me, che l’unica sua ragione di essere qui, era aiutarci a crescere in consapevolezza e a scoprire la nostra individualità. Come ho già accennato in precedenza, prima di iniziare a meditare credevo di essere la mia mente. I pensieri che si inseguivano senza sosta nella testa, erano tutto ciò che conoscevo. Ora comincio a capire che anche le emozioni non mi appartengono e che le mie reazioni emotive derivano dai condizionamenti che formano la mia personalità. Un Maestro non ha ego, non ha personalità. Ha realizzato il suo ‘essere’ e nel realizzarlo la personalità è scomparsa. La nostra personalità e il nostro ego ci sono dati dalla società e da tutti coloro che hanno avuto una forte influenza su di noi quando eravamo bambini. L’ho notato in me stessa, alle volte reagisco a una particolare situazione in modo tipicamente ‘cristiano’, eppure non sono mai andata a messa e in casa dei miei genitori non c’è mai stata una Bibbia. Mi sono stupita ogni volta che ho scoperto il mio condizionamento cristiano, e a questo punto posso solo presumere che sia nell’aria che respiriamo. Il cristianesimo è ovunque, nel modo in cui la gente pensa e si comporta, anche se oggi non è altro che un miscuglio di idee sorpassate e moralismo che qualcuno come me assorbe quasi per caso. Tutti possono vedere chiaramente come persone di diverse nazionalità abbiano modi di comportarsi diversi. Quando mi sono resa conto che tutti gli esseri umani sono fatti di carne e ossa, mi è stato altrettanto chiaro che i diversi condizionamenti non sono parte di ciò che veramente siamo. Diventare consapevole di tutti i miei condizionamenti è il risultato più importante cui la meditazione mi porta, perché quando medito sono solamente una presenza silenziosa e immutabile.

In quel periodo praticavo il latihan nella mia stanza. Il latihan è una tecnica di meditazione usata da Subud durante la quale si sta in piedi in silenzio e ci si ‘apre’ all’esistenza. L’energia che fluisce in chi medita può assumere qualsiasi forma, dalla danza al canto, dal pianto al riso; può succedere qualsiasi cosa, ma si rimane consapevoli di essere solo un tramite. Era un’esperienza piacevolissima. Avevo la sensazione di perdere me stessa e questo mi faceva sentire euforica. Mi mettevo in piedi nello stesso posto, ogni giorno, e, come qualcuno ogni sera si fa un drink, anch’io non vedevo l’ora che arrivasse il momento del latihan e quando non lo facevo, mi mancava. Andai avanti per settimane, finché cominciai a non sentirmi più bene; non avevo una malattia particolare, ma mi sentivo giù e piangevo facilmente. Ero preoccupata, forse avevo permesso che questo lasciarmi possedere avvenisse troppo spesso e mi facesse ammalare.

Un giorno, mentre piangevo,Vivek mi vide e mi chiese cosa succedesse. Le risposi che avevo l’impressione di soffrire per un’overdose di latihan. Lei lo riferì a Osho e mi arrivò il messaggio di andare al darshan portando con me il latihan. Al darshan, Osho mi chiese di inginocchiarmi accanto alla sua sedia e di lasciare che il latihan ‘arrivasse’. Chiusi gli occhi e quella sensazione arrivò, sebbene non molto forte. Era come se qualcuno fosse dietro di me, qualcuno molto, molto alto e poi iniziasse a muoversi dentro e attraverso di me. Mi sentivo espandere in tutto l’Auditorio. Alcuni minuti dopo, Osho mi fece tornare in me e disse che andava tutto bene. Dopo quel darshan, il desiderio di tornare in quella dimensione svanì completamente e non ci pensai più. In seguito, quella stanza fu trasformata nello studio dentistico di Osho e sette anni dopo, in una situazione completamente differente, mi trovai a ‘essere posseduta’ ancora una volta in quello stesso punto.

Vivek si prendeva cura di Osho ormai da sette anni. Il suo rapporto con lui è antico, risale a vite precedenti, secondo quanto Osho ha raccontato nei suoi discorsi – e lei se lo ricorda. Era una donna-bambina misteriosa dai grandi occhi blu, del segno dei Pesci, con tutte le qualità di coloro che appartengono a questo segno dominato da Nettuno. Non aveva mai lasciato Osho neanche per un giorno, così quando annunciò che sarebbe andata in Inghilterra per due settimane e io mi sarei dovuta prendere cura di lui… mi ritrovai in uno stato di grande confusione e, sforzandomi di stare nel presente, dissi a me stessa: “Non sta succedendo niente, non sta succedendo niente, stai calma.” Com’era possibile essere abbastanza puliti per entrare nella stanza di Osho? Quando sapevo che la sera lo avrei visto al darshan, stavo praticamente tutto il giorno sotto la doccia prima di sentirmi pronta, mi lavavo via la pelle. La prima cosa che feci per Osho, fu di portargli una tazza di tè che purtroppo gli arrivò freddo! Lo avevo preparato prima che lui fosse pronto. Stava ancora facendo il bagno. Mi misi a sedere sul freddissimo pavimento di marmo, fissando il vassoio del tè, domandandomi cosa fare. Se fossi andata a prepararne un altro, Osho sarebbe potuto uscire dal bagno proprio in quel momento, chiedendosi dove fosse il tè; così aspettai.

Fa sempre molto freddo nella sua stanza. Negli ultimi tempi voleva avere sempre la temperatura intorno ai dodici gradi (anche ora che ha lasciato il corpo, la sua stanza è rimasta acclimatata a questa temperatura). Dovunque Osho andasse, riuscivo sempre a individuare un leggero odore di canfora o menta. E quel giorno quell’odore era presente nella stanza. All’improvviso lui era lì e stava attraversando la stanza per andare verso la sua sedia. Fece una risatina e mi salutò. A quel punto avevo completamente dimenticato la storia del tè e glielo porsi. Lo bevve come se si trattasse della migliore tazza di tè che avesse mai bevuto e subito non disse niente. Più tardi, mi suggerì che forse un’altra volta avrei potuto versare il tè dopo che fosse uscito dal bagno e non prima. Ero profondamente colpita dalla sua umiltà. Avrebbe potuto benissimo dire: “Che schifo, è freddo, fanne un altro!” Chiunque altro avrebbe reagito così, ma lui fece in modo di non farmi sentire imbarazzata e solo in seguito compresi quello che era accaduto…

“Adorato Maestro, come beve il tè un uomo dello Zen?”. “Per un uomo dello Zen tutto è sacro, perfino bere una tazza di tè. Qualsiasi cosa faccia, la fa come se fosse in uno spazio sacro.” Osho riceveva i sutra e le domande per il suo discorso del mattino alle 7,45 dello stesso giorno. Il discorso cominciava alle 8. Io gli leggevo le domande e lui ne sceglieva alcune, insieme a qualche barzelletta. Le domande e i sutra a volte mi toccavano al punto che cominciavo a piangere. Ricordo che una volta le lacrime mi inondarono il viso, e non riuscii a parlare. Ero seduta ai suoi piedi e lo guardavo, e lui aspettava che continuassi a parlare. Distolse deliberatamente il suo sguardo da me, e così, non vedendo i suoi occhi, riuscii a rimettermi in sesto. Stavo imparando che non sono né il mio corpo, né la mia mente, ma non essere le mie emozioni mi era più difficile. Quando piangevo e sentivo le lacrime scorrermi sulle guance, alle volte riuscivo a non esserne coinvolta, ma non riuscivo ugualmente a farci niente, la parte emotiva prendeva ancora il sopravvento. Era sempre una grande prova riuscire ad andare avanti in una simile situazione, senza permettere alle mie emozioni di interferire. Ma una volta Osho disse che ero una perfetta piagnucolona. In alcune occasioni, quando Maneesha – la persona che al discorso leggeva i sutra e le domande a Osho – era malata e così pure Vimal, il suo sostituto, Osho, a cui piaceva che qualcuno ponesse le domande con un perfetto accento inglese, disse: “Per favore non fatele leggere né a Vivek né a Chetana, loro piangono sempre…”.

Sapevo quanto vicini fossero Osho e Vivek, da anni, e mi stupì molto vedere come in lui non cambiasse niente dopo la sua partenza: continuò come se nulla fosse successo. Non ho mai visto nessuno tanto immutabile di fronte a un continuo susseguirsi di situazioni nuove. La sua vitalità, la sua vibrazione non cambiano mai; non ha sbalzi d’umore, solo un costante fluire dell’essere. Qualunque cosa si faccia vicino a Osho – e l’ho visto accadere a molte persone, non solo a me – la consapevolezza si ingigantisce a un punto tale, che diventa difficile persino camminare. Lui è così tranquillo, pieno di grazia e così presente che agisce da specchio.

Il semplice aprirgli la porta mi creava tantissime difficoltà: aprirla al momento giusto per non sbattergliela in faccia; con la mano destra o con quella sinistra, inchinarsi o no mentre entrava. Ma al tempo stesso questo non causava alcuna tensione, perché Osho è assolutamente rilassato. È come avere la possibilità di guardarsi mentre fai qualcosa consapevolmente per la prima volta. Quando iniziai a compiere ogni gesto con consapevolezza, mi sentii un po’ impacciata. L’abitudine ad agire meccanicamente rendeva le mie azioni molto appannate. È sufficiente passare un bicchiere d’acqua a Osho, perché la consapevolezza sia lì; questo è il dono incredibile che accade quando gli sei vicino. Può non sembrare una gran cosa, ma per me, cominciare a vivere consapevolmente è il regalo più prezioso che abbia mai ricevuto.

Un giorno Vivek telefonò per dire che stava tornando, e Laxmi entrò tutta eccitata nella sala da pranzo, mentre Osho stava mangiando, per riferirglielo. In quel momento lui stava parlando con me; si girò, ringraziò Laxmi per ilmessaggio, poi continuò con quello che stava dicendo senza mancare un colpo. Ero sbalordita. Nessun segno di emozione, neanche un tremolio negli occhi. Era l’esempio vivente di quello di cui ci parlava: amore senza attaccamento e vivere nel momento.

Che cosa riesce a vedere il Maestro quando ci guarda? Forse controlla la nostra aura? Ci legge nella mente? Vorrebbe forse leggerci nella mente? Non credo proprio. Ma certamente vede cose che io non posso vedere. Una mattina andai al discorso insieme a Osho. Lo andai a prendere nella sua stanza alle 8, camminai dietro di lui lungo il corridoio che porta a Chuang Tzu, poi mi misi a sedere e rimasi così per un’ora, finché finì di parlare. Quella mattina la meditazione era stata fortissima per me, un’ora era passata letteralmente in due minuti e sentivo che mi era capitato qualcosa di insolito. Finito il discorso, eravamo nel corridoio e io lo precedevo. Mentre gli aprivo la porta e lui camminava verso di me per entrare nella sua stanza, mi disse:

“Chetana, dove sei stata?”.

Pensai: “Oh, forse non si ricorda che l’ho accompagnato al discorso, forse è un po’ spaesato…” e risposi: “Sono stata al discorso…”. In quel momento stava proprio passando davanti a me e fece una risatina… Mi misi a ridere anch’io. Mi ero ricordata dove ero stata! Al discorso Osho era magnetico e carismatico. I suoi occhi erano infuocati e i suoi gesti avevano la grazia di un felino. In quel periodo, a Pune, le sue giornate erano piene: leggeva cento libri alla settimana, lavorava con la sua segretaria Laxmi e, oltre al discorso delle 8 del mattino, c’era il darshan alle 7 di ogni sera. Non si ammalò mai e durante quegli anni parlò di Gesù, del Sufismo, dello Zen, di Lao Tzu, di Chuang Tzu, del Taoismo, dello Yoga, dei mistici Hindu e Chassidici e di Buddha. Commentò tutti i sutra di Buddha. Un commento al sutra del diamante si apre con queste parole: “Il sutra del diamante apparirà alla maggior parte di voi assurdo, folle. È irrazionale, ma non anti-razionale. È al di là della ragione, ecco perché è così difficile esprimerlo a parole.”

Osho ha commentato i sutra di Buddha per quasi cinque anni, intercalandoli con discorsi sui Sufi e con le domande dei discepoli. Era il giorno della luna piena di Buddha (luna piena di maggio) quando lesse l’ultimo sutra del Dhammapada. Osho disse: “Buddha nacque, si illuminò e morì nello stesso giorno e per puro caso oggi è quel giorno.” Il tempismo di Osho è sempre stato,ed è ancora, al di là dell’incredibile… Per due anni uscii di casa raramente. La lavanderia e il discorso del mattino mi riempivano la giornata tantissimo, fin troppo. A volte Osho mi mandava a dire di andare al darshan. Durante i darshan, parlava con le persone dei problemi che queste sentivano di avere. Si sedeva e ascoltava attentamente chiunque, come se quella fosse la sola persona al mondo per lui in quel momento e poi rispondeva in maniera tale da dissolvere il problema. Quando migliaia di persone ti hanno raccontato i loro problemi, ti rendi conto che di fatto non ci sono problemi, o meglio, ce ne sono ben pochi e quei pochi si ripetono costantemente. È la mente il solo vero problema. Per quanti anni si possono ascoltare le stesse cose continuamente? La sua pazienza e la sua compassione mi hanno sempre sorpresa, stupita e lasciata meravigliata. Col tempo, però, anche il darshan stava cambiando: Osho parlava sempre meno, e si intratteneva con le persone facendo giochi di energia. Noi veterani li chiamavamo energy darshan e capivamo che in quei momenti accadeva qualcosa di reale, sebbene intangibile, che nessuna parola avrebbe mai potuto esprimere.

L’ultimo ‘darshan parlato’ che ebbi fu quello che mi colpì di più. Ancora adesso, dopo tanti anni, posso ricalarmi nell’incredibile sensazione di allora e sentirmi di nuovo, come allora, ripulita e nutrita come non mai: in me affiora, al semplice ricordo, una pienezza totale e assoluta, e proprio per questo eterna. Quel giorno, scrissi a Osho raccontandogli un grande ‘dramma’ che mi stava accadendo e ricordo che la lettera finiva così: “Ti supplico di aiutarmi.” La risposta fu: “Vieni al darshan.” E la sera, eccomi lì: mi sedetti davanti a lui, mi guardò e mi chiese: “Che cosa c’è?”. Guardai nei suoi occhi e tutto sparì. “Niente”, risposi ridendo e gli toccai i piedi. Sorrise e disse: “Bene.”

Da quel giorno, ogni volta che mi sento disturbata da qualcosa,mi fermo e mi chiedo che cosa sta veramente succedendo, che cosa c’è. In quel momento non sta succedendo niente, proprio niente. Naturalmente, non sempre me ne ricordo; le abitudini della mente e la sua abilità nel creare problemi hanno radici molto profonde. Per me è sempre un grande mistero vedere come a volte ‘divento consapevole’ e poi me ne dimentico completamente. Alle volte sono libera come un buddha, ma poi ricado nelle mie vecchie abitudini e lascio che la mente mi renda di nuovo schiava. Erano passati quasi due anni e in tutto questo periodo non avevo avuto nessun interesse per gli uomini. Ora posso dire che quelli sono stati gli anni più tranquilli e felici della mia vita. Non avevo alcun problema, ero felice stando da sola. A volte, mentre tornavo nella mia stanza ero così eccitata, come se ci fosse stato qualcosa ad aspettarmi e allora pensavo: “Che cos’è? Sono forse nel mezzo di un libro eccitante?” Ma non c’era niente, solo che non vedevo l’ora di stare da sola. Ero profondamente appagata.

Una mattina, mentre ero seduta al discorso, rimasi molto sorpresa quando Osho cominciò a parlare di me spiegando come riconoscere il tipo di cammino scelto dai vari ricercatori : “La prima cosa è decidere se si prova gioia nello stare da soli. Per esempio Chetana, che è seduta qui davanti a me. Vivek mi chiede sempre: ‘Chetana sta sempre da sola ed è così felice, qual è il segreto?’ Vivek non può comprendere che si possa vivere totalmente in solitudine. Ebbene, tutto il lavoro di Chetana consiste nel lavare i miei vestiti; quella è la sua meditazione. Non esce mai, nemmeno per andare a mangiare; si porta il cibo a casa, come se non fosse interessata più a nessuno. Se ti piace stare da solo, allora la tua strada è la meditazione. Ma se senti che sei pieno di gioia, più allegro, più vivo ogni volta che entri in contatto con gli altri, quando stai con gli altri, allora la tua strada è certamente quella dell’amore.

La funzione del Maestro è aiutarti a scoprire qual è la tua strada, che tipo di ricercatore sei.” (dal Dhammapada)

Alcune settimane dopo quel discorso, ci fu un’epidemia di varicella a Pune ed era troppo rischioso per Osho uscire per il discorso del mattino… in un giorno, ritmi e abitudini cambiarono. Per la prima volta in molti anni non potei vedere Osho e mi mancava. Ascoltai più volte la registrazione del discorso in cui mi era stato chiaramente detto che la mia strada era quella della meditazione e della solitudine. Volevo mettere alla prova ciò che mi aveva detto. Volevo vedere se veramente ero centrata nella mia solitudine. E fu proprio in questo stato d’animo che un mattino, mentre uscivo dal cancello, un uomo che avevo visto molte volte ed era famoso perché era uno dei Casanova dell’Ashram, mi gridò: “Ci vediamo più tardi?” Gli risposi di sì. Si chiamava Tathagat e sembrava un guerriero – era muscoloso, con il viso segnato e lunghissimi capelli neri. Mi innamorai di lui e fui inondata da tutte quelle emozioni che non sentivo da anni e che credevo finite: gelosia, rabbia e chi più ne ha più ne metta; le provai tutte. Ricominciò la giostra…

“Vivi nel mondo, ma senza appartenere al mondo”, ho sentito Osho ripetere molte volte. Ora avevo un’altra possibilità dopo aver vissuto letteralmente come una suora di clausura per due anni. Ero beatamente felice, ma in qualche modo era tutto troppo sicuro, troppo comodo. Volevo passare ancora una volta attraverso il vecchio dramma di sempre, ma questa volta osservandolo dall’alto delle mie ali spiegate.

Pubblicato in I miei giorni di luce con Osho.