I miei giorni di luce con Osho: Capitolo Quindicesimo

Libro di Prem Shunyo

Non potete nascondermi

Io e Rafia arrivammo a Montego Bay, in Giamaica, quando Osho era già lì, perché avevamo fatto scalo a Miami. Mi sentivo svenire dal caldo e la devitalizzazione che il dentista mi aveva fatto il giorno prima mi faceva male al punto che avrei potuto mettermi a urlare.

Ci vennero a prendere all’aeroporto e ci portarono in una villa che Arup aveva trovato in tutta fretta per Osho. Arup, fedele e incrollabile, era sopravvissuta all’esperienza di aver lavorato con le due donne tiranne– Laxmi e Sheela – di cui era stata assistente e ne era uscita sorridente. In quel periodo era rimasta in contatto con Hasya e Jayesh, allora in Portogallo e, venuta a sapere quanto pericoloso fosse diventato per Osho stare in Uruguay, era partita immediatamente dall’Olanda per la Giamaica, dove aveva trovato un luogo adatto alla sosta.

La casa apparteneva a un famoso tennista; era un bungalow con del terreno intorno, una piscina e una bellissima vista dell’isola.La maggior parte del nostro gruppo era rimasta in Uruguay, per chiuderela casa e aspettare di scoprire come sarebbero andate le cose. Gli uruguayani coi quali eravamo in contatto, stavano portando avanti una causa legale contro il governo, perché il rifiuto di concedere il visto permanente a Osho era illegale, ma soprattutto aveva distrutto la loro illusione di vivere in un paese libero. Faceva male scoprire che il loro paese non era altro che una colonia della “gente del nord”, come loro chiamavano gli americani. Appena arrivati, ricevemmo una buona notizia: avevano dato, senza nessuna difficoltà, un visto turistico a Osho all’aeroporto di Kingston,in Giamaica; subito seguita da una brutta notizia: dieci minuti dopol’atterraggio dell’aereo di Osho, era arrivato anche un jet della Marina Americana. La cosa era alquanto sospetta. Anando li aveva visti scendere e mentre due agenti in borghese attraversavano la pista, lei aveva fatto uscire rapidamente Osho e tutti gli altri dall’aeroporto e li aveva fatti salire su un taxi. In Uruguay, sapevamo di avere il telefono sotto controllo e una volta Anando chiese a Osho: “Perché ci mettono sempre i telefoni sotto controllo? Vogliono forse consigli spirituali a buon mercato?”.

Dopo cinque minuti di pettegolezzi, mi ritirai nella stanza che avrei dovuto dividere con Anando. Era piccola, ma aveva l’aria condizionataed era fresca; diedi uno sguardo all’armadio chiedendomi se valevala pena disfare i bagagli. Decisi di aspettare, presi delle pillole per il mal di denti e dormii per quattordici ore. La mattina seguente, mentre facevo colazione, qualcuno bussò rumorosamentealla porta. Mi affacciai alla finestra e vidi sei uomini di colore,tutti molto alti, vestiti in pantaloncini color kaki e con in mano dei bastoni. Dissero di essere della polizia. Anando andò a parlare con loro;sembravano molto arrabbiati: senza mezzi termini, dissero che tutte le persone arrivate in Giamaica il giorno prima, dovevano uscire con i loro passaporti! Anando li rassicurò, dicendo che avevamo tutte le carte in regola e chiese qual era il problema. Dissero che dovevamo lasciare l’isola – immediatamente! Quando se ne andarono, Anando chiamò Arup, che stava in un hotellì vicino; lei si mise in contatto con il nostro amico tennista che conosceva delle persone all’interno del governo, nella speranza che potessero aiutarci.

Noi tutti pensavamo a un errore…Passammo alcune ore a telefonare a questi amici del tennista, che nel frattempo ci aveva raggiunti. Ma alla fine, lui commentò: “È molto strano,ma ogni volta che dico il mio nome, subito mi rispondono che tizio o caio non sono in ufficio. Nessuno è al lavoro oggi, e neppure a casa…non riesco a trovare nessuno che vi possa aiutare!”.La polizia tornò due ore dopo. Questa volta sentii un gran peso nel cuore, quando ci ritirarono i passaporti e annullarono i visti. Per fortuna riuscimmo a tenere Osho in disparte, così non fu costretto a stare in piedi sotto il portico, con quel caldo soffocante. I poliziotti erano molto aggressivi, e avevano addosso il consueto odore della paura. Forse anche loro pensavano di avere davanti a sé pericolosi terroristi, come tutti gli altri poliziotti che avevamo incontrato in America, in India e a Creta. Quando Anando chiese perché ci ordinavano di lasciare il paese, dissero semplicemente: “Ordini.” Quando lei insistette per avere un minimo di spiegazioni, le risposero che erano ordini che riguardavano la Sicurezza Nazionale. Osho doveva uscire dal paese prima del tramonto. Non avevamo né un aereo, né un paese dove andare! Di certo non potevamo restare in Giamaica: avevamo paura per la sicurezzadi Osho. Fortunatamente era arrivato Cliff, il pilota di Osho, che alcuni mesi prima l’aveva accolto a Dubai con un ombrello aperto, e subito si mise a fare telefonate su telefonate, nel tentativo di affittare un aereo per portarvia almeno Osho… visto che non sapevamo dove andare! Era praticamente impossibile nascondere i nomi dei passeggeri e la maggiorparte delle compagnie rifiutavano immediatamente, non appena ne venivano a conoscenza. Inoltre non conoscere la propria destinazione è un altro punto a sfavore, quando si cerca di affittare un jet, visto che tutti i piani di volo devono essere preparati in anticipo e comunicati dai piloti ai paesi in cui si desidera atterrare.

Hasya e Jayesh erano in Portogallo, dove stavano cercando di ottenere un visto per Osho, ma ancora non avevano in mano nulla. Il resto dell’Europa era fuori questione, e quando Devaraj arrivò a menzionare Cuba, ci ricordammo che Osho aveva già detto ad Hasya, poche settimane prima: “No, Castro è un marxista.”Prima la fuga dall’Uruguay e adesso questo… Vivek crollò. Disse che non voleva più saperne! Era arrabbiata e voleva lasciare il gruppo. Subito io mi innervosii; mi accadeva sempre, quando lei entrava in uno dei suoi momenti di umore nero. Avevo sentito dire che Osho quella mattina si era alzato molto presto,stimolato dalla forte luce del sole giamaicano, ed era uscito per dare un’occhiata alla casa. Passeggiando in giardino e intorno alla piscina,aveva incontrato Leroy, il giardiniere, che era rimasto praticamente sconvolto dalla sua apparizione, al punto che aveva subito lasciato lacasa, dicendo: “Quell’uomo è veramente incredibile. Non avevo mai visto un uomo così prima d’ora.”

Osho aveva poi fatto dei piani per installare dei condizionatori d’aria nel soggiorno, dove avrebbe ripreso i suoi discorsi, e adesso era seduto nella sua stanza, in silenzio, e io gli portai quelle ultime notizie, informandolodi come ci stavamo muovendo per trovare una soluzione. Avevo paura. Pensavo che da un momento all’altro la polizia (“Ma erano davvero poliziotti?” Chiesi. “Non so nemmeno che aspetto hanno i poliziotti giamaicani”, mi sembravano dei criminali) avrebbe potuto tornare e ucciderci, e le nostre foto sarebbero apparse su Newsweek o sulTime. Ma a chi sarebbe interessato? Il mondo intero sembrava disinteressarsi alla nostra sorte! Nel primo pomeriggio Cliff aveva finalmente trovato un aereo: sarebbe venuto a prenderci dal Colorado; ora tutto ciò che avremmo dovuto fare, era aspettare! L’aereo sarebbe dovuto arrivare verso le sette di sera e alle sei, Cliff, Devaraj e Rafia partirono con tutti i bagagli. Ci avrebbero telefonato a operazioni di carico terminate e noi li avremmo raggiunti. Lasciarono Anando, Vivek, Maneesha e me insieme a Osho; quattrodonne e un mistico in una casa isolata nella campagna di quell’isola per noi diventata così inospitale. Passate le sette, ogni minuto divenne un’eternità; poi, all’improvviso si spensero le luci. Ci avevano tolto la corrente elettrica e su di noi calò un buio pesto. Pensai: “Ecco, ci siamo!”. Trovai una candela, la misi dentro un bicchiere e, brancolando nel buio, andai nella stanza di Osho. Era seduto vicino al condizionatore d’aria che ovviamente non funzionava più e la stanza stava diventando molto calda. Lo vidi rilassato, anche se era preoccupato per il condizionatore…gli lasciai la candela e tornai nell’altra stanza dove tutti cercavano candele e aspettavano che il telefono suonasse. Alle otto non avevamo ancora ricevuto nessuna telefonata. Tornai daOsho per vedere come stava; vidi che non era più seduto sulla sedia, la stanza era immersa nel buio. Lo chiamai ma non mi rispose. Per alcuni minuti rimasi là impalata nel buio; stavo per mettermi a urlare quando la porta del bagno si aprì e Osho avanzò verso di me con in mano quel portacandele rudimentale che gli avevo preparato, reggendolo con attenzione in modo da non bruciarsi le dita. Ero così felice e sollevata nel vederlo che posso descrivere l’espressione sul suo volto con un’unica parola: delizia. Assoluta delizia. Sorrideva come un bambino quando gioca… avevamo giocato a nascondino! Gli feci vedere che avevo portato un portacandele migliore ma lui disse: “Questo va benissimo.” Gli dissi che poteva bruciarsi le dita, ma a lui piaceva, se lo portò vicino alla sedia e si mise a sedere. Allora appoggiai lì anche l’altra candela, e lo lasciai seduto tra quelle due candele accese e raggiunsi gli altri.

Qualcuno bussò alla porta… provai un tuffo al cuore, ma era solo il nostro amico tennista. Era venuto a vedere come ce la passavamo durante il black out e aveva portato anche la moglie e il figlio. Pensai che probabilmente, se portava con sé la sua famiglia per incontrare Osho, non sarebbe successo nulla di orribile. Il telefono squillò! L’aereo era arrivato; velocemente radunammole ultime cose e Osho uscì dalla camera sorridendo e salutando tutti col namasté. Andai con Osho e Arup all’aeroporto. La destinazione era il Portogallo:era la nostra ultima spiaggia ed era anche la fine delle nostre speranze di trovare un paese in cui Osho avrebbe potuto vivere. La nostra principale paura era che Osho dovesse tornare in India; dopol’ultima esperienza in quel paese, sembrava la cosa peggiore che ci potesse capitare. Pensavamo che non avrebbero permesso l’ingresso a nessun discepolo occidentale.

Decollammo verso il Portogallo e atterrammo in Spagna! C’era stato un malinteso con i piani di volo, ma non ci furono problemi, solo un po’ di confusione e una sosta di un’ora a Madrid per fare il pieno. A Lisbona le cose andarono incredibilmente lisce: Hasya e Jayesh lo aspettavano, e lui superò gli uffici di immigrazione tranquillamente,ottenendo il visto senza problemi. Quasi per miracolo, qualunque rete fosse stata tesa intorno a noi, riuscimmoa spezzarla… e Osho sparì per sei settimane. Usciti dall’aeroporto,andammo direttamente all’hotel Ritz. Facemmo entrare Osho daun’entrata secondaria, e non registrammo il suo nome, perché non volevamo dare troppo nell’occhio. Per Osho, avevamo preso una suite, che aveva una stanza in più, dove mi sistemai con Vivek. Durante il volo Osho aveva dormito, come al solito; si era svegliato solo per mangiare e andare al bagno. Poi mi chiese una Diet Coke eVivek, che lo aveva sentito, mi disse: “Non dargliela, gli fanno male; digli che sono finite!”.Non avevo mai rifiutato qualcosa a Osho, ma con Vivek che mi osservava,gli dissi coraggiosamente: “Hai appena bevuto l’ultima.”“Cosa!” disse, mettendosi a sedere con gli occhi spalancati. Mi sentivocome se fossi entrata nella tana di un leone – i poliziotti giamaicani non erano niente al confronto! – “Non ci sono più Diet Coke?”.“Beh…!” borbottai, desiderando con tutta me stessa che non mi guardasse con quegli occhi, mentre cercavo di dire una bugia. “Sono finite.” Fortunatamente, scoprimmo che era la verità, ma lui non la smise più di ripetere che avremmo dovuto farne una buona scorta, non appena a terra. La cosa più divertente fu che nei tre anni successivi a questo incidente, Osho ha bevuto solo e unicamente Diet Coke. Non posso dire se sia stata o meno una semplice coincidenza…La prima mattina a Lisbona, mi svegliò il suono della voce di Osho chediceva: “Chetana, Chetana.” Non me lo dimenticherò mai. Ero ancora mezza addormentata e sentire la sua voce che mi chiamava per nome…Aveva fame. Era venuto in camera nostra e si stava dirigendo verso i piatti della sera prima, che non avevo messo fuori dalla porta, perché ero troppo stanca. “No Osho, quello è il cibo di ieri sera,” dissi, e andai a cercare Mukti per vedere se poteva rimediare qualcosa dalle borse frigorifere che portavamo sempre con noi.

Quando viaggiava in aereo, a Osho piaceva molto sperimentare prodotti alimentari nuovi, che scopriva a bordo. Trovò dei biscotti che gli piacevano moltissimo e in seguito fu per noi una gioia cercare di farglieli trovare, ovunque andassimo. Nella prigione di Mecklenberg, gli diedero uno yoghurt – Yoplait – che gli piacque tantissimo… per anni ci industriammo a farlo arrivare dall’America, dovunque Osho si trovasse. In volo, poi, passava diverso tempo in bagno, dove sperimentava le diverse creme e i saponi. Una volta scoprì un prodotto che continuò a usare per anni: ‘Evian’ – era acqua pura che spruzzata addosso aveva un effetto rinfrescante. Aveva una particolare abilità nel farsi piacere cose che non si trovavano più, perché il prodotto non era più in commercio, o perché la ditta era fallita. Quando qualcosa gli piaceva, gli piaceva veramente.In un negozietto dell’Oregon trovammo un balsamo chiamato ‘coolmint’; gli piacque molto, perché gli rinfrescava la testa e continuò a usarlo per anni. Ne consumava una bottiglia ogni pochi giorni,ma quando cercammo di comprarne ancora, scoprimmo che la società che lo produceva era canadese e aveva una distribuzione molto limitata. Facemmo un contratto con la società: ogni volta acquistavamo diverse casse che venivano spedite in Germania; da lì il prodotto raggiungeva Osho, ovunque fosse, portato dai sannyasin tedeschi. Anche una crema verde alla menta, prodotta da una piccola ditta di LosAngeles lo aveva affascinato: Osho era il loro miglior cliente, perciò quando la ditta cessò l’attività, ci accordammo con la padrona per comprare tutte le rimanenze, più la ricetta in modo da poter continuare a produrla. Per i sannyasin fare acquisti per Osho era una sfida incredibile. Ovviamente a lui non dicevamo mai quanto fosse difficile reperire certi prodotti…sapevamo che ci avrebbe risposto di non voler disturbare nessuno.Certo, metteva sottosopra tutto il pianeta, ma quella è un’altra storia. La gioia nel fargli avere uno shampoo, o un semplice sapone e il piacere nel sentirgli dire: “Mi piace moltissimo,” con quel suo entusiasmo che vibrava nella quiete del suo essere e gli occhi che gli brillavano, ricompensava gli sforzi fatti. È un uomo molto semplice e non chiede molto.

Nel giro di pochi giorni, divenne evidente che, se qualcuno avesse cercato Osho, il Ritz hotel sarebbe stato il posto più ovvio. Eravamo fuori stagione e Anando trovò un hotel molto bello e deserto in una città vicina a Lisbona, Estoril. Studiammo come far uscire Osho senza clamori, nella notte, passando dal garage in modo da evitare accuratamente la hall dell’albergo. Anando,Hasya, Mukti e io, dovevamo farlo salire di nascosto in un ascensore di servizio, standogli intorno, in modo che non venisse riconosciuto da chiunque passasse in quel momento nel corridoio. Osho uscì dalla stanza prima del previsto, indossava una tunica bianca ela sua barba lunghissima spiccava inesorabilmente; Anando scherzando cercò di persuaderlo a indossare un impermeabile col bavero alzato e un cappello con le falde abbassate. “Non potete mascherarmi!” replicò. Allora Vivek provò a convincerlo, ma lui rispose: “No, no, non mi riconosceranno senza il mio cappello!”. Alcuni di noi uscirono a gran velocità dal garage, su una prima macchina,su cui salii anch’io, che doveva depistare eventuali agenti americani,o giornalisti sulle sue tracce. Nella nostra mente ci vedevamo inseguiti per cui andavamo a gran velocità per le strade strette e piene dicurve, facendo giri a vuoto e usando tutta la nostra immaginazione per far perdere le tracce agli eventuali inseguitori. Più tardi, Anando mi ha raccontato che Osho era invece assolutamente rilassato, in contrasto con le nostre paure e le nostre preoccupazioni. Vivendo senza il peso di una mente che proietta nel futuro tutte le possibili calamità, giustificata peraltro da un passato recente a dir poco drammatico, per Osho non stava accadendo nulla…se non una passeggiata fuori programma. Quando arrivò in garage, sorrise a tutto il personale e salutò col namasté,mentre le persone presenti lo fissavano a bocca aperta per la meraviglia. Hasya e Anando cercavano di farlo entrare rapidamente in macchina,ma lui si fermò. Guardando Hasya negli occhi, iniziò a dirle quanto erano belli i tappetini del bagno… erano un vero comfort!“ Per favore Bhagwan, entra in macchina!” Lo incalzava Hasya. Ma lui, dopo qualche passo si fermò di nuovo: sì, quei tappetini erano veramente fantastici…gli sarebbe piaciuto averne uno anche dove stavano andando ora.Impiegammo due ore per arrivare nel nuovo hotel. Senza fare troppo rumore salimmo le scale per andare nelle nostre stanze. Io iniziai subito a disfare i bagagli. Fu un errore, perché non mi accorsi che la stanza di Osho aveva un odore di muffa che gli provocò un attacco d’asma. Devaraj gli diede delle medicine, ma subito ci rendemmo conto che, sebbene fossero le due di notte, la sola cura era andarsene da quell’albergoe tornare al Ritz. Scendemmo le scale in punta dei piedi, passammo di fianco ai proprietar iche dormivano davanti al televisore spento, scivolammo dietro di loro nel salone vuoto dell’hotel fino alla macchina che ci aspettava. Io rimasi lì: dovevo rifare i bagagli e raccontare una storia plausibile che spiegasse il nostro strano comportamento.

Restammo al Ritz ancora qualche giorno, poi trovammo finalmente una casa per Osho. Era in montagna, nell’entroterra portoghese; l’unica costruzione all’orizzonte era un castello sotto al quale una foresta di pini si estendeva, fino ad avvolgere anche la nostra casa. Finalmente eravamo riusciti a dare a Osho la pineta che gli avevamo promesso per anni a Rajneeshpuram. Mi stupisce la coincidenza di alcuni ricorsi, oserei dire storici: la pineta di Rajneeshpuram era alla fine di una strada il cui tracciato non finì mai in tempo, la pineta che ora ci avvolgeva sarebbe stata alla fine della nostra strada nei cieli del mondo, in un tour nel quale avevamo sperimentato di tutto, ma soprattutto il peso di un ostracismo quale mai era stato decretato, nei confronti di un essere umano. Sembrava che il mondo intero avesse chiuso la porta in faccia a un uomo che voleva semplicemente condividere la propria consapevolezza risvegliata. Comprammo dei mobili nuovi per la stanza di Osho e spostammo quelli esistenti in un’altra parte della casa. Pulimmo la sua camera e la rendemmo più Zen possibile… e i tappetini del bagno erano come quelli del Ritz. La sua stanza aveva un balcone letteralmente parte della foresta. Su quel balcone di solito Osho pranzava, cenava e lavorava con Anando. Non appena arrivammo, fece subito un giro intorno alla casa, suggerendo come migliorarla. Nei pressi vide uno stagno e consigliò diprendere dei cigni. Pian piano la vita riprendeva; dalla Giamaica, arrivò il resto del gruppo e in pratica eravamo pronti a ricominciare da capo; ma non fu così. Io mi sentivo veramente senza speranze; certo, andammo in giro a vedere alcune ville e dei palazzi in vendita; certo, ancora una volta la concessione del visto sembrava ormai sicura, ma… ero sfinita.

Preparammo una sala dove Osho avrebbe potuto ricominciare a parlare, ma lui se ne stava seduto sul balcone, a guardare la pineta. Dopo una decina di giorni, il clima cambiò, la nebbia cominciò a salire lungo i fianchi della montagna e inghiottì la foresta. Osho chiamò Anando nella sua stanza e le disse: “Guarda, una nuvola è entrata nella mia stanza.” La nebbia era la cosa peggiore per la sua salute. Iniziò ad avere attacchi di asma, fu ovvio che non poteva più sedersi sul balcone: di nuovo era praticamente confinato in camera. Non lasciò più la sua stanza per il resto del tempo che rimanemmo lì. In seguito, lo sentii dire a Neelam che era rimasto molto deluso nel vedere che il Portogallo ha strane vibrazioni e che non c’è alcuna possibilità di meditare in quell’ambiente. Vivemmo nella foresta per più di un mese. Di fatto ci stavamo nascondendo, in modo che le pratiche per l’immigrazione potessero procedere senza problemi, e non fossero ostacolate da notizie sui giornali del tipo: “È arrivato il guru del sesso!”, che facessero perdere la testa a tutti. Mi sembrava ingiusto nascondere Osho agli occhi del mondo: un diamante dovrebbe riflettere i colori dell’arcobaleno, per la meraviglia di tutti. Questa era la ragione per cui avevamo lasciato l’India. Avevamo portato Osho in giro per il mondo alla ricerca di un posto in cui potesse vivere e dove potesse parlare alla sua gente. Non chiedeva molto, solo di poter condividere la sua saggezza. Ero triste e in più mi ammalai: passai diverse settimane a letto, con un piede che si era misteriosamente gonfiato. La causa non venne mai scoperta,ma sospettammo di tutto, dal morso di un ragno velenoso, all’osteomielite. Me ne stavo tutto il giorno a letto a guardare il castagno in fiore che mandava riflessi dorati fuori dalla mia finestra e ad ascoltare il continuo, secco crack, crack, crack delle pigne che esplodevano al calore del sole, inondando il terreno di semi. La mia intima tristezza era equilibrata dall’allegria che ci accompagnava sempre, come gruppo affiatato.

In quei giorni ci godevamo le delizie del primo chakra: il cibo, organizzando banchetti luculliani, intorno a una lunga tavola di legno posta sul balcone: da una parte vedevamo l’ampia distesa della pianura e dall’altra la vista del castello. Nei giorni freddi e nebbiosi, sedevamo intorno a una grande tavola rotonda di quercia nell’immensa sala da pranzo. Feci anche brevi passeggiate nel bosco e nuotai nello stagno, quando non c’era nessuno che mi dicesse di tornare a letto: vivemmo così per quattro settimane.

Poi un giorno arrivò la polizia. Erano due macchine con otto agenti, e all’inizio ci dissero di essersi persi. Era una bugia troppo ovvia e cinque minuti dopo chiarirono apertamente di voler dare un’occhio intorno, perché eravamo persone sospette: non uscivamo mai e non andavamo in giro come gli altri turisti. Ci spiegarono che il Portogallo aveva molti problemi con i trafficanti di droga e i terroristi. Io andai subito nella mia stanza per indossare qualcosa che andasse bene per la prigione; anche se mi sentivo lucida, le gambe mi tremavano. Questo mi sconvolse, non mi era mai successo prima. Fino ad allora il nervosismo non aveva mai interferito con il mio corpo e pensavo di essermi ormai abituata a quel dramma ricorrente. Mi resi conto di essere molto vicina a una crisi di nervi: la tensione degli ultimi dieci mesi mi aveva fatto arrivare ai limiti delle mie capacità di sopportazione. Raggiunsi Anando alla porta: stava ancora parlando con la polizia che alla fine se ne andò. Ma il giorno dopo vedemmo una loro macchina che stazionava nei pressi: presero a sorvegliarci giorno e notte.

Osho disse che voleva tornare in India.

Chiamammo Neelam, che si trovava in Italia, e le dicemmo di raggiungerci, per viaggiare con Osho e cercargli una sistemazione in India. Lui le disse: “Non posso usare il mio corpo ancora per molto; è diventato molto doloroso essere nel corpo. Ma non posso lasciarvi così – il mio lavoro non è ancora finito.”

Arrivò il giorno della partenza di Osho: il 28 luglio.

Quel giorno, ci riunimmo tutti nel piccolo atrio; mentre lui scendeva le scale, al suono della chitarra di Milarepa e delle nostre voci. Se doveva essere l’ultima volta che ci vedevamo, che fosse bello! Non volevo che mi vedesse con un volto triste; volevo dimostrargli che apprezzavo uno dei tanti regali che mi aveva dato, cioè la capacità di celebrare tutto,sempre e comunque. La mia tristezza si tramutò in una profonda accettazione e ballai come non avevo mai ballato. Momenti come questi sono come la morte… e quante volte avevo affrontato questi momenti in quell’ultimo anno? Attraverso quante morti ero passata tutte le volte che ci eravamo separati e mi ero ritrovata da sola di fronte all’ignoto?

Osho avrebbe detto a Neelam: “Guarda gli alberi. Quando si leva un forte vento, sembra distruttivo. Ma non è così. Per gli alberi e le piante è una sfida, per vedere se desiderano crescere o meno. E quando il vento cala, le loro radici penetrano ancor più in profondità nella terra. Si potrebbe pensare: ‘Questa pianta è troppo piccola, la furia del ventola sradicherà.’  Ma non è così: se la pianta, allorché il vento si alza,accetta di muoversi con lui, sarà salva… e non solo salva, avrà anche una certezza priva di qualsiasi dubbio: ‘Sì, voglio vivere!’Allora crescerà con maggior rapidità, perché la sfida del vento le ha dato tantissima forza. Se l’albero o la pianta non si accompagna al vento e viene distrutta, non provare tristezza: sarebbe stata distrutta da un altro vento, se questo non l’avesse fatto, perché non ha un profondo desiderio di vivere. E non conosce la legge dell’esistenza – cioè, se ti accompagni all’esistenza,ti protegge. È la lotta che ti distrugge.”

Osho ballò a lungo con ognuno di noi, in casa, sotto il porticato e vicino alla macchina, dove perfino Rafia, che stava scattando fotografie,venne stuzzicato dal Maestro finché non si mise a ballare con la macchina fotografica che volava intorno a lui. Solo Vivek non riuscìa ballare e gli si buttò tra le braccia piangendo – era la sua particolare forma di danza. Seguimmo la macchina di Osho fino all’aeroporto, e dal tetto del terminal guardammo l’aereo che lo avrebbe allontanato da noi, un’altra volta per sempre. John disse a Maneesha una cosa molto bella, quando lei lo intervistò per raccogliere le testimonianze di quell’incredibile esperienza, e farne un libro. Disse che a lui il tour mondiale aveva dato un punto di riferimento significativo, in quanto gli aveva permesso di vedere Osho nel contesto del mondo. Per tutto il tempo Osho era rimasto esattamente come l’uomo Zen che lui descrive: semplice e ordinario. John pensava ai cosiddetti leader della ‘new age’ californiana che vanno in giro dicendo “sono così in alto,” “la vita è fantastica,” “sono tutt’uno con l’Universo.” Erano dichiarazioni intellettuali. Lui era stato con Osho in occasioni in cui aveva avuto l’opportunità di dire cose del genere. Quando era stato arrestato a Creta, non aveva detto come Gesù: “Perdonali, perché non sanno quello che fanno.” Quando era stato in prigione in Inghilterra non aveva detto: “Mi sento tutt’uno con l’Universo, nonostante questi poveri idioti.” Quando fu costretto a partire dalla Giamaica a causa della sua reputazione di “persona indesiderata”, non disse nulla del genere: “Io sono così in alto e questa gente è così in basso.” Si era limitato a chiedere un bicchiere di latte, oppure voleva che gli spiegassimo cos’era una colazione a base di cereali, oppure voleva sapere che ora era.

L’aereo si avviò sulla pista, mentre i motori rombavano e noi lo vedevamo lanciarsi in quella corsa verso il cielo, uniti da un silenzio che potevamo sentire come un blocco unico e solido. Potevo vedere la mano di Osho che ci salutava attraverso il finestrino, mentre l’aereo prendeva velocità, saliva rapido nel cielo e scompariva all’orizzonte.

Due parole mi uscirono dalla bocca… barca vuota… Ero nel mezzo dell’oceano, in una barca vuota.

Pubblicato in I miei giorni di luce con Osho.