Libro di Prem Shunyo
Stati Uniti: il castello.
1 giugno 1981, New York.
Osho lasciò l’India con venti discepoli. I suoi sannyasin, con le mani congiunte sul cuore in segno di saluto, formarono una lunga fila lungo tutto il viale che attraversava l’Ashram e che la Mercedes su cui viaggiava avrebbe dovuto percorrere. Era toccante vedere tutte quelle figure, vestite dei colori arancio più sfumati, strette le une alle altre, salutare con le mani congiunte sul cuore, nel classico namasté, quel semplice essere umano. Con lui viaggiavano Vivek e il suo medico personale, Devaraj. Vivek, con quell’aspetto di bambina fragile che talvolta camuffava una gran forza di carattere e un’incredibile capacità di prendere in mano qualunque situazione, e Devaraj, alto, elegante, con i capelli brizzolati, formavano una coppia molto interessante. Io partii un’ora dopo con l’intima sensazione che la Comune in cui avevo vissuto così intensamente per tanti anni, stesse morendo, e in un certo senso era vero, perché non sarebbe più stata la stessa. Come avrebbe potuto? La Comune era stata un unico campo d’energia, un corpo solo, eravamo così uniti nelle nostre meditazioni e negli energy darshan… e ora mi rattristava sapere che ci saremmo sparsi per il mondo e che la mia vita non si sarebbe più mossa in quello scenario magico, fatto di beate meditazioni, di lunghe tuniche svolazzanti, inconsapevoli e incuranti di quello che succedeva nel resto del mondo. Il diamante del mio mondo interiore stava per essere tagliato, e quel taglio sapeva di intervento chirurgico.
Sul volo Pan Am 001 per New York, Osho, Devaraj, Vivek e Nirupa, la ragazza che puliva la sua stanza, occupavano tutta la prima classe. Era la prima volta, in parecchi anni, che Osho usciva dalle condizioni quasi asettiche in cui viveva nell’Ashram di Pune e noi avevamo fatto del nostro meglio per pulire a fondo tutta la prima classe dell’aereo. Avevamo ricoperto tutti i sedili con stoffe bianche e tentato di eliminare i vari odori, dai profumi alle sigarette, lasciati dai tanti passeggeri. La novità della situazione, trovarsi cioè su un aereo con Osho, in volo verso l’America, era molto eccitante anche se l’addio all’India e a tutti gli amici era stato triste. Due fratelli, che a Pune insegnavano karatè, si improvvisarono fotografi e immortalarono il viaggio fotografando Osho mentre faceva cose per noi inimmaginabili, come bere un bicchiere di champagne, o quanto meno fare il gesto di berlo.
Con noi c’era anche Sheela, che in America sarebbe stata la segretaria di Osho. Senza rendersene conto, insultò prima uno steward e poi una delle hostess…e in poco tempo l’intero equipaggio della seconda classe ce l’aveva con noi. Provò a scusarsi con lo steward dicendo che non intendeva insultarlo chiamandolo “ragazzo ebreo”, anche lei in fondo era ebrea e sposata con un ebreo…ma era troppo tardi. Il suo modo di fare aveva già creato delle inimicizie. Questo era tipico del carattere di Sheela. L’ho sempre vista come un diamante ancora grezzo.Mi accadeva spesso di osservare il modo in cui Osho includesse comunque le persone; oggi posso dire che, quando Osho lavora sulle persone, vede al di là della personalità, e interagisce con qualcosa di ben diverso da ciò che noi siamo in quanto mentalità e comportamento. Vede il nostro potenziale, la nostra possibilità di diventare dei buddha e lì ripone tutta la sua fiducia. L’ho sentito ripetere mille volte: “Mi fido del mio amore. So che il mio amore vi trasformerà.”
All’aeroporto di New York ci aspettava Sushila. La sua personalità e il suo aspetto fisico le fanno meritare l’appellativo dimadre-terra. Èmolto schietta e alle volte può anche apparire molto dura. L’ho incontrata sempre e solamente negli aeroporti. In quella particolare occasione, sembrava essere a capo del servizio bagagli e dogana dell’aeroporto. Tutti i facchini lavoravano per lei e quando venne il momento di passare la dogana, era dovunque; devo dire che mi impressionò molto. Rimasi stupita dall’attenzione con cui guidò Osho fuori dall’aeroporto, cercando di proteggerlo dagli odori più diversi che comunque impestano sempre un luogo pubblico, e che potevano procurargli forti attacchi di asma, essendo sensibile e allergico al più innocuo dei profumi.
A Pune era successo che fosse preso da attacchi violenti per le sostanze più ‘inodori’ a un comune naso; in un’occasione, fu sufficiente l’odore di una tenda nuova. Quest’uomo tanto presente, era incredibilmente fragile nel corpo, e ora tutto era peggiorato, a causa del forte mal di schiena di cui soffriva. Non sapevo cosa avremmo potuto fare, nel caso in cui qualche funzionario lo avesse fermato e fatto aspettare per una ragione qualsiasi. E fui grata a Sushila per la velocità con cui seguiva e faceva sbrigare le diverse formalità che accompagnano l’ingresso in un nuovo Paese. Dal canto suo, Osho sembrava non avere preoccupazione alcuna. Camminava con lentezza presente per l’aeroporto, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. Credo che fosse così quieto e in pace con se stesso da non essere toccato affatto da ciò che lo circondava.
Fuori dall’aeroporto, New York! Non ci potevo credere. Poi il tragitto fino al New Jersey fu uno shock. Non c’era nessuno per la strada, nemmeno un cane randagio, miglia e miglia di case e macchine, ma nessun segno di vita. Il cielo era grigio e spento, non c’era il sole e nemmeno le nuvole.Era esattamente il contrario dell’India, dove nel bel mezzo della sovrappopolazione e della povertà batte un cuore pieno di vita e di colori. Guardavo le strade deserte del New Jersey e per un momento pensai con terrore che forse c’era stata un’esplosione nucleare ed erano tutti morti. L’auto imboccò una strada piena di curve che si arrampicò su per una collina, attraversò un bosco di pini e raggiunse un castello. L’edificio si ergeva in cima a una collinetta ed era circondato da prati e boschi, aveva una torre, finestre rotonde e vetrate colorate. Lungo la strada, proprio nei pressi del cancello del castello, avevo visto un monastero e i monaci vagavano nel bosco indossando cappucci bianchi. Sembravano usciti da una favola dei fratelli Grimm, nel bel mezzo del New Jersey industrializzato.
Stanca e sconvolta, mi misi a sedere sull’erba con altri trenta sannyasin in attesa che arrivasse Osho. Ci addormentammo tutti, poi qualcuno gridò che Osho stava per arrivare e allora sollevammo i nostri corpi stanchi unendo le mani sul cuore, nel namasté. Tutto mutò all’improvviso. Quasi non mi rendevo conto di aver fatto il viaggio in aereo con Osho; ero seduta su quel prato aspettando il suo arrivo, ed era come se lo vedessi per la prima volta. Per anni, a Pune, avevo sempre visto Osho indossare un unico modello di tunica, bianca e dritta, senza fronzoli né merletti. Impiegavo ore a stirare le pieghe delle maniche, che erano in realtà l’unico dettaglio impegnativo. Adesso era vestito diversamente. Sopra la tunica indossava una lunga giacca fatta a maglia, dai bordi bianchi e neri, e un cappello di maglia nero. Come sempre, sorrise: era molto contento di vederci, i suoi occhi brillavano, e parve toccarci a uno a uno con lo sguardo, mentre ci salutava con le mani giunte. Per alcuni minuti si sedette con noi sull’erba a occhi chiusi… lo seguii in quella dimensione, e subito mi resi conto che quando ho gli occhi chiusi e sono immersa in me stessa, non esistono né l’India né l’America. Quando la mia mente si ferma non ci sono nazioni, non esiste neppure il mondo… lo stesso silenzio sperimentato in meditazione nell’Ashram di Pune è presente dentro dime. Il suono di un flauto mi richiamò al prato su cui ero seduta: Osho si stava alzando con i movimenti delicati che l’hanno sempre contraddistinto, poi si avviò verso la scala di pietra che portava all’entrata del castello.
La ristrutturazione della sua stanza non era ancora ultimata e come sistemazione temporanea, erano state allestite due stanzette all’ultimo piano del castello, che si potevano raggiungere con l’ascensore. Non appena mi fu mostrato il posto in cui avrei dovuto lavorare, mi resi conto che a Pune ero stata viziata, con la mia lavanderia immacolata, così tranquilla e tagliata fuori dall’incessante attività dell’Ashram, dove a nessuno era permesso entrare. A modo mio, ero un po’ una primadonna. Adesso, con orrore, scoprii che la lavanderia era in cantina. Anche se ripulita, una cantina rimane una cantina, piena di oggetti e di ragnatele. Ogni tanto dalle tubature uscivano gas e vapore. Mi arrabbiai moltissimo quando scoprii che non c’era neanche un secchio, ma poi rimasi di stucco di fronte alle meraviglie del ‘mondo moderno’. Non solo arrivarono i secchi, ma anche una lavatrice. Sistemai i fili della biancheria sulla torre del castello. La scala a chiocciola mi ricordava Notre Dame di Parigi, e tutte le volte che vi ero salita (no, non come ‘il gobbo’!).Mentre salivo quelle scale (e ci sono alcune stazioni della metropolitana di Londra che mi fanno lo stesso effetto) una voce nella mia testa diceva: “Queste scale portano all’eternità, non finiscono mai.” Per qualche attimo credevo veramente che sarei rimasta per sempre su quelle scale di pietra. Ma poi, dopo l’ultima rampa, la più stretta, spingendo un pesante portone di legno, mi trovavo in cima alla torre.
Sotto di me, si stendeva un mare di prati verdi e di case disseminate per la campagna, poi una nebbia fitta e in questa nebbia galleggiava un altro pianeta: NewYork City. La vedo ancora chiaramente risplendere in quel cielo rosa-arancione. Osho sperimentava ed esplorava il modo di vivere americano con l’entusiasmo di un bambino. Per anni aveva mangiato le stesse cose: riso, lenticchie rosse e tre tipi di verdure. La sua dieta era molto rigorosa, per mantenere sotto controllo il diabete di cui soffriva. Devaraj se ne stava seduto in cucina per delle ore, pesando ogni grammo di cibo che Osho mangiava, per calcolarne le calorie. Mi era difficilissimo capire il delicato equilibrio cui era legata la salute di Osho. Ricordo che quando ero ancora al Centro di Meditazione di Londra e vidi per la prima volta una foto delle mani di Osho, immediatamente pensai che non poteva essere illuminato, perché la linea della vita, sulla sua mano, era troppo corta. Doveva essere un condizionamento cristiano a farmi pensare che essere illuminati significasse diventare immortali. Di certo, era comunque vero che Osho fosse legato al suo corpo da un filo sottilissimo, ed era per noi fonte di preoccupazione vederlo sperimentare cibi tanto diversi: cereali americani, frittate, una volta perfino degli spaghetti, che però nemmeno toccò, perché disse che sembravano vermi indiani. Nei primi giorni, Osho passava le giornate guardando un po’ la televisione e facendo ogni tanto dei giri in macchina a New York. Esplorava anche il castello e lo si poteva incontrare nei posti più impensati, con un gran sorriso sul volto, mentre noi strillavamo per la sorpresa, non avendolo mai visto da nessun’altra parte se non seduto sulla sua poltrona in Buddha Hall o in Chuang Tzu, a Pune. Venne a visitare anche la lavanderia, giù in cantina; mi girai e lo vidi lì sulla porta; fui presa così alla sprovvista che per lo stupore mi bruciai col ferro da stiro.
Anasha, una ragazza italiana che non aveva avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto per vedere Osho in qualche posto del castello, gli scrisse chiedendogli se per caso non la stesse evitando… e Osho andò a trovarla mentre faceva le pulizie e l’abbracciò con dolcezza. Per noi, Osho era sempre stato lontano, lo avevamo sempre visto come il Buddha che parlava dal podio o ci aiutava a muoverci in regni sconosciuti negli energy darshan, per cui quello che stava succedendo era assolutamente straordinario. Continuava ad apparire ovunque, inaspettatamente, e mi resi conto che durante il giorno stavo diventando sempre più consapevole perché, proprio come nelle storie Zen, il Maestro poteva apparire improvvisamente con il suo bastone e colpire il discepolo. L’unica differenza era che Osho non aveva un bastone, ma solo un amorevole sorriso. Ma io non sono mai riuscita a coglierlo di sorpresa e una volta gli chiesi se qualcuno ci fosse mai riuscito. Osho rispose: “Non c’è nessuno da sorprendere. Io sono assente, come lo sarò quando sarò morto, con una differenza…in questo momento la mia assenza ha un corpo, allora, la mia assenza non avrà più un corpo.”
In ogni caso, io ero sorpresa, o meglio vivevo in uno stato di shock permanente, a causa del cambiamento d’ambiente. Mi mancava la Comune, anche se ero fortunata a essere lì con il Maestro. Ho sempre considerato l’America come un posto non ancora nato, non formato, come un feto che non ha ancora un’anima; mentre l’India la sento antica e immersa in una magica atmosfera. In base alla mia esperienza, posso dire che la televisione crea una profonda dipendenza: per me è un intossicante pericoloso come una droga. Anch’io, i primi giorni al castello, guardavo la televisione, ma poi mi svegliavo urlando, in preda agli incubi. Una notte svegliai tutti, e quando aprii gli occhi Nirupa mi stava accarezzando e diceva: “Non è niente, va tutto bene…”. Smisi di guardare la televisione, e da allora mi sono sempre chiesta come fa la gente a non capire che tutte le stupidaggini e tutta la violenza che fanno vedere in televisione, pian piano distruggono la mente. A volte mi sedevo sulla torre a occhi chiusi, ma la meditazione non andava molto in profondità… era più facile innamorarsi. Quasi tutti si innamorarono al castello. Io e Vivek avevamo una storia d’amore con lo stesso uomo, ma non c’era gelosia, anzi ne ridevamo insieme. Mi rendo conto che questo può essere considerato strano, perché normalmente si pensa che, se non c’è gelosia, non c’è amore. Ma io, con quell’esperienza stavo imparando che è vero esattamente il contrario. Se c’è gelosia, non c’è amore. Anche Anando (la donna avvocato che avevo incontrato anni prima a Londra) e Devaraj si incontrarono in quei giorni, e si innamorarono, e la loro storia durò molti anni.
Negli ultimi sei anni avevamo tutti indossato solo tuniche arancioni molto ampie, ma ora dovevamo adattarci al nostro nuovo ambiente. I nostri colori sarebbero rimasti quelli dell’alba e avremmo ancora portato il mala, ma ora i nostri vestiti erano di foggia americana; io, ad esempio, indossavo un abito un po’ punk con cerniere dappertutto. Sono convinta che dovevamo apparire piuttosto strani mentre esploravamo questo nuovo territorio in piccoli gruppi, tutti eccitati e ridendo di ogni cosa che vedevamo. Effettivamente, arrivavamo da un altro pianeta. A un certo punto, per Osho cominciarono le lezioni di guida. Sheela e suo marito Jayananda arrivarono un giorno con una Rolls Royce nera decappottabile. Osho uscì dal castello con Vivek, si mise al volante e diede ai tre passeggeri dei colbacchi neri alla Gurdjieff… l’auto iniziò a discendere la collina, mentre il tettuccio continuava ad aprirsi e a chiudersi: Osho stava provando tutti i comandi, mentre continuava a guidare. Noi spettatori, rimanemmo sbalorditi; non ci aspettavamo proprio che il Maestro guidasse una macchina. Erano passati almeno vent’anni dall’ultima volta che si era seduto al volante, probabilmente di una piccola macchina indiana, e in India si guida a sinistra. Era una scena stupenda!
Ogni giorno Osho invitava due persone a fare un giro in macchina con lui e Vivek. Per alcuni passeggeri l’esperienza fu più forte di quello che si aspettavano e tornarono al castello pallidi e tremanti. Più di una volta, dopo il giro in macchina, Vivek si fece dare un bicchiere di whisky per calmarsi. A lui piaceva andare veloce. I suoi passeggeri, dimenticando che Osho era l’unica persona effettivamente ‘sveglia’ e quindi più affidabile di chiunque altro, non riuscivano a contenere sospiri e urla soffocate quando prendeva le curve ad alta velocità. In più di una occasione Osho disse che c’era troppa paura dentro l’abitacolo. Una volta si fermò e disse: “Se non vi rilassate, non guiderò mai più!”. Un giorno, uno dei passeggeri seduto sul sedile posteriore esclamò: “Hai mancato quella macchina per un pelo…” e lui gli rispose: “Questo è un tuo giudizio.” Nirgun, una sessantenne molto energica che cucinava per Osho, descrisse un giro in macchina durante una notte burrascosa, come l’esperien za più esilarante della sua vita. In seguito Osho le fece sapere che era stata l’unica persona a essere veramente ‘presente’.
Osho usciva in macchina due volte al giorno, e ogni volta noi sedevamo sul prato antistante la casa e lo salutavamo improvvisando una musica bellissima. Uno dei musicisti era Nivedano, un brasiliano scuro e misterioso, diventato sannyasin da poco; anni dopo, mentre ancora suonava per Osho, rivelò un altro grande talento: costruire cascate. C’era Govindas, un tedesco pallido che suonava il sitar meglio di un indiano, e Yashu, una zingara spagnola che suonava due flauti alla volta; con lei c’era Kavia, la figlia di tre anni. Arrivò anche Rupesh, l’esperto di tabla, un vulcano di energia; nel vederlo, dalla contentezza lo abbracciai con un tale impeto che mi ruppi un incisivo contro la sua testa. I monaci nostri vicini quando udirono la musica persero la testa. Ci accusarono di praticare magia nera e fare sacrifici rituali. In America, Sheela divenne la segretaria di Osho e a Laxmi, che lo era stata per molti anni in India, fu detto di sentirsi ‘in vacanza’. Osho le disse di rilassarsi e di non fare niente. Un anno dopo aggiunse che se lo avesse ascoltato si sarebbe senz’altro illuminata.
Laxmi provò a suonare con i musicisti, ma non faceva per lei, allora provò a lavorare in cucina, ma il pranzo non era mai pronto prima dell’ora di cena. Povera Laxmi… cercava in tutti i modi di far vedere che era brava come tutti gli altri, per cui cominciò anche a bere liquori e a una festa che avevamo organizzato in giardino per familiarizzare con la gente del posto, dopo due bicchierini si ubriacò e cadde da un tavolo. In seguito andò via e con altri sannyasin tentò di creare una nuova Comune per Osho. Con un Maestro, quando la situazione cambia non puoi farci niente, se non seguire la corrente, o il flusso, che è poi l’esistenza, perché nella vita tutto cambia in continuazione, e quando hai un Maestro, la cosa più importante è imparare ad accettare i cambiamenti. Alcune persone che a Pune svolgevano mansioni di un certo potere e prestigio, trovarono impossibile adattarsi alla nuova situazione. Per cui, molti se ne andarono e il gruppo intorno a Osho cambiò, come se un forte vento avesse staccato i rami morti dall’albero. Parlando con Devaraj, capii che Sheela non era diventata la segretaria di Osho solo per motivi pratici, in quanto era indiana ma anche cittadina americana e aveva vissuto in America per molti anni. La cosa era molto più complessa, e la sua ascesa era iniziata quattro o cinque mesi prima, a Pune. In un suo libro Devaraj scrive: “Sheela, con il nostro aiuto, attivo o passivo, prese in mano il potere. Osho non disse mai: ‘Tu sei la persona migliore per fare questo lavoro,’ semplicemente confermò il ruolo che lei di fatto si era presa; ogni altra scelta sarebbe stata una sua imposizione su di noi. Nel contesto buddhista questa si chiama ‘consapevolezza priva di scelta’. Scegliere qualcuno sarebbe stato contrario al suo modo di lavorare.
Anche lui viveva in questa Comune sperimentale che stava prendendo vita grazie alle tante presenze che la formavano, e per rimanere viva, doveva avere una sua integrità. Osho non avrebbe mai fatto una scelta che andasse contro lo scorrere degli eventi. Andava sempre con la corrente, accettava totalmente quello che l’esistenza gli offriva e dava il cento per cento del suo supporto perché funzionasse. Se l’esistenza gli aveva portato Sheela, ci doveva essere una ragione, ci doveva essere qualcosa che dovevamo imparare da questa esperienza. Ed era verissimo! Allo stesso modo in cui Osho mette la vita nelle mani del suo medico con totale fiducia, così mette il lavoro della sua vita nelle mani dei suoi amministratori con totale fiducia. E così come lui è sempre consapevole del potenziale di inconsapevolezza e bruttezza presenti in tutte le persone non illuminate, lo è anche del loro potenziale di consapevolezza e bellezza.
La sua certezza è che in tutti noi un giorno, non importa quando, la consapevolezza disperderà l’inconsapevolezza così come la luce disperde le tenebre.” (da Bhagwan, the most godless yet the most godly man, Dr. George Meredith) Anch’io penso che Osho non ‘scelga’. Non siede al darshan o al discorso guardandosi in giro, cercando una persona con un’aura o una potenzialità particolare, pensando: “Quella mi laverà i vestiti e quell’altra cucinerà per me…”. Chiunque arrivi da lui, viene accettato totalmente; per esempio, io non saprò mai, perché non l’ho mai chiesto, se fu Osho oVivek a darmi l’opportunità di essere la sua lavandaia, diventando così parte della casa di Osho. Ma ho il sospetto che sia stata Vivek. Sembra che per puro caso fossi nel posto giusto al momento giusto.
Intorno al castello c’era un bosco di pini e abeti e di notte il canto delle cicale era così acuto e penetrante che sembrava dovesse rompere i vetri delle finestre. Un giorno vidi una cicala sul tronco di un albero, era lunga quindici centimetri e di colore verde brillante; capii come potesse cantare tutto il giorno in modo così assordante. Mi piaceva dormire nel bosco. La veglia e il sonno si alternavano in modo naturale e avevano una qualità quasi animale. Nell’aria sentivo molti suoni strani e fruscii indistinti che mi facevano un po’ paura, ma anche questo mi piaceva. Poi, un giorno, arrivò dalla Germania una donna che nessuno conosceva; era una fanatica cristiana e cominciò a parlare male di Osho in tutto il New Jersey. Poco dopo, dei teppisti cominciarono a venire al castello di notte; scrissero sui muri con bombolette spray “tornatevene a casa”, e fecero esplodere delle bombe di carta. Il boato fu così forte che saltammo giù dai letti pensando che si trattasse di bombe vere. Tirarono anche delle pietre, rompendo i vetri. Stabilimmo dei turni di guardia, e io non dormii più nel bosco. I monaci che vagavano nella nebbia mattutina con i loro cappucci bianchi più le macchine di teppisti ubriachi e urlanti, cominciavano a farmi sentire a disagio. Mi stupivo: ce n’eravamo stati sempre per conto nostro, senza dare fastidio a nessuno e malgrado ciò, non piacevamo alla gente: eravamo troppo diversi. Rimanemmo al castello per tre mesi, mentre Sheela era sempre in giro a cercare una terra da comprare. Finalmente trovò il ‘Big Muddy Ranch’, o ‘oceano di fango’, nel cuore dell’Oregon. Erano 30.000 ettari di terra spoglia, resa quasi desertica da anni di allevamento intensivo e abbandonata da oltre cinquant’anni, perché costosa da mantenere e improduttiva sotto tutti i punti di vista. Sheela comprò quel Ranch perché lo aveva trovato nel giorno dell’anniversario della morte del suo primo marito e aveva firmato il contratto il giorno del suo compleanno. Almeno questo fu ciò che ci disse.