Libro di Prem Shunyo
Oscurità Luminosa
L’India mi accolse nel suo abbraccio materno. D’acchitto mi ritrovai a Pune, la città in cui Osho viveva. Ma dopo la prima notte passata in un albergo indiano, decisi di abbandonare la ricerca della Verità. Dall’esterno, l’hotel mi era sembrato buono e io ero molto stanca e scossa dalla mia prima esperienza in un aeroporto e una stazione ferroviaria indiani. La stazione era praticamente un campo profughi, con intere famiglie che dormivano sulle banchine sopra dei miseri fagotti che contenevano tutti i loro averi, e che venivano letteralmente calpestate dai viaggiatori frettolosi. Storpi e affamati mi chiedevano l’elemosina e mi fissavano quasi volessero mangiarmi. Facchini e tassisti urlavano l’uno contro l’altro e si contendevano i clienti persino a suon di pugni. Centinaia di persone dappertutto: una vera esplosione demografica!
Sul muro della mia stanza d’albergo c’era la creatura più disgustosa che avessi mai visto: uno scarafaggio lungo sette centimetri. Quando si mosse lanciai un urlo talmente forte che inmolti si precipitarono a vedere cosa accadeva. Ricordo ancora la faccia stupita dell’albergatore quando si rese conto che avevo fatto tutto quel chiasso per uno scarafaggio. Feci scorrere l’acqua del lavandino e rimasi di stucco quando mi accorsi che mi finiva sui piedi. Le tubature non erano mai state terminate e non c’era il tubo di collegamento tra il lavandino e lo scarico. Andai alla reception e provai a spiegare quello che era successo; tutti mi guardavano esterrefatti, non capivano… allora feci salire il direttore e gli mostrai il lavandino. Non riusciva sinceramente a capire qual era il problema, e comunque non aveva un’altra stanza libera. Il letto era composto da una struttura metallica che un tempo doveva essere stata dipinta di blu, le molle penetravano fin dentro il materasso, le lenzuola erano tutte stropicciate e sembrava che non fossero state cambiate da secoli. Ma la cosa peggiore era una grande svastica dipinta sul muro con un intenso color sangue. “Magia nera,” pensai. Allora non sapevo che il simbolo della svastica era originario dell’India e che era un auspicio di buona fortuna. Fu Hitler che, rovesciando la direzione della svastica, la fece diventare simbolo del male. E non era stata dipinta col sangue, bensì con un colore estratto da una noce, il betel. Questa stessa noce viene masticata da quasi tutti gli indiani e ha un effetto simile a quello del tabacco, con una sola differenza: a contatto con la saliva diventa rossa… e poi viene sputata praticamente ovunque. Era notte fonda e, non volendo tornare per strada, mi misi a sedere sul letto completamente vestita, senza avere il coraggio di sdraiarmi su quella roba immonda – e piansi. Mi svegliai di soprassalto tra un mucchio di stracci sgualciti, al suono assordante di una radio che trasmetteva la musica di un film indiano e alle grida della gente in strada. Io mi sentii ancor più confusa… per darmi uno sbocco, decisi di farmi una breve vacanza al sole da qualche parte, per poi tornare a Londra. Ma prima dovevo consegnare alcuni libri per la biblioteca di Osho; per cui presi un rickshaw per andare al suo Ashram… da lì sarei partita per il mare. Raggiunsi Koregaon Park, dove Osho si era stabilito dal 1974 insieme ad alcuni discepoli che avevano acquistato alcune ville, un tempo possedimenti inglesi, creando le basi di quello che negli anni successivi sarebbe diventato il Centro di Crescita e Sviluppo del Potenziale Umano più famoso del mondo.
Non appena misi un piede fuori dal rickshaw alzai la testa e vidi Rishi… era l’uomo che, nel mio sogno, mi consegnava il ‘regalo’ per il quale avevo lavorato per due anni. Mi portò a casa sua e mi mise in un letto. Rimasi là una settimana, senza che nulla fosse chiesto, senza che nulla fosse detto, poi mi sentii pronta a ciò per cui, mossa da un richiamo irrefrenabile, ero venuta a vivere in un mondo così insolito e alieno da qualsiasi mia comprensione o conoscenza. Cominciai ad andare ai discorsi in hindi. A quel tempo, Osho parlava ogni mattina, un mese in hindi e un mese in inglese; quello era il mese in cui parlava in hindi. Io non avevo ancora gli occhi per vedere la bellezza e la grazia di Osho, ma stavo certamente ‘sentendo’ qualcosa. Il Maestro vive a un livello di consapevolezza che l’essere umano medio non può comprendere: la sua immersione nella totalità dell’esistenza è qualcosa di inimmaginabile, di inconcepibile… parlarne non è la via per comunicare o comprendere ciò che egli è. Riconoscerlo è di per sé un miracolo più grande dell’amore. Come posso dire? Sento che è la dimensione nascosta ai nostri stessi occhi, quella parte di noi ‘inutile’, per ciò che riguarda la vita comune e gli impegni quotidiani, che a un certo punto, spesso nostro malgrado, percepisce qualcosa in un essere del tutto umano, eppure assolutamente diverso ed estraneo al nostro modo di essere umani, alla nostra idea di piccoli ‘io’ che si agitano alla ricerca di uno spazio vitale.
D’un tratto si ha la profonda sensazione di essere simili a dei semi, più che a esseri realizzati: si comprende che il semplice crescere, il comune passare degli anni non è di per sé un maturare, uno sviluppare le proprie potenzialità: qualcuno, là fuori, si pone di fronte a noi come specchio. Riflette una pienezza che siamo noi, allorché la nostra potenzialità è lasciata libera di dispiegare le proprie ali e volare libera nel cielo dell’esistenza… qualcosa in noi vuole giungere a piena fioritura, qualcosa sente una possibilità che va ben oltre il normale adattarsi al mondo, il semplice avere successo…è una voce, è un sussurro, e al tempo stesso un richiamo e un’eco… è la dimensione del magico che percepisce la magia dell’esistenza e che, seguendo strade tutte sue, ci incita e ci guida, aiutandoci a trovare il Maestro, e a riconoscerlo. Sedersi su un pavimento di marmo e ascoltare per due ore una lingua che non capisci può sembrare sciocco. Ma l’auditorio, chiamato Chuang Tzu, era un posto davvero speciale:marmo e colonne che sostenevano un soffitto altissimo, e intorno un giardino lussureggiante ed esotico che ti avvolgeva in un abbraccio intimo e acquietante. Ci si sentiva parte della natura, non più separati da essa. Una legge e un’armonia più antiche e più solide, quasi eterne, parevano riflettersi da quel marmo candido e perfetto… e il canto degli uccelli vi si fondeva anch’esso, e la voce di Osho che parlava in hindi era suono e musicalità: la musica più bella che avessi mai udito.
Non sono mai mancata a un discorso in hindi, li preferivo persino a quelli in inglese. Ogni mattina, immancabilmente, alle otto, Osho usciva dalla casa in cui abitava, attraverso una porticina che dava direttamente sull’auditorio: lo si vedeva spuntare dal fondo di un lungo corridoio, se si era seduti sulla giusta traiettoria…All’inizio era una semplice presenza, un attimo in cui lo si sentiva e basta, poi diventava un abito bianco che pareva incedere mosso da un vento soffice, poi era un sorriso radioso che univa le mani in un saluto, all’altezza del cuore, e lentamente faceva scorrere lo sguardo sui presenti, seduti a semicerchio intorno alla poltrona che, piano piano, sempre salutando, raggiungeva. E alla fine era lì… di nuovo per un attimo, infatti pareva nuovamente dissolversi: diventava una voce, poi un suono e spesso, molto spesso, sempre più spesso, puro silenzio. Durante il monsone, i sei mesi all’anno in cui l’India è soggetta alla stagione delle piogge, c’era poca gente ai suoi discorsi (a volte non più di cento persone) e quasi sempre il cielo pareva volersi riversare sulla terra… continuava a diluviare e il giardino piano piano infoltiva, fino a diventare una giungla intricata di rami e foglie; si aveva la sensazione di sentirlo crescere, nelle pause di silenzio che ritmavano i discorsi di Osho. Senza che lo sapessi, quell’ambiente rendeva più facile scivolare in meditazione.
I discorsi di Osho duravano due ore e finivano tutti con una frase in hindi che avevo imparato a riconoscere: “Aj Itna Hee” (“Per oggi basta”), e io pensavo: “Oh no, mi ero appena messa a sedere!” Mentre Osho parlava, mi sentivo così piena di energia che mi sembrava di riempire tutto l’auditorio… mi sentivo uno stallone libero al galoppo, sfrenato, con la testa all’indietro e la criniera al vento, e ogni volta, quando finalmente mi rilassavo e riuscivo a stare seduta in silenzio, sentivo Osho pronunciare le ultime parole del discorso. La voce di Osho si attenua verso la fine del discorso, e chi ascolta si sente sospinto delicatamente oltre ogni limite, verso l’oblio.
Seduta alla presenza di Osho, ho compreso quanto labile sia il fenomeno del tempo: con lui il tempo perde significato; due ore possono essere due minuti. Mi sentivo straordinariamente viva, era come se Osho mi avesse ridato la vita. Ero viva anche prima, nel mio corpo mi sentivo bene, mi divertivo, sprizzavo di vita, ma adesso tutto era qualitativamente diverso. Durante i primi giorni in cui andavo al discorso, mi capitava una cosa strana: uscivo dall’auditorio e correvo direttamente al bagno a vomitare. Per il resto della giornata mi sentivo benissimo, ma la mattina dopo si ripeteva la stessa cosa. Non potevo farci niente. Non volevo smettere di andare al discorso perché mi piaceva moltissimo, e non potevo certo scrivere a Osho: “Amato Maestro, i tuoi discorsi mi fanno vomitare…”. Per cui continuai ad andare ogni mattina a sentirlo parlare, poi uscivo… e correvo a vomitare.
Quando finì il vomito cominciò il pianto. Per diverse mattine mi trovai a correre fuori dall’auditorio verso una macchia di cespugli in un angolo nascosto del giardino dell’Ashram, vi strisciavo sotto e mi lasciavo inondare dalle lacrime. Talvolta piangevo e singhiozzavo fino all’ora di pranzo. Andò avanti per mesi. Non ho mai capito perché piangevo, non era tristezza, era più simile a un timore sacro. All’inizio, la reazione del corpo alla meditazione può essere molto forte. Molte persone, partecipando ai campi di meditazione e ai gruppi di crescita, vedevano affiorare nel corpo malattie strane, curiose, anomale, per nulla dettate da qualcosa di fisico; per lo più erano infatti create dalla mente, e il consiglio era di aspettare due o tre giorni, prima di chiamare un dottore. Quasi sempre i sintomi sparivano da soli senza l’aiuto di medicinali. Grazie a queste esperienze, col tempo mi divenne sempre più chiara la connessione tra il corpo e la mente che, se compresa, ci permette di evitare numerose malattie tumorali, psicosomatiche, oppure nevrosi e psicosi.
Col passare dei mesi, contraddistinti dall’alternarsi dei discorsi dall’- hindi all’inglese e dall’inglese all’hindi, io mi stupivo di essere ancora a Pune con Osho. Anche se idealmente ero venuta in questo posto ‘per sempre’, non avevo la minima idea di come sarebbe potuto accadere. Rishi aveva preso molto ‘sul serio’ il suo cammino spirituale, viveva in castità e mangiava solo riso integrale. Dopo la prima settimana in cui si era preso cura di me, mi chiese di trovarmi un altro posto… aveva bisogno della sua privacy!
Quando divenni sannyasin, gli uomini sannyasin mi sembrarono troppo effeminati e pensai: “Se mi butto in questa avventura, la mia vita amorosa è ovviamente finita.” Ma non mi importava. In ventinove anni ne avevo fatte abbastanza. Ma un giorno, entrando al Café Delight, un locale di Pune molto frequentato da noi occidentali che stazionavamo in città per stare vicino a Osho, incontrai un ragazzo inglese alto, magro e biondo che si chiamava Prabuddha, e me ne innamorai.
Vivevamo nello stesso hotel e dopo una settimana decidemmo che sarebbe stato meglio, e anche più economico, vivere nella stessa stanza. L’hotel non era così orribile come quello del mio arrivo, anche se non mancavano gli scarafaggi, i bagni puzzolenti e gli schiamazzi nel cuore della notte. Eravamo giunti alla stagione più calda dell’anno: si viveva a quaranta gradi, in un caldo-umido spossante, cercando sollievo sotto grandi ventilatori appesi al soffitto, con la corrente elettrica che saltava continuamente; ma io non ero mai stata così felice in vita mia.
Ogni sera Osho riceveva una dozzina o poco più di discepoli sotto il portico della sua casa, anch’esso circondato da un giardino che avvolgeva tutto l’edificio con un manto verde naturalmente regale. Questo incontro era chiamato darshan (tradotto letteralmente significa ‘essere in grado di vedere’). Ci si siede ai piedi di un Maestro e si sviluppa l’intuizione, o capacità di vedere grazie alla semplice vicinanza con un essere umano che si è arreso all’esistenza e ne è diventato la semplice espressione.
In un’atmosfera molto intima, Osho incontrava persone appena arrivate, o che stavano partendo, oppure rispondeva alle domande di coloro che avevano difficoltà con la meditazione o, come accade molto spesso agli occidentali, che avevano problemi nelle relazioni. Una sera mi trovavo di fianco a Laxmi, un’indiana minuta che allora era la segretaria di Osho, quando fui chiamata per andare a sedermi di fronte al Maestro. Di solito, ci si sedeva a semicerchio intorno alla poltrona su cui lui prendeva posto; poi, uno alla volta, venivamo chiamati, ci alzavamo, e ci andavamo a sedere di fronte a lui.
Ero tanto sommersa dall’impatto con la sua energia che non ricordo nemmeno di averlo visto uscire dalla casa e raggiungere il portico sotto cui ci trovavamo… mi aveva circondata come una nebbia leggera, facendomi girare la testa. I suoi occhi avevano una luce differente, i suoi gesti avevano una grazia mai vista. Inoltre, aveva una dolcezza e al tempo stesso una forza di cui non mi ero mai resa conto durante il discorso del mattino. Mentre ero seduta di fronte a lui, incapace di parlare, illuminò il mio terzo occhio con una lampadina tascabile, poi mi diede una tecnica di meditazione da fare tutte le sere e mi disse di tornare dopo due settimane a riferire cosa mi fosse accaduto. Concluse dicendo che “molto doveva ancora venire a galla.” Mi aspettavo qualcosa di sensazionale e spirituale; e invece l’unica cosa che “veniva a galla” era felicità.
Lo dissi a Osho e lui rispose: “Arriverà una felicità ancora più grande, perché quando ti apri alla felicità, essa non ha fine. Continua a crescere. E se ti apri all’infelicità, continuerà a crescere. È semplicemente una svolta dentro di te, un sintonizzarsi interiore… proprio come quando sintonizzi la radio su una lunghezza d’onda e prendi una stazione. Esattamente allo stesso modo, se provi a sintonizzarti sulla felicità, diventerai ricettiva a tutta la felicità che il mondo mette a disposizione. Ed è straordinaria, nessuno può esaurirla. È oceanica… continua, continua, continua. Non ha limite, né confine alcuno. Non conosce né inizio né fine. E la stessa cosa accade con l’infelicità; anch’essa è senza fine…”.E aggiunse: “Quando si impara a sintonizzarsi con la felicità, essa si fa sempre più profonda fino al punto in cui si dimentica l’esistenza dell’infelicità.”
Quella notte feci un sogno: stavo precipitando senza fine, ma due braccia si protendevano verso di me e mi afferravano; era Osho. Ogni tanto penso che deve esistere una specie di luna di miele con la meditazione, perché appena arrivai da Osho, cominciarono ad accadermi molte cose strane. Probabilmente perché non mi aspettavo niente ed ero innocente riguardo alle cose esoteriche. Una mattina al discorso, seduta abbastanza vicina alla poltrona di Osho, incrociando i suoi occhi, sentii un’ondata di energia, simile a un fungo atomico che si muoveva dentro il corpo e mi esplodeva nel petto. Devo dire che, negli anni successivi, è stato proprio attraverso il cuore che ho vissuto tutte le mie esperienze più importanti.
All’inizio, quando Osho parlava di come essere consapevoli, mi era difficile capire cosa intendesse, per cui, quando provavo a metterlo in pratica, il respiro mi si fermava: non riuscivo a respirare ed essere consapevole al tempo stesso. Con tutta probabilità, i miei erano i tentativi di una principiante: prendevo le cose troppo seriamente, ero troppo tesa. Nei suoi discorsi in inglese Osho metteva spesso l’accento sui condizionamenti e su come funziona la mente: diceva che era un computer, programmato da genitori, società, insegnanti, televisione e, nel mio caso, dalla musica pop! Piano piano mi resi conto di ciò che diceva; erano cose su cui non avevo mai fermato l’attenzione, ma ora, iniziai a utilizzare le giornate per osservarmi. Fui sbalordita: cominciai a notare molte cose di me… le mie reazioni a certe situazioni, le mie opinioni. Quando mi fermavo per riesaminare il tutto, mi ricordavo che il mio insegnante mi diceva che…mia nonna pensava che in questo modo…mio padre credeva che…Dov’ero io in tutto ciò?
La meditazione accadeva da sola, seduta al discorso, ascoltando il suono della voce di Osho e le pause tra le parole. Sedevo e ascoltavo quel ritmo… e la meditazione arrivava, non ero io che provavo ‘a farla’. Quei discorsi di prima mattina, divennero così importanti per me, che spesso mi svegliavo durante la notte e saltavo giù dal letto, pronta ad andarci. A un certo punto la fase del pianto tra i cespugli si esaurì, e il discorso divenne un inizio di giornata tonificante ed essenziale. Piano piano mi rendevo conto di non aver mai incontrato nessuno che si muovesse come Osho e a volte, durante il discorso, fissavo per tutto il tempo la danza delle sue mani. Ogni movimento era poetico e delicato, ma con una forza e vitalità che emanavano un grande potere. Il modo in cui parlava era seducente, ci invitava a meditare, a percorrere il cammino spirituale; ci tendeva la mano e ci chiamava con un cenno come fossimo dei bambini ai loro primi passi e ci rassicurava invitandoci a entrare nella stessa dimensione in cui lui viveva. Rideva insieme a noi e ci diceva di non diventare mai seri, ripeteva in continuazione che la serietà è una malattia e che la vita è gioiosa. Quando ci guardava, immediatamente ci sentivamo accettati ed amati come non mai. Uso la parola noi, perché Osho era lo stesso verso tutti.
Amava tutti in ugual misura, come se lui stesso fosse l’amore.
La sua compassione era qualcosa che non avevo mai conosciuto prima. Non avevo mai incontrato nessuno pronto a dire la verità su qualsiasi cosa, rischiando la propria popolarità, o comunque la considerazione del suo interlocutore, solo per aiutare gli altri a scuotersi e a uscire da un sogno, da un’illusione, dal comune meccanismo del desiderio. Per esempio, una volta feci un sogno e lo scrissi a Osho. Pensavo fosse stupendo e molto vivo, volevo che lo vedesse anche lui, che lo condividesse con me. Ricevetti questa risposta: “I sogni sono sogni, non hanno significato alcuno.” Ero furiosa. Dopo tutto, se ero arrivata da lui, lo dovevo a un sogno importante. Per anni avevo tenuto un diario dei sogni e li consideravo molto significativi.
Allora scrissi una domanda per il discorso: “Perché hai detto una cosa simile… come puoi sostenere che i sogni non hanno significato?”.
Parte della risposta fu: “Non solo dico che i sogni sono sogni; ma dico anche che tutto ciò che vedi quando pensi di essere sveglia, è un sogno. I sogni che fate a occhi chiusi nel sonno e i sogni che fate a occhi aperti nel vostro cosiddetto stato di veglia – entrambi sono sogni ed entrambi non hanno significato…”.
“Mulla Nasrudin stava andando in paese, una sera, e all’improvviso vide un’enorme merda di vacca sulla strada. Si chinò e la esaminò con attenzione. ‘Sembra merda’, pensò; si avvicinò ancora di più e disse:‘Puzza anche di merda.’Poi con grande attenzione ci mise un dito dentroe l’assaggiò. ‘Sa di merda…beh sono proprio contento di non averla calpestata!’”
“State attenti a non analizzare troppo le cose!” concluse Osho.
Mi sentivo ferita; come si permetteva di dire che la mia vita non aveva significato e tantomeno i miei sogni? Avrebbe potuto essere più gentile, non gli avevo chiesto niente di così tremendo da provocare tutto questo! Anche se mi sentivo scottata, avevo abbastanza comprensione per capire che non ero ancora in armonia con l’esistenza, nel modo in cui Osho ne parla. Non mi sentivo né realizzata, né beata, come invece mi appariva lui; quindi era possibile che mi ingannassi, credendo che la mia vita avesse un senso. Era sufficiente guardarlo per capire che in lui esisteva un’altra realtà, una dimensione molto più profonda, qualcosa che vedevo in lui ma non in me. Lo vedevo nei suoi occhi e nel modo in cui si muoveva. L’averlo incontrato, i pochi mesi trascorsi vicino a lui, e ora questa risposta schietta e radicalmente vera, mi aveva tolto un falso concetto di me e mi aveva lasciato lo spazio per esplorare la verità.
Erano passati sei mesi e Prabuddha doveva tornare in Inghilterra per affari. Mi propose di andare con lui e, poiché mia sorella stava per sposarsi, decisi di accompagnarlo, sapendo che nel giro di un mese sarei potuta tornare. Avevo anche un altro motivo per tornare in Inghilterra e, sebbene fosse vago e indistinto, era comunque profondo. In questo mio nuovo stile di vita, mi sentivo protetta, al sicuro…ora volevo metterlo alla prova in maniera più diretta, più reale. Devo però ammettere che il motivo per cui stavo partendo non mi era affatto chiaro e quando andai a vedere Osho per salutarlo, come era consuetudine, e lui mi chiese come mai volessi partire, io mi misi a piangere e gli dissi, semplicemente:
“Mi sento così al sicuro qui.” Lui sorrise e disse: “È vero, l’amore è molto sicuro.”
Di nuovo, ero a casa de imiei genitori.
Mi sentivo piena d’amore emolto aperta verso la mia famiglia, più di quanto non lo fossi mai stata. Mia sorella ha dieci anni meno di me e quando me ne andai di casa, a sedici anni, era ancora una bambina, per cui non c’eravamo mai conosciute. Per lei ero sempre stata la sorella più grande che tornava dalle vacanze e ripartiva, come un’estranea. Andai alla festa della vigilia del suo matrimonio e ballammo insieme tutta la notte; finalmente sentimmo di esserci comprese.
Presentai Prabuddha ai miei genitori e mio padre pensò che il suo nome fosse ‘poor bugger’ (povero disgraziato), così gli affibbiarono quel nome. I miei genitori furono felici di vedere che la mia nuova vita mi aveva acquietato e resa felice e amorevole… e su questa impressione ci salutammo ancora una volta. Io e Prabuddha tornammo in India e atterrammo a Goa. Goa è, per Pune, ciò che Brighton è per Londra, cioè il posto di mare più vicino. Dietro la casa in cui abitavamo, c’era una scogliera ripidissima e un giorno ci arrampicammo per esplorare le spiagge che si estendevano dall’altra parte. Campi verdi e giungla arrivavano fino alla spiaggia…passeggiammo per un po’ in quella dimensione selvaggia e incontaminata, e dopo alcune ore tornammo indietro. Avvicinandoci alla cima della collina, all’improvviso cominciai a vedere delle immagini che sembravano proiettate nella mia mente come in un film: qualcuno ci sparava addosso e noi strisciavamo nell’erba per evitare i proiettili. Dissi a Prabuddha: “Qualcuno ci potrebbe sparare addosso, proprio qui…”. Il sole stava calando e il cielo si tingeva d’arancione. Arrivammo in cima alla collina e cominciammo la discesa verso casa. Il sentiero era molto disagevole – la zona era infatti una pietraia ripidissima – e appariva e scompariva a ogni nuova curva. D’un tratto udii un rumore dietro di noi, mi girai e a una decina di metri più in là vidi un indiano con un fucile. Mentre lo guardavo, si mise il fucile contro la spalla, si inginocchiò e prese la mira. Ero sconvolta e, considerata la situazione, reagii molto lentamente. Diedi un colpetto sulla spalla di Prabuddha che era davanti a me e quando si girò gli dissi che c’era un tizio che ci voleva sparare. “Cazzo!” urlò Prabuddha e afferrandomi per il polso mi trascinò letteralmente giù per quella pietraia. Potrei giurare che i nostri piedi non toccavano terra. Quando arrivammo in fondo, i nostri vicini accorsero e ci portarono a casa loro. Ci mettemmo a sedere in un angolo buio mentre venivamo spruzzati di ‘acqua santa’, accompagnata da una specie di danza rituale. (A Goa la popolazione è cattolica, ma usa ancora riti vudu, alternati ai rituali cattolici.) Spiegammo quello che era accaduto, e loro ci dissero che, alcuni mesi prima, due occidentali erano stati assassinati proprio su quella collina.Ero affascinata da quello che era successo. Da dove erano arrivati quei pensieri… come potevo aver visto con tanta lucidità che qualcuno ci avrebbe sparato? I pensieri devono essere delle onde d’energia che viaggianoproprio come onde radio, ci si deve solo sintonizzare. Le onde radio attraversano costantemente l’aria, ma per poterle ricevere devi avere una radio; forse i pensieri sono anch’essi presenti nell’aria, esattamente allo stesso modo. Questo mi aiuta a capire come sia possibile che le persone che si amano, o che sono strettamente legate fra loro, abbiano gli stessi pensieri nello stesso momento, o perché, entrando in una casa nuova, le vibrazioni a volte sembrino strane; come se gli occupanti precedenti avessero lasciato dietro di sé delle onde di pensiero.
Di recente ho fatto un esperimento con un amico: lui stava in una stanza e io in un’altra e da lì gli inviavo i miei pensieri. Prima di iniziare avevamo deciso che i pensieri potevano essere di qualunque tipo: potevano essere colori, suoni, parole, disegni e lui doveva scrivere quello che riceveva. In sei casi su dieci captò esattamente i miei pensieri! Qualche giorno dopo, io e Prabuddha tornammo a Pune. Subito mi immersi nella lettura di un vecchio libro di Osho: L’esperienza mistica. Erano discorsi fatti cinque anni prima a Bombay ed erano molto diversi da quelli che teneva a Pune. A Bombay parlava di cose esoteriche, di spiriti, di chakra, dei sette corpi; a Pune era molto più ‘con i piedi per terra’e non rispondeva più a domande sulla magia e sui fenomeni sovrannaturali. Da quando Osho aveva iniziato a tenere discorsi, circa vent’anni prima, era cambiato in maniera incredibile, secondo il tipo di ascoltatori. In seguito, per spiegare come mai accadeva, disse che ogni volta sceglieva il tipo di rete da usare in base al tipo di pesce che doveva catturare. Ad esempio, nei primi tempi parlò in favore di alcune figure carismatiche della religione, ma quando successivamente, in altri discorsi, iniziò a mettere a fuoco i lati oscuri di quelle stesse personalità, criticando apertamente alcuni loro comportamenti o certe loro prospettive esistenziali, molti che si erano avvicinati a lui, diventando suoi discepoli “per le belle parole” che avevano sentito e che parevano elogiare la tradizione con cui identificavano il proprio essere religiosi, lo abbandonarono…
Osho però non parve mai stupirsene, né fece mai nulla per fermare chi si allontanava. In ogni caso, alcuni rimanevano sempre, e furono quei pochi che avrebbero veramente ascoltato il suo messaggio. Passavano le settimane e un giorno pensai che tutta quella luce e quell’amore fossero eccessivi, in verità li sentivo un po’ noiosi, e che forse mi sarei divertita di più andando a Bali per avere un assaggio di magia nera. Quando ero bambina, in Cornovaglia, mi affascinava molto l’idea del diavolo. A notte fonda, quando in chiesa non c’era nessuno, tentavo di provocare Gesù, senza successo. Solo una volta apparve una luce, dopo che ebbi gridato: “Gesù, fatti vedere!”Ma chiamare il diavolo era molto più divertente, i miei amici si impaurivano, i mobili tremavano e i bicchieri si rompevano. Il lato oscuro dell’esistenza sembrava avere più sostanza, sembrava essere più reale.
Fu in questo stato d’animo che scrissi una domanda a Osho per il discorso: “Tu dici: ‘porta luce nell’oscurità e questa scompare.’Tu sei la luce. Dov’è dunque l’oscurità? E perché la desidero tanto?”. La prima frase della risposta che diede, mi bastò: “Quando dico di portare la luce e l’oscurità sparisce, ciò che intendo dire esattamente è questo: porta la luce e il buio diventerà luminoso.”
Buio luminoso!!! La ricerca dell’oscurità luminosa!!! Mi sentii ardere. Da allora non ho più avuto il desiderio di cercare qualcosa di meno grande. Il buio luminoso per me rappresenta la quintessenza della poesia maestosa dei picchi luminosi della vita che tanto desidero raggiungere. Picchi luminosi di cui alle volte ho fugaci visioni, ma che poi scompaiono nel nulla, lasciandomi sommersa in una indimenticabile sensazione di dolcezza. La prima volta che toccai i piedi di Osho fu veramente come prendere il sannyas: fu allora che mi sentii veramente discepola, malgrado avessi ricevuto l’iniziazione a Londra, nove mesi prima.
Fin dall’inizio, una delle cose che mi aveva colpita di più quando Osho lasciava l’auditorio, al termine del discorso, era che moltissimi indiani andavano al podio, si inchinavano e mettevano la testa dove Osho aveva poggiato i piedi. Da buona occidentale, la cosa mi stupiva: non avevo mai visto un simile gesto di devozione e lo trovavo alquanto strano; ma arrivò il mio giorno. Era la celebrazione del Guru Purnima. (Il giorno della luna piena di luglio, giornata in cui, in tutta l’India, si festeggiano e onorano i guru, gli insegnanti religiosi e i Maestri.) Osho era seduto sulla sua poltrona e intorno a lui c’eravamo tutti noi in festa: i musicisti suonavano e decine e decine di persone ridevano, cantavano e ballavano… su un lato dell’auditorio c’era una lungafila umana: persone che volevano toccare i piedi del Maestro. L’auditorioera pieno, pareva traboccare: tutti erano vestiti con i colori dell’alba, infinite tonalità di arancio che davano all’ambiente toni molto vividi e intensi. Mi unii alla fila in attesa di toccare i piedi di Osho. Era talmente lunga che usciva dall’auditorio e si snodava lungo il giardino, fino al cancello della casa e oltre. Osservai la gente che mi precedeva e vidi che tutto quello che dovevo fare era toccargli i piedi e andarmene. Ma più mi avvicinavo all’auditorio e meno ci pensavo, perché la celebrazione era contagiosa: ballavo e ballavo! Tutto a un tratto mi trovai lì, davanti a lui; ricordo che mi chinai, poi il nulla. Nella scena seguente ero in piedi e correvo. Correvo e correvo con le lacrime che mi rotolavano lungo il viso. Un’amica provò a fermarmi pensando che ci fosse qualcosa che non andava, ma io le diedi una spinta – dovevo correre – avrei potuto correre fino a sparire ai limiti del mondo. In quello stesso periodo partecipai ad alcuni gruppi di terapia. Li trovai estremamente utili. Diventare consapevoli delle emozioni, in quanto separate da noi stessi, è un’ esperienza inestimabile. Per la prima volta ero in grado di accettare e di esprimere liberamente molte emozioni negative. Sentire la rabbia che ti circola in tutto il corpo e osservarla (senza picchiare nessuno) è di fatto un’esperienza stupenda.
L’energia di un gruppo di persone, che passano ore e ore sedute insieme per giorni, in una stanza, con l’intento di scoprire se stesse, è molto intensa. Ricordo di aver avuto anche delle allucinazioni: vedevo i muri muoversi e la stanza cambiare aspetto e forma. Penso che tutto questo fosse connesso con il tasso di adrenalina nel corpo, perché di certo la paura era presente. La paura di esporsi. E poi, la beatitudine di scoprire che tutte le paure sono solo proiezioni della mente. Durante un gruppo, fui ‘posseduta’ ancora una volta dal mio amabile gobbo – ne ho parlato nel primo capitolo – e tutti gli altri partecipanti, compreso il terapista che sembrava aver visto di tutto in tanti anni di esperienze, rimasero senza parole. In un’altra occasione, subito dopo un darshan particolarmente intenso, stavo andando dall’Ashram verso casa, quando vidi due indiani che litigavano;mi sentivo molto vulnerabile e quella violenza mi sconvolse a tal punto che, nel giro di pochi minuti, il gobbo si impadronì di me e non potei fare niente per fermarlo. Ebbi il buon senso di dire a me stessa: “Cammina vicino agli alberi così nessuno ti vedrà.” Non ero spaventata di quella rozza deformazione del mio corpo, perché il mio corpo fisico non era niente in confronto all’immensa sensazione d’amore che accompagnava questa deformazione. Mentre procedevo, protetta dal buio, pensavo di parlarne al terapista…per arrivare a casa, dovevo camminare un quarto d’ora e per tutto quel tempo mi osservai mentre zoppicavo all’ombra degli alberi, con gli occhi fuori dalle orbite e la lingua che mi penzolava fuori dalla bocca. Poco prima di arrivare a casa, cominciai a raddrizzarmi e ‘lui’ iniziò a svanire. Fu il nostro ultimo incontro.
Non ne parlai con nessuno; sapevo che sarebbe sembrato grottesco, e non chiesi niente a Osho, perché non lo vivevo come un problema. Osho ha spiegato spesso, e con dovizia di particolari, che la mente conscia è solo la punta di un iceberg, gli altri nove decimi di quell’iceberg sono sommersi: è l’inconscio, pieno di paure e desideri repressi. Ecco perché certe esperienze non possono accadere in una società ‘normale’: senza l’ambiente comprensivo e protettivo che esiste nell’Ashram di Osho, non sarei mai stata in grado di avere esperienze di questo tipo. Anzi, sarei stata costretta a reprimermi e, anziché sentirmi ripulita da quella che era un’espressione naturale di qualcosa di sconosciuto, l’intera faccenda si sarebbe tramutata in ansia e angoscia e chissà cos’altro. Viene da chiedersi come mai, in Occidente, tanta gente impazzisca; e soprattutto persone sensibili e di genio come artisti, musicisti e scrittori. In Oriente non è mai successo perché la tradizione orientale usa uno strumento di evoluzione prezioso per conoscere se stessi e vivere in pienezza le diverse dimensioni del proprio essere: la meditazione.
In una serie di discorsi ora raccolti nel libro The Beloved, Osho ha spiegato: “Esistono due tipi di pazzia: o si cade al di sotto della normalità o si va al di sopra. In entrambi i casi si impazzisce. Se si cade al di sotto della normalità si è malati, si ha bisogno dello psichiatra per tornare alla normalità. Se si va al di sopra della normalità non si è malati, per la prima volta si è veramente sani, perché per la prima volta si è veramente completi. In questo caso, non avere paura. Se la tua pazzia porta più saggezza nella vita, non aver paura. E ricorda che la pazzia al di sotto della normalità è sempre involontaria; questo è il sintomo: è involontaria. Non è possibile provocarla, succede, vi si è trascinati. La pazzia al di sopradella normalità è volontaria – puoi provocarla – e poiché puoi provocarla,la puoi anche controllare. Puoi fermarla quando vuoi; se vuoi procedereoltre, puoi farlo – ma sei sempre tu che decidi.Questa è una follia del tutto differente da quella normale: ti muovi dasolo. E ricorda, se ti muovi da solo, non diventerai mai nevrotico, perchépotrai esprimere tutte quelle emozioni che altrimenti ti farebberoimpazzire. Non avrai bisogno di accumulare emozioni che normalmentevengono represse.”
Alla fine di ogni gruppo di terapia, tutti i partecipanti andavano al darshan e ciascuno poteva parlare con Osho e ricevere il suo aiuto nel caso vi fossero problemi irrisolti. Mi ricordo di un darshan nel quale, molto fieramente, dissi a Osho che ero entrata in contatto con la mia rabbia e pensavo di averla vissuta nella sua totalità. L’avevo sentita in tutto il corpo, pura energia, quasi orgasmica. Osho mi guardò e disse: “Hai solo visto i rami, adesso devi trovare le radici…”. Ero furiosa! Gli dissi che avrei fatto il gruppo di Encounter per la seconda volta, e lui con un sospiro disse che alcune persone hanno bisogno di farlo due volte. Col senno di poi, capisco che aveva ragione, perché solo adesso, finalmente, ho compreso il trucco e so di riuscire a provocare, riconoscere e quindi esprimere qualunque emozione.
Conclusi quel ciclo di corsi di terapia e crescita con un gruppo nel quale per tre giorni, continuamente, fai a te stesso la domanda: “Chi sono io?” Era veramente il gruppo che faceva per me. Qualcosa accadde. La mia mente diventò una voce lontanissima e smise di funzionare mentre ‘io’ ero presente e profondamente appagata nell’attimo, qualsiasi esso fosse, momento per momento. Nei suoi discorsi Osho aveva parlato e riparlato della non-mente, ma le sue parole non erano bastate a prepararmi a questa esperienza: ascoltare qualcuno che definisce cosa vuol dire essere “totalmente appagati” è una cosa, viverlo in prima persona è ben altro! Questa esperienza durò circa sei ore e la cosa che più mi affascinò fu scoprire che nessuno poteva vedere quello che mi stava succedendo… poi, all’ora di pranzo, mentre stavo mangiando, Prabuddha entrò nel ristorante. All’improvviso sentii un grande “no” dentro me. Non volevo vederlo e mi nascosi sotto il tavolo. Non so se fu il cibo o il mio ragazzo a rompere quell’incantesimo, vero è che a quel punto l’esperienza cominciò a svanire. Ci vollero alcuni giorni perché scomparisse del tutto e ancor oggi il ricordo mi balena davanti come un miraggio. Una sera, a un darshan dissi a Osho che ero preoccupata perché temevo di essere mandata via, in quanto non mi rendevo utile nell’Ashram. Gli spiegai che avevo paura di non avere abbastanza fiducia. Osho mi disse che il suo amore non è legato ad alcuna condizione, ed è per chiunque, nessuno deve fare qualcosa per meritarselo: si riversa naturalmente all’esterno, perché ne è colmo, proprio come fa una nuvola quando piove… bagna qualsiasi terreno, senza giudicare uno migliore e uno peggiore, uno più degno e uno meno degno. “Per avere il mio amore, non hai bisogno di meritarlo; è sufficiente il tuo esistere. Non devi fare qualcosa, non devi diventarne degna; queste sono tutte sciocchezze. È per questo che la gente è stata sfruttata, manipolata e rovinata. Tu sei già ciò che puoi essere; non c’è bisogno di nient’altro. Devi solo rilassarti e ricevermi. Non pensare in termini di merito, altrimenti rimarrai tesa. Il tuo problema è proprio questo: la tua ansia continua. Pensi di essere inadeguata, ti giudichi perché non stai facendo questo, non stai facendo quello, pensi che la tua fiducia non sia sufficiente. Ti crei mille problemi. Io accetto tutti i tuoi limiti e ti amo con tutti i tuoi limiti. Non voglio creare alcun tipo di colpa in nessuno. Questi sono i soliti trucchi – tu non hai fiducia in me e ti senti in colpa, e allora io divento dominante. Se tu non sei degna, non stai facendo questo, non stai facendo quello, e io ti taglio le provviste del mio amore, allora l’amore diventa una merce di scambio. Non è così, io ti amo perché sono amore.” In quel momento capii che questa era una delle pietre miliari del mio condizionamento, perché per anni continuò a riaffiorare la stessa sensazione di indegnità. Molte volte Osho mi avrebbe detto che bastava ‘essere’, che ero perfetta così com’ero. Alla fine si mise a ridere e mi disse che dovevo semplicemente rilassarmi e gioire…se non avevo fiducia in lui, andava bene così!Aveva bisogno di alcuni sannyasin che non si fidassero di lui, tanto per cambiare! Riusciva sempre a dissolvere i problemi come per magia e io mi ritrovavo lì, nel presente, dove non ci sono problemi, chiedendomi cos’altro sarebbe riuscita a inventarsi la mia mente. Molto spesso avevo il sospetto che mi creavo dei problemi solo per andare al darshan, e stare un po’ con Osho.
Lawrence venne a trovarmi. Non l’avevo visto per quasi due anni, ma sembrava che non ci fossimo mai lasciati. Ci incontrammo come se solo il giorno prima lui mi avesse accompagnato a prendere l’aereo per l’India. Penso che venne per controllare la situazione e assicurarsi che stavo veramente bene e non ero diventata vittima di una setta. Sicuramente aveva letto uno degli articoli contro Osho che in quel periodo uscivano con regolarità sui giornali occidentali. Da quando ero arrivata, il numero delle presenze all’Ashram era via via aumentato. Si era scatenata una strana reazione a catena, un passaparola che spingeva le persone più diverse a venire a Pune. Lawrence si fermò qualche giorno e venne al darshan per vedere Osho e non conoscendo le nostre abitudini, rimase indietro. Entrando nell’auditorio, infatti, noi ci affrettavamo a occupare i primi posti, per poter sedere nella prima fila, intorno alla poltrona di Osho… pur conservando un passo ‘meditativo’, sembrava che i piedi si muovessero da soli, andavano sempre più veloci e arrivati all’entrata del portico, gettavamo le scarpe alla rinfusa e correvamo fino quasi a slittare sul pavimento di marmo. Osho entrava quando eravamo tutti seduti. Io e Lawrence eravamo separati a causa della mia entrata frettolosa; lui stava dietro e io davanti. Il suo nome fu chiamato perché andasse a parlare con Osho. Nessuno sapeva che eravamo insieme, eppure quando lo chiamarono, Osho si girò e mi fissò, come se in me si fossero accese delle luci intermittenti e dei campanelli d’allarme che mi collegavano indiscutibilmente con lui. Non ho mai capito come feci a mandare un messaggio così forte, senza saperlo. Osho diede un regalo a Lawrence e gli disse di tornare per fare un film sull’Ashram. Fu tutto… alla fine Lawrence partì tranquillizzato. Era passato un anno e io ero ancora qui. Ogni mese che passava mi sembrava un altro piccolo miracolo. Dopo aver trascorso la maggior parte di quell’anno seduta in riva al fiume, cercando di suonare un flauto di bambù, decisi che lavorare nell’Ashram mi avrebbe resa più vulnerabile e più disponibile al ‘lavoro’ che il Maestro stava facendo su di me. Andai molte volte in ufficio a chiedere un lavoro, ma mi rispondevano che non c’era bisogno di altri lavoratori; l’unica possibilità era un lavoro in ufficio, ma era appena arrivata dall’Inghilterra una contabile – si trattava di Savita, la ragazza con cui avevo scambiato i vestiti qualche anno prima – e quindi non c’era posto per me.
Io non insistetti, non volevo far sapere a nessuno che avevo lavorato come segretaria, per dieci anni, negli uffici di preti, psichiatri, giornalisti,chirurghi, veterinari e persino in un casinò, proprio non mi attiravala vita d’ufficio. Per tenermi impegnata, iniziai a lavorare in giardino:trascorrevo le giornate innaffiando le piante e giocando con l’acqua.Il giardinaggio era considerato un lusso, non un lavoro.
Alla fine mi diedero un lavoro vero: stampare le copertine dei libri. Per un po’ lo presi molto seriamente, pensando che sarei potuta diventare il boss del dipartimento, ma un giorno, mentre andavo in città a ritirare delle foto vidi un uomo morto in un vicolo e fui letteralmente travolta da un pensiero che parve marchiarmi a fuoco: “Ehi, non sono venuta fin qui, da un Maestro, per diventare la più grande tipografa del mondo.” Ricordo un episodio che vorrei riportare perché si riferisce a un personaggio chiave della storia che sto raccontando: Sheela, la donna che sarebbe diventata la segretaria di Osho e che tante follie avrebbe commesso. Il primo giorno di lavoro, Sheela (che all’epoca era una delle assistenti di Laxmi e si occupava dell’organizzazione del lavoro nell’Ashram) mi si avvicinò e mi chiese se potevo andare in ufficio ogni giorno a informarla su come si comportavano i miei compagni di lavoro e quanti bidi (sigarette indiane) andavano a fumare, assentandosi dal lavoro. Le risposi che non mi era possibile farlo, perché erano miei amici. Lei replicò con grande enfasi che dovevo farlo, se volevo aiutarli nella loro crescita spirituale. Come potevano crescere se erano pigri? E come potevano capire di essere pigri se qualcuno non glielo diceva? E l’unico modo per ‘verificarlo’ era vedere quante pause per fumare si prendevano… l’insistenza fu tale che dovetti accettare.Ma non ci andai mai – mi sembrava un gioco così sciocco – e quando lei mi chiedeva informazioni sui miei compagni io le rispondevo con delle magistrali bugie, divertendomi moltissimo. “Intervalli per fumare? No, mai. Certo, arrivano sempre in perfetto orario e lavorano sodo tutto il giorno!”.
Ritornando a quel periodo, è strano vedere come ciascuno si crei il proprio destino. Sheela aveva iniziato a lavorare nell’Ashram solo da poco, e già stava reclutando spie fidate… di certo era una donna con grandi ambizioni, mossa da una forte sete di potere, suo malgrado e malgrado qualsiasi ricerca spirituale… e tutto questo sarebbe esploso incontrollabilmente negli anni a venire. In quel periodo vivevo da sola. Ancora una volta avevo ‘chiuso’ con gli uomini; avevo avuto una storia con due uomini contemporaneamente che mi aveva fatto impazzire. Culminò il giorno in cui uno mi fece a pezzi tutti i vestiti e l’altro, Prabuddha, mi buttò in strada tutti i mobili. Decisi di vivere da sola e mi spostai in una casa sul fiume. Di notte, mi sedevo immersa nella magia che solo l’oscurità tropicale sa trasmettere e ascoltavo le rane e le cicale, il ticchettio della sveglia e un cane abbaiare lontano. Amavo il buio. Mi stava succedendo una cosa strana: quando ero con certe persone, mi sentivo sopraffatta, quasi posseduta, cominciavo a camminare come loro, assumevo le loro espressioni e sentivo di non poter far niente per evitarlo. Andò avanti per un paio di mesi durante i quali cercai di risolvere da sola quanto mi accadeva. Pensavo che fossero persone con un’energia più forte della mia. Ma la situazione peggiorò, per cui scrissi a Osho, il quale mi rispose di andare da lui. Durante i darshan Osho, a volte, puntava la luce di una pila sul terzo occhio o sul cuore di una persona, toccando qualcosa che era invisibile a tutti gli altri. Noi sentivamo che grazie alla sua grande comprensione e intuizione lui poteva vedere direttamente all’interno della persona con cui stava parlando. Una volta lui stesso spiegò che si accorgeva immediatamente se aveva di fronte a sé un ricercatore ‘nuovo’ oppure qualcuno che era stato con altri Maestri nelle vite precedenti. Comunque, quella sera mi chiamò davanti a sé e mi disse di tenergli il piede. Mi misi a sedere e, tenendo il suo piede in grembo, piansi. Mi spiegò che quanto mi accadeva non aveva niente a che vedere con l’energia degli altri e che nessuno mi stava sopraffacendo. Io mi stavo semplicemente aprendo a lui e quando il cuore di una persona comincia ad aprirsi, può entrare qualsiasi cosa. Essere aperta a lui significava essere aperta a tutti; ecco perché la gente decide che è più sicuro rimanere con il cuore chiuso. Disse che il mio cuore si stava aprendo piano piano e che perciò era stupendo, ma proprio per questo, talvolta anche un cane randagio sarebbe potuto entrarvi. Quindi, dovevo stare attenta e cacciare via il cane, se succedeva. “Questo accadrà a molte persone che staranno con me. Quando cominciano ad aprirsi, qualsiasi cosa può travolgerle. Tu sei aperta: qualcuno ti passa accanto e immediatamente ti senti posseduta dalla sua vibrazione. Ma la ragione è che ti stai aprendo a me, che ti stai lasciando sempre più possedere da ciò che io sono. Pertanto le porte sono aperte; a volte l’energia di qualcuno può non piacerti; arriva dentro di te e ti mette in difficoltà. Allora prendi semplicemente in mano il medaglione del mala e ricorda il mio piede. Riuscirai perfino a toccarlo, a sentirlo. E subito dopo, la sensazione sparirà.” “Ecco perché sono interessato a creare una Comune il più presto possibile, così non avrete più bisogno di andare fuori, nel mondo. Piano piano, la consapevolezza della mia gente si eleverà sempre più in alto, cosicché nessuno, anche se travolto da qualcun altro, starà male. Sarà una gioia. E lo ringrazierai di averti dato qualcosa di stupendo solo passandoti vicino. Questo è il significato di una Comune. Un posto dove la gente vive in tutt’altro modo, vibrando a un livello diverso. Ci si aiuta l’un l’altro e tutti diventano come una grande onda per gli altri. Potete cavalcare l’energia l’uno dell’altro e continuare a volare a piacimento. E nessuno ha bisogno di uscire da qui.” “Aspetta qualche giorno ancora,” concluse. “In tre settimane sarà tutto finito.”
Alcuni giorni dopoVivek, la donna che si prendeva cura diOsho, venne da me e mi chiese se volevo cambiare lavoro. Aveva bisogno di qualcuno che lavorasse nella lavanderia di Osho, perché il suo dhobi (il lavandaio indiano), che aveva fatto questo lavoro per sette anni, stava andando in vacanza. Dopo tre settimane mi trasferii nella casa di Osho e cominciai il mio nuovo lavoro.