Libro di Prem Shunyo
Rajneeshpuram: un’oasi nel deserto.
Era una nazione a sé, libera dal sogno americano. Forse fu per questo che i politici americani le dichiararono guerra.” (Osho)
Di nuovo eravamo in viaggio. Volammo attraverso l’America, io, Asheesh, Arpita e Gayan. Asheesh è un mago del legno. Ma non è soltanto un falegname bravissimo,costruisce anche le poltrone di Osho e sa riparare le tante cose che in casa spesso si rompono inaspettatamente. Quando c’è qualcosa da riparare o da inventare si sente sempre gridare: “Asheesh, Asheesh, dov’è Asheesh?” Ha un modo stupendo di parlare con le mani, perché è italiano. Arpita ha sempre fatto le scarpe di Osho; è molto eccentrica, dipinge quadri Zen e ha una personalità estrosa che ha espresso in quegli anni,aiutando a creare i vestiti di Osho.
Gayan era arrivata nel New Jersey dopo che Vivek le aveva telefonato inGermania e le aveva detto: “Vieni.”Al suo arrivo, l’andò a prendere all’aeroporto e le disse: “Spero tu sappia cucire.” Sapeva farlo, e da allora ha sempre cucito tutti i vestiti del fantastico guardaroba di Osho. È anche una ballerina, e appare nei video registrati in occasione delle Celebrazioni che negli anni successivi sarebbero state organizzate al Ranch: la si vede mentre,con i suoi lunghi capelli neri, danza gioiosamente intorno a Osho sul podio di Rajneesh Mandir, la grande Hall dove si andava a meditare. Volammo insieme attraverso l’America e atterrammo in Oregon, solo dodici ore prima che arrivasse Osho. Non mi ricordo niente di quel volo, ma non dimenticherò mai la strada interminabile che si snodava fra le montagne e che portava nell’interno, fino al ‘Big Muddy Ranch’ appena acquistato. Per miglia e miglia, la strada era fiancheggiata da fiori secchi alti e spinosi e da cactus tutti ricoperti di polvere che, illuminati dai fari della macchina, sembravano degli spettri gialli, bianchi e grigi.
PerOsho era stata approntata una casa prefabbricata, conosciuta in America come ‘trailer’, di fianco alla quale ne era stata sistemata un’altra,in cui avrebbero vissuto le persone che si prendevano cura di lui. Le due abitazioni erano in pieno fermento: come al solito, tutti stava molavorando in corsa contro il tempo… di lì a poco Osho sarebbe arrivato e tutto doveva essere pronto. Lavorammo quasi tutta la notte, dandogli ultimi ritocchi alle tende e ripulendo a fondo quel gioiello della tecnologia, per eliminare polvere e odori. Nel frattempo, all’esterno qualcuno stendeva rotoli d’erba, come fosse moquette, per rendere meno desertico quell’ambiente decisamente brullo e desolato.
Il trailer era tutto di plastica. Non avevo mai visto una cosa simile. In caso di incendio, sarebbe bruciato nel giro di dieci secondi! La casa diOsho era uguale alla nostra, con la sola differenza che non aveva la moquette (a causa delle sue allergie), bensì un pavimento di linoleum bianco. Le pareti erano ricoperte di pannelli di plastica in finto legno. Undici di noi avrebbero vissuto nell’altro trailer, che avrebbe ospitato anche la sartoria. Devaraj ilmedico, e Devageet, il dentista di Osho, dividevano una stanza. Dopo Monty Phython, essi sono il prodotto più divertente del tipico umorismo inglese. C’erano anche Nirupa, la pre-raffaellitadel gruppo, con i suoi lunghissimi capelli d’oro, e Haridas, un tedesco molto alto, che aveva quarantacinque anni, ma ne dimostrava quindicidi meno ed era stato uno dei primi discepoli occidentali di Osho. E poi Nirgun, che allora aveva già sessant’anni, ma era l’ultima a stancarsi quando ballavamo al suono della nuova musica americana che avevamo appena scoperto. Vivek avrebbe avuto la sua stanza nel trailer vicino,dove Osho aveva una stanza da letto, un soggiorno e un bagno. Era ancora troppo buio per riuscire a vedere qualcosa del panorama che ci circondava; per cui, stanca e di cattivo umore, andai a dormire. Mentre facevo la doccia, la mattina dopo, mi affacciai alla finestra: il trailersi trovava in una piccola valle e alle spalle si ergeva una roccia enorme e maestosa; lo spettacolo mi ammaliò al punto che uscii di casa nuda,tutta bagnata e andai a inginocchiarmi per terra. Osho arrivò quella mattina e trovò un gruppetto di sannyasin seduti suquell’erba ‘istantanea’ che cantavano canzoni. Si sedette con noi in meditazione e il suo silenzio divenne così profondo che la musica lentamente si spense. Per attimi eterni rimanemmo tutti seduti in silenzio ai piedi di quelle aspre montagne. Poi il Maestro si alzò, si guardò intorno e incominciò a salire i gradini della scaletta che portava all’ingresso del suo trailer. Noi rimanemmo seduti a guardarlo mentre, in piedi sulla veranda, con una mano sul fianco si guardava intorno. In seguito avrebbe detto di essere rimasto colpito nel vedere che non c’erano alberi in una terra così vasta…prima di allora non aveva mai visto una casa‘così nuda’; e con questo intendeva una casa priva di giardino o di piante di ogni sorta. In effetti, quel luogo era l’opposto della giungla esotica e lussureggiante che circondava la sua casa in India.
Quando arrivammo a Rajneeshpuram, c’erano solo due case in tutta la proprietà. Tuttavia, in quei primi mesi, animati da grande spirito pionieristico,iniziammo a darci da fare. Eravamo in agosto e giorno dopo giorno a noi si aggiungevano altri sannyasin, spinti dalla voglia di rendere tangibile quella visione di “una nuova Comune” di cui Osho avevatanto parlato nei suoi discorsi. All’arrivo venivano sistemati in tende,ma occorreva agire in fretta perché tutte quelle persone potessero avere un trailer col riscaldamento prima che arrivasse l’inverno, periodo in cui la temperatura poteva scendere fino a dodici gradi sotto zero. Mangiavamo tutti insieme, su tavoli all’aperto, di fronte a una delle due case che costituivano ‘il centro abitato’ dell’antico Ranch, e con l’avanzare dell’inverno, prima di mangiare dovevamo raschiare il ghiaccio dai tavoli, altrimenti i piatti ci scivolavano addosso. Mettevamo la birra alfresco in uno stagno, perché ancora non avevamo un frigorifero, ma l’ora dei pasti era stupenda. Uomini e donne erano vestiti nello stesso modo, con enormi giacconi, jeans, stivali e cappelli da cowboy. Se anni prima avevo pensato che gli uomini sannyasin fossero troppo effeminati,adesso era esattamente il contrario.Nella casa di Osho, quando pioveva, il tetto del soggiorno gocciolava,ed era una cosa veramente penosa vederlo seduto lì, con un secchio a ogni lato della sua poltrona. La stanza era vuota, se si escludono un tavolo basso di quercia e una poltrona. Le stanze in cui ha vissuto sono sempre state molto semplici,libere dalla solita mobilia ingombrante. Non c’erano quadri ai muri, né decorazioni, nessun effetto personale, fatta eccezione per uno stereo, mail vuoto di una stanza di plastica non aveva la maestosità e la qualità Zen di una stanza di marmo, il vero ‘arredamento’ che ha sempre privilegiato.
Mi sentivo male vedendolo in quell’ambiente, anche se notai che per lui non faceva nessuna differenza. Lui era a casa dovunque, nonl’ho mai sentito lamentarsi di come o di dove viveva: accettava che questo fosse ciò che l’esistenza gli dava e io ho sempre sentito che era sempree comunque profondamente grato, perché sapeva e aveva fiducia che col nostro amore questo era ciò che potevamo offrire. Ma di certo non era il massimo che potevamo fare, e così incominciammo a costruire un’estensione al trailer di Osho, che avrebbe dovuto ospitare anche i servizi medici e spazi abitabili d’emergenza, anche se devo confessare che allora non riuscivo a capire che cosa si intendesse per‘emergenza’… eppure, nel progetto, erano previsti. Quando quella nuova ala venne terminata, nove mesi dopo, risultò essere così bella che Osho si trasferì lì, dal suo trailer di plastica. Questo fu il primo segno di attrito fra Sheela e Vivek perché, per qualche ragione, Sheela non voleva che Osho si spostasse. L’estensione era stata costruita da Richard, che allora era il ragazzo diVivek, e aveva una stanza da letto e un soggiorno interamente rivestiti di legno. Il bagno era il più bello che Osho avesse mai avuto: era enorme e aveva una vasca dabagno con idromassaggio. Un lungo corridoio portava a una piscina olimpionica e nel reparto medico c’era una sala operatoria dotata dei macchinari più avanzati. A Vivek, il Ranch non era piaciuto sin dall’inizio e spesso era infelice e si ammalava. Ma non aveva davvero paura di dire come la pensava eun giorno dichiarò via radio – un sistema di comunicazioni a onde corte che avevamo creato per restare in contatto in quell’estensione di terra sconfinata, pari a 240 chilometri quadrati – così che tutti potessero ascoltare,ciò che pensava esattamente di quello ‘sterile deserto’: le sarebbe piaciuto bruciarlo quel posto maledetto. Era una donna che viveva l’intero arcobaleno delle emozioni: quando era felice, era come una bambina e sprizzava gioia e innocenza da ogni poro, come raramente mi è capito di vedere in un adulto, ma quando era infelice, era decisamente meglio starle alla larga. Aveva una grande abilità nello scoprire i problemi e nel vedere i difetti delle persone. Mi era impossibile discutere con lei, perché avevo l’impressione che avesse sempre ragione. E ho sempre pensato che una critica ha molto più peso di un complimento: sconvolge e condiziona molto di più.
Osho iniziò subito a voler fare i suoi giri quotidiani in automobile e quando Vivek non voleva andare, lo accompagnavamo io o Nirupa. In quei momenti di intimità, a volte mi chiedeva come andava la Comune di Sheela. Devo dire, a onor di cronaca, che per lui quella fu sempre“la Comune di Sheela”. Più tardi, lo avrebbe chiarito pubblicamente: “… io non sono neppure parte della vostra Comune; sono solo un turista, non sono neppure un residente. Questa casa non è la mia residenza, ma solo una casa per gli ospiti. Non ho alcuno status nella vostra Comune. Non sono il leader della vostra Comune, non ne sono il capo. Io non sono nessuno… mi sarebbe piaciuto indossare una tunica rossa, ma l’ho evitato semplicemente perché sia chiaro che non sono in nessun modo parte di voi. Eppure voi mi avete ascoltato, sebbene non abbia alcun potere. Io non posso imporvi niente, non posso darvi ordini, non posso darvi comandamenti.I miei discorsi sono esattamente questo, semplici discorsi. Vi sono grato perché mi ascoltate; accettare o non accettare quello che dico è affar vostro. Ascoltare o non ascoltare è una vostra decisione. Io non interferisco in alcun modo con la vostra individualità.”(Da La Bibbia di Rajneesh)
Devo riconoscere che in quei primi tempi, tutto andava a meraviglia; centinaia di persone continuavano ad arrivare ogni giorno, e con una fantastica velocità, all’americana oserei dire, una città stava letteralmente spuntando in quel deserto. In un anno, creammo spazi abitabili per mille residenti e diecimila visitatori, fu iniziato un aeroporto, si costruirono un hotel, una discoteca, una fattoria che produceva vegetali, un centro medico, una diga e una mensa abbastanza grande da riuscire a sfamare tutti quanti. Quando Osho mi chiedeva come andava la Comune di Sheela, io gli rispondevo che mi sentivo come se fossi “nel mondo”. Non era una lamentela, era solo un’indicazione di come fosse tutto diverso dai giorni in cui la meditazione era l’evento principale nelle nostre vite, cioè ai tempi dell’Ashram di Pune. Sheela non era una meditatrice e la sua influenza sulla Comune imponeva che il lavoro, solo il lavoro, fosse importante. Oggi mi rendo conto che, attraverso il lavoro poteva dominare le persone, perché aveva le sue graduatorie di merito in conformità alle quali ricompensava i lavoratori.
La meditazione era considerata una perdita di tempo e anche nelle rare occasioni in cui meditavo, mi sedevo con un libro davanti, per non essere ‘scoperta’ se qualcuno fosse entrato nella stanza. In questo ambiente,quasi non mi ricordavo più dell’importanza della meditazione e tutti quegli anni in cui Osho ne aveva parlato, per un po’ andarono persi. Dopo i grandi voli nel cielo interiore, fatti a Pune, adesso mi sentivo con i piedi per terra. Mi trovavo in una ‘scuola’ diversa. Giustificavo tutto questo,pensando che un’altra dimensione del mio essere dovesse svilupparsi, e che forse, se fossimo rimasti tutti a Pune con le nostre tuniche, vivendo una vita quasi da ‘favola’, ci saremmo probabilmente illuminati, ma non saremmo stati molto utili al mondo, da un punto di vista pratico. Ancora non sapevo quanto sarebbe stata dura la lezione. Ma il mio viaggio quale discepola di Osho era cominciato da ormai troppo tempo, e non potevo tornare indietro. Avere un Maestro significa esattamentequesto: affrontare le difficoltà con cui l’esistenza mette a confronto,come se fossero delle prove, delle opportunità per guardarsi dentro e vedere la propria resistenza ad accettare i cambiamenti. In ogni caso,rispetto a qualsiasi cosa accada, crescere in consapevolezza è sempre più importante di qualsiasi altra cosa.
In quel periodo, Osho vedeva solo Vivek e lavorava con Sheela tutti igiorni. Occasionalmente vedeva Nirupa,Devaraj e me.Ogni tanto, qualcuno dei residenti sognava Osho ed era convinto che lui fosse andato a visitarlo durante il sonno. In seguito feci una domanda a Osho su questo argomento, e lui rispose in un discorso, dicendo: “Il mio lavoro è completamente diverso. Io non voglio interferire nella vita di nessuno; altrimenti lo avrei già fatto, si può fare: si può lasciare il corpo e lavorare su una persona mentre dorme. Ma è una violazione della libertà personale e io sono totalmente contrario a ogni violazione, anche se fosse per il vostro bene, perché per me la libertà è il valore supremo. Io vi rispetto così come siete e proprio perché vi rispetto, continuo a dirvi che è possibile molto di più, il vostro potenziale è ben più alto di ciò che siete e fate di voi stessi e della vostra vita. Ma questo non vuol dire che, se non cambiate, io non vi rispetterò. Né significa che, se cambiate,vi rispetterò di più. Il mio rispetto rimarrà costante, sia che cambiate oppure no, sia che siate con me oppure contro di me. Io rispettola vostra umanità e la vostra intelligenza……No, non voglio disturbarvi nella vostra inconsapevolezza, nel vostro sonno. Il mio approccio consiste essenzialmente nel rispetto dell’individuo e della sua consapevolezza, e ho un’immensa fiducia che il mio amore e il mio rispetto per la vostra consapevolezza vi cambierà. E quel cambiamento sarà autentico, totale, irreversibile.”(Osho, The New Dawn)
Da parte mia, ho sempre sentito il profondo bisogno di rispettare la sua privacy quando uscivamo in macchina, per cui non parlavo mai a meno che non fosse lui a chiedermi qualcosa. La mia intenzione era di stare in silenzio anche dentro di me, e facevo propositi del tipo: “Okay, niente pensieri da qui fino al vecchio fienile”, e così via. Gli anni di silenzio che seguirono – in pratica non tenne discorsi per 1315giorni, tre anni emezzo! – in qualche modo resero Osho più gracile, quasi trasparente e sempre meno nel corpo. In passato aveva ripetuto spesso che parlarci lo aiutava a rimanere nel corpo e, man mano che il tempo passava, la sua connessione con la terra sembrava diminuire. Le sue giornate erano molto diverse da quelle di Pune, quando si alzava alle 6 delmattino, teneva un discorso, leggeva cento libri la settimana e tutti i giornali, lavorava con Laxmi e poi teneva il darshan serale, in cui dava il sannyas e gli energy darshan. Ora sedeva in silenzio nella sua stanza, da solo. Si alzava ancora alle 6 del mattino, faceva lunghi bagni, nuotava nella sua piscina e ascoltava musica; ma non aveva alcun contatto con la sua gente,fatta eccezione per il giro in macchina, una volta al giorno. Come ci si sente a rimanere seduti in silenzio nella propria stanza, per anni? Ecco come Osho ha descritto questa esperienza in uno dei suoi primi discorsi: “Quando lui (ilmistico) non è occupato in nessuna attività, quando non parla, né mangia, né cammina, respirare è un’esperienza colma di beatitudine. In questo caso, il semplice esistere, il semplice movimento del respiro, dà così tanta beatitudine da non poter essere paragonato a nessun’altracosa. Diventa qualcosa di estremamente musicale, si riempie del‘nada’, (il suono interiore increato).” (da The mystic experience)
Io avevo una mia vita segreta che nessuno ha mai scoperto. I fili su cuimettevo ad asciugare il bucato erano sul retro della casa, a cinque minuti di cammino verso le montagne. Arrivavo lì, stendevo il bucato, poggiavo a terra il secchio, mi toglievo i vestiti e mi mettevo a correre nuda,come una selvaggia, attraverso le montagne che si estendevano per chilometri,seguendo il letto di un torrente asciutto o le orme fresche dei cervi nell’erba alta dell’estate. Avevo un posto dove dormire e un giardino, lontano,in mezzo alle montagne. Nonostante il gran lavoro che scandiva la vita della Comune, trovai anche il tempo per lavorare assiduamente nel mio giardino, e ci fu un momento in cui vidi fiorire settantadue piante! La prima volta che mi fermai lassù in collina, il silenzio era così intenso che potevo udire il mio cuore battere e il sangue pulsare. All’inizio mi spaventai, perché non avevo riconosciuto quei suoni. Ma quando dormivo sulle colline, mi sentivo come se fossi protetta dal grembo materno della terra. Questo d’estate; d’inverno, invece, correvo in mezzo alla neve e mi riparavo sotto i ginepri. Mi innamorai anche di un cowboy. Si chiamavaMilarepa, aveva gli occhi azzurri, i capelli biondo-oro, una splendida abbronzatura e un forte accento dellaVirginia. La maggior parte degli uomini era vestita da cowboy– in fondo eravamo veramente nel ‘FarWest’ – e Milarepa non facevaeccezione. Cantava canzoni country e western e suonava il banjo. Io ero avvolta dalla magia di questa terra montagnosa, colorata solo dalla presenza di cespugli di salvia, ginepri, pallide erbe e ampi spazi aperti. C’erano cervi e serpenti a sonagli, e un giorno, mentre tornavo a casa dalle montagne, mi trovai faccia a faccia con un coyote. Eravamo a soli cinque metri l’una dall’altro: era un esemplare fiero e bellissimo. Aveva il pelo folto e lucido e i suoi occhi fissavano i miei. Ci guardammo immobili per svariati minuti pieni di meraviglia, poi il coyote girò la testa e lentamente, molto lentamente e con grande dignità, si allontanò.
Nacquero due laghi, proprio come Osho aveva promesso che sarebbe stato nella “nuova Comune”: il lago Krishnamurti, che era molto grande,e il lago Patanjali, più piccolo e nascosto fra le colline, adatto per farci il bagno nudi. Lì andavo a pescare, nei primi tempi con un gruppo di ragazzi su un fuoristrada preso in prestito. Per dei vegetariani,quella non era proprio la cosa migliore da fare! Andavamo a tutta velocità lungo la strada sterrata, come dei fuorilegge, nella notte, e correvamo verso le sponde del lago. Ognuno prendeva una direzione diversa per vedere chi riusciva a catturare il pesce più grande, o almeno a cercare di catturarne qualcuno. Non mi interessava mangiare il pesce pescato,ma mi godevo l’avventura e ci facevamo un sacco di risate. Non siamo mai stati scoperti, ma un giorno, all’improvviso, non ci andammo più. Il divertimento era finito e ci sembrava volgare e crudele toglierei pesci dall’acqua. Fu la fine delle nostre avventure notturne.
Rajneeshpuram sorgeva in una valle circondata da colline e montagnee, dal punto più alto della proprietà, si potevano vedere montagne a perdita d’occhio colorarsi di blu, nella foschia dell’orizzonte. Solo con un fuoristrada si riusciva ad arrivare fin lassù, ma bisognava saper guidare bene, perché la strada era ripida, piena di tornanti e non veniva riparata da anni. La pioggia e la neve di molti inverni ne avevano spazzata via più della metà. Quando non correvamo su quelle pericolose strade di montagna, incontravamo quasi sempre gli abitanti del luogo che dai loro camioncini, per divertimento, ci puntavano contro i fucili, oppure ci tiravano sassi o facevano gesti osceni dal ciglio della strada. Questa fu l’accoglienza che ci venne riservata fin dall’inizio…ma nella nostra innocenza non sapevamo fino a che punto le cose sarebbero degenerate. Le strade erano ghiacciate e pericolose e più di una volta i resti di qualche frana contribuirono ad arricchire i meccanici della locale officina della Rolls Royce. Era infatti questa l’auto che Osho aveva preferito fin dal suo arrivo in America; a dire il vero gli piaceva un solo modello, la‘Silver Spur’, e devo ammettere che la guidava con grande maestria in quella terra sterrata e desolata. La regione era piatta e desolata e in certi punti si poteva spingere lo sguardo fino al remoto orizzonte senza vedere né una casa, né un albero. Viaggiando lungo quelle strade, per chilometri si incontravano solo qualche fienile oppure rade vecchie case di legno, annerite dal tempo e tutte sbilenche, come se fossero state piegate da un tornado, su cui pian piano vedemmo spuntare dei cartelloni che dicevano: “Pentitevi peccatori,in Gesù è la salvezza”! Non mi rendevo ancora conto che la nostra Comune si trovava in piena terra cristiana, dove la gente non aveva però problemi ad appendere a marcire, sui recinti di filo spinato che delimitavano le diverse proprietà,i cadaveri dei coyote catturati, finché non rimaneva che la testa e la pelle svuotata. Una notte, mentre camminavo sul prato ricoperto di ghiaccio intorno alla nostra casa, vidi Osho salire in macchina da solo. Quando faceva i suoi giri in auto c’era sempre qualcuno con lui: che girasse solo non eramai successo! Subito aprii la portiera dal lato dei passeggeri e gli chiesise potevo andare con lui, ma molto duramente mi rispose di no. Corsi subito a parlarne con Vivek e insieme saltammo in un’altra macchina per metterci al suo inseguimento. Aveva cinque minuti di vantaggio ed era su una Rolls Royce, mentre noi avevamo solo una Ford Bronco,un modello che oltretutto aveva la tendenza a ribaltarsi, cosa che però scoprimmo solo in seguito. Quella notte la strada era ghiacciata e scivolosa e mentre sbandavamo dopo aver preso male una delle curve, Vivek mi rivelò che non avevala patente e che non avrebbe potuto guidare. Aveva fatto una sola lezionedi scuola guida in Inghilterra, vent’anni prima, e da allora aveva guidato solo una volta. Quando arrivammo al Ranch voleva una macchina,per cui mentì a Sheela dicendo che sì, lei aveva la patente! Se ci ripenso, mi rendo conto che dovevo essere proprio matta, perché l’unico pensiero che mi venne in mente a quelle parole fu: “Posso veramenteaver fiducia in questa donna, ha del fegato!”. Cominciò a grandinare, e in mezzo a quella tempesta oltrepassammotutti i limiti di velocità per cercare di raggiungere Osho. Potevamo soloindovinare che strada avesse preso, e a un certo punto ci rendemmoconto che, una volta raggiunta la strada asfaltata, non l’avremmo piùraggiunto. Ci fermammo a lato della strada e aspettammo, sperando checambiasse direzione e tornasse indietro verso Rajneeshpuram.Non potevamo che aspettare. Uscimmo sotto la pioggia, scrutando nelbuio, accecate dalle auto che venivano verso di noi. Inzuppate da capoa piedi avevamo solo un decimo di secondo per capire se si trattava diOsho, oppure no. Dopo alcuni inseguimenti dietro a macchine sbagliate,finalmente vedemmo Osho. Saltammo in macchina e gli andammodietro, suonando il clacson e facendo segnali con i fari. Ci vide e all’improvvisotutto andò bene…anzi fu meraviglioso seguirlo, ormai sano esalvo verso Rajneeshpuram. Arrivati a casa, nessuno disse niente; parcheggiammosemplicemente lemacchine ed entrammo. Non si parlò piùdi quello che era accaduto.Anche se non sono mai stata con un altro Maestro illuminato, sonosicura che ci sono delle similarità e una di queste deve essere che nonsai assolutamente che cosa farà di lì a un attimo. Ma indubbiamentesai che farà “qualsiasi cosa” pur di svegliarti. Non saprò mai perché sene andò nel mezzo della notte in una zona ormai visibilmente popolatada persone ostili.In quei mesi invernali, le strade erano diventate estremamente pericolosee Osho andò a finire per ben cinque volte in un fosso; ogni voltaVivek era con lui. Ed era lei che doveva uscire con gran difficoltà dall’abitacolo– anche quando si fece male alla schiena – e doveva tornaresulla strada per fermare una macchina, nella speranza che non fosseoccupata da vicini ostili. Ma ciò che più le pesava era lasciare Oshoseduto in auto da solo. Ci raccontava che lui se ne stava seduto lì, congli occhi chiusi, come se fosse in meditazione nella sua stanza.Osho usciva due volte al giorno per la sua passeggiata in automobile.Una seraVivek ritornò terrorizzata, dicendo che una macchina li avevaseguiti così da vicino da sfiorare pericolosamente il paraurti. Da allorain poi, questo si fece via via più frequente, e fu sempre un’esperienzapaurosa. Eravamo spesso inseguiti da camioncini con due o trecowboy che ci urlavano insulti e trovavano molto divertente cercaredi far uscire di strada Osho.Quella sera, avvicinandosi al Ranch, Osho aveva visto una macchinacon a bordo due sannyasin che gli stava venendo incontro: si fermò echiese loro di aiutarlo. Il guidatore della macchina inseguitrice, appenasi rese conto che qualcuno era corso in aiuto, era scappato a granvelocità nella direzione opposta, inseguito dai due sannyasin. Arrivatoa casa, era sceso dall’auto, aveva tirato fuori il fucile e si era messoa sparare. Era indubbiamente pazzo e continuava a urlare che prima opoi sarebbe riuscito a “prendere Bhagwan.” Chiamammo lo sceriffo,ma lui si rifiutò di prendere qualsiasi iniziativa perché il crimine nonera stato commesso – non ancora!La sera seguente, esattamente alla stessa ora, Osho volle fare comunqueil suo giro in macchina, prendendo la stessa strada. Vivek si rifiutòdi accompagnarlo per cui ci andai io. Provai tuttavia a convincerloa fare almeno un’altra strada, perché quel pazzo sapeva esattamentel’ora e il posto in cui sarebbe passato. Lui rifiutò. Disse che era liberodi guidare dove e quando gli piaceva e che avrebbe preferito glisparassero, piuttosto che rinunciare alla propria libertà. E aggiunse:“E anche se mi sparano? Va benissimo.” Restai senza fiato: di certonon andava bene per me.La notte sembrava più buia del solito e Osho fermò la macchina inmezzo alla campagna per fare pipì. Non sapevo se tremavo dal freddoo dalla paura, ma scesi dalla macchina e camminai avanti e indietro,gli occhi spalancati nel buio, incapace di capire perché la libertà fossepiù importante della sicurezza.Quella volta il pazzo non si fece vedere. Ma anche in altre occasioni,sebbene ricevessimo telefonate anonime che ci informavano sulle bandeche lo aspettavano lungo la strada, Osho andava esattamente dove equando voleva, senza mai farsi fermare da quelle minacce.In un discorso, spiegò che non è affatto un piacere guidare entro i limitidi velocità se si è alla guida di una macchina che può raggiungere i200 Km all’ora, e comunque che senso avrebbe guardare i cartelli stradali,per leggere i limiti di velocità, mentre si sta guidando a tavoletta?È più prudente tenere gli occhi sulla strada!Agli incroci, ero io che dovevo guardare a destra e a sinistra e dirgliquand’era il momento di passare, perché Osho non girava mai la testaquando guidava. Guardava solo davanti a sé. Io, non avendo mai guidatounamacchina, non avevo la chiara percezione della distanza e dellavelocità e tantomeno conoscevo le regole stradali. Forse sarei stata piùnervosa se le avessi sapute, ma visto come stavano le cose, avevo fiduciache, qualunque cosa fosse successa, sarebbe avvenuta con consapevolezza,e questa era l’unica cosa che contava.Nel luglio dell’anno successivo, organizzammo la ‘Prima CelebrazioneMondiale’: arrivarono più di diecimila persone da ogni parte delmondo.Tutti coloro che erano stati a Pune e avevano conosciuto Osho, ora tornavanoa incontrarsi e a incontrare il loro Maestro.In una valle venne costruita, provvisoriamente, un’enorme Hall di meditazione:quella divenne la nostra ‘Buddha Hall’. Appena ci riunimmo ameditare sotto quel grande tendone, l’energia toccò punte elevatissimee Osho venne a sedersi con noi.L’ultimo giorno del festival, fece cenno a Gayan di andare sul podio adanzare. Almeno una ventina di persone pensarono che il cenno fosseindirizzato a loro e si alzarono in piedi, immediatamente seguite da altrecentinaia e Osho scomparve alla nostra vista, dietro a una marea rossadi persone che danzava intorno a lui, in festa.Avrebbe potuto essere travoltoda quella folla, ma era solo una spontanea ondata d’energia. Piùtardi, Osho disse che tutti furono estremamente gentili e rispettosi, equando fece i primi passi per lasciare il podio, tutti fecero un passo indietroaprendo davanti a lui un varco che portava esattamente all’uscita.Anche chi lo aveva toccato, lo aveva fatto con grande attenzione: l’ambienteera il ‘nostro’ di sempre… eravamo tutti amici, uniti gli uni aglialtri da un’onda di energia che poteva solo chiamarsi ‘amore’.In quel periodo sembrava tutto perfetto; e pensavamo che non ci fossenessuna ragione perché la nostra oasi nel deserto non dovesse fiorire ediventare un esempio per tutto il mondo di come migliaia di personepossano vivere insieme, senza tutte le brutture create dalla società, dallereligioni, dai politici.Fu un festival meraviglioso. Ci fu anche un’eclissi di luna piena cheosservai dal mio letto fra le montagne, e mentre la luna diventavarossa e scompariva nel cielo del mattino, sentii che non mi trovavosul pianeta terra.