Libro di Prem Shunyo
In Uruguay
21 marzo 1986: anniversario dell’illuminazione di Osho.
Partii per l’Uruguay dall’aeroporto di Londra, con quattro guardie delcorpo ingaggiate da Hasya e Jayesh; erano degli specialisti in anti-sommosse,anti-terrorismo, addestrati in comunicazioni, demolizioni e armi da fuoco. Ognuno di loro aveva una specializzazione. Avrebbero dovuto essere le guardie del corpo di Osho in Uruguay,perché non avevamo veramente idea di cosa ci aspettava. Mi stavano accanto, sembravano soldati dall’aspetto minaccioso… mi sentivo ben protetta.
Quando arrivai, Osho stava in un albergo a Montevideo e il giorno stesso mi misi a pulire la sua stanza. Lui era seduto vicino alla finestra e sembrava stanco. Devaraj mi disse che si era sentito molto debole in Irlanda, al punto che non riusciva a fare due passi per arrivare al corridoio. Gli toccai i piedi e mi misi a sedere fissandolo. Gli chiesi come si sentiva e lui fece un cenno per dire che stava bene. Voleva sapere se mi ero ripresa completamente dall’incidente e io gli dissi che, anche se mi ero resa conto di essere stata stupida ad andare su quella moto,era stata per me un’esperienza preziosa. Non disse niente, gli diedi un bicchiere d’acqua e continuai a pulire la sua stanza, mentre lui rimaneva seduto in silenzio. Quell’anno non celebrammo il giorno dell’illuminazione e mi ricordai che già a Kathmandu ci aveva detto di non volere particolari celebrazioni:tutti i giorni dell’anno dovevano diventare di festa. All’hotel trovai Anando, Vivek, Devaraj, John, Mukti e Rafia che mi raccontarono quello che era successo in Irlanda: erano rimasti chiusi in albergo, senza neppure il permesso di lasciare il secondo piano, dove si trovavano le loro stanze. Era come un arresto domiciliare volontario. Non vedevano altro che le quattro mura della propria stanza o di quella di qualcun altro – che comunque era identica – per tutto il giorno. La polizia locale sosteneva di aver ricevuto minacce dall’IRA nei confronti di Osho, per cui era sorvegliato a vista ventiquattro ore su ventiquattro da uomini armati, e l’albergo risuonava continuamente di conversazioni sussurrate nelle radio portatili dietro barricate fatte di materassi. Quando Osho lasciò l’hotel, dopo tre settimane, il personale lo andò asalutare e lui disse al manager che era stato molto bene in quell’hotel, si era sentito a casa.
Adesso, in Uruguay, Osho ci chiese per favore di telefonare in Irlanda, a quell’hotel e chiedere la ricetta della salsa chutney che gli avevano servito, ringraziandoli perché era il miglior chutney che avesse mai assaggiato.Hasya e Jayesh giunsero subito dopo e trovarono una casa per Osho a Punta del Este. Era considerata la riviera del Sudamerica e in effetti era così bella che eravamo davvero meravigliati che il resto del mondo non la conoscesse. Il giorno dopo, Jayesh, Anando e io, guidammo per tre ore attraverso una campagna piatta e verde, fino a Punta del Este. La casa era a tre minuti a piedi dalle dune sabbiose, che portavano a una spiaggia lunga e piatta, e al mare! L’aria marina di quella zona era famosa per le sue qualità curative, e aveva un odore pulito e dolce. La casa era magnifica. Originariamente erano due case che erano state riunite in un secondo tempo, per cui era enorme. Fuori, circondati da alti eucalipti dalle cortecce multicolori, c’erano un prato, una piscina e un campo da tennis. Hasya e John, che avevano vissuto a Hollywood prima di venire a Rajneeshpuram, ci dissero che era molto meglio di Beverly Hills. Le stanze di Osho erano alla fine di una scala a chiocciola. Sul pianerottolo mettemmo il tavolino dove mangiava, proprio davanti a una finestra stretta e altissima, da cui si potevano ammirare gli alberi. Un piccolo corridoio portava alla stanza da letto da un lato, mentre dall’altro c’era un bagno moderno e molto grande, bello quasi come quello che aveva a Rajneeshpuram. La stanza da letto non era eccezionale, ma nella casa era l’unica ad avere l’aria condizionata e una privacy totale. Era buia e un terzo era separato dal resto da porte scorrevoli di legno di quercia. Quella stanzetta aveva un’atmosfera e un odore un po’ strani. Scherzavamo sempre dicendo che ci doveva essere un fantasma. Ma la casa era pulitissima e Osho era soddisfatto. Appena arrivato, aveva fatto un giro con la mano sul fianco, ammirandola casa e il giardino. Dopo un paio di giorni cominciò a venire quotidianamentea sedersi in giardino. Era una vera gioia vederlo scendere dalle scale, tenendo per mano Vivek e camminare sul bordo della piscina fino alla sedia che era stata preparata per lui.
Un giorno arrivò indossando quello che io chiamo il suo pigiama: una lunga tunica bianca, senza cappello, ma con occhiali da sole Cazal, che definivamo i suoi occhiali da mafioso. La scena aveva un sapore intimo e al tempo stesso eccentrico. A volte lavorava con Hasya e Jayesh o Anando, oppure rimaneva semplicemente seduto, perfettamente immobile, per due o tre ore, finché Vivek lo andava a prendere per dirgli che il pranzo era pronto. Se ne stava seduto immobile, senza leggere, senza il minimo movimento. Noi ci tenevamo discretamente fuori dalla sua visuale. Le persone che stanno intorno a Osho, senza che lui avesse bisogno di chiederlo, sono sempre molto sensibili nel rispettare la sua privacy. Quando è con noi al discorso, ci dà così tanto per cui, quando passeggia in giardino o mangia, viene lasciato totalmente da solo.Ma se per caso incontra qualcuno, è incredibile vedere con quale totalità lo saluta; il suo sguardo è estremamente penetrante e qualche volta, incontrandolo per caso, sono rimasta completamente sconvolta– ma ci si sente molto meglio a rispettare la sua privacy. Quindi, pur vivendo nella stessa casa, lui sedeva sempre da solo, quando non ci parlava al discorso.
Anando mi disse che un giorno, seduta con Osho in giardino, mentre gli leggeva dei ritagli di giornale e delle lettere di discepoli, si alzò un forte vento dal mare. C’erano parecchi abeti tutt’intorno, che svettavano alti sopra la casa; percossi dal vento iniziarono a ondeggiare e centinaia di piccole pigne presero a cadere intorno a loro, simili a una pioggia di sassi, con violenza e accompagnate da un rumore secco, thud!thud! Quando lei chiese a Osho di spostarsi al riparo sotto un tetto, lui le rispose con naturalezza: “No, no, non mi colpiranno,” e, molto rilassato,rimase seduto lì, mentre Anando saltava in continuazione, per evitare le pigne che continuavano a cadere intorno a loro. La cosa che la impressionò fu la sua incredibile tranquillità e come fosse ordinaria la sua certezza che non sarebbe stato colpito. Nel giro di due settimane, la polizia ci mise sotto sorveglianza; pattugliavanola casa ventiquattro ore su ventiquattro con lenti giri in auto attorno alla proprietà. Questo mise fine alle passeggiate di Osho in giardino: adesso se ne stava in camera sua, con le serrande abbassate per sicurezza. Avevamo sempre paura che qualcuno potesse fargli del male e questo significava che la sua vita spesso era confinata nella sua stanza. Ma lui ci ripeteva che, poiché stava seduto con gli occhi chiusi, non faceva nessuna differenza. Diceva che quando si è felici con se stessi,centrati, non si ha bisogno di andare da nessuna parte, perché non si può trovare un posto migliore del proprio essere.
“…Io sono sempre me stesso, dovunque mi trovi. E proprio perché sono felice ovunque sono, quel posto per me diventa benedetto.” – Osho.
La zona era tranquilla, la stagione turistica stava finendo e l’inverno si avvicinava. Questo luogo appartato sarebbe diventato per me una vera e propria miniera di diamanti; una continua scoperta di tesori interiori, mentre Osho continuava a offrirci una chiave dietro l’altra per aprire nuove soglie sul mistero dell’esistenza. Nelle settimane successive, mi dimenticai completamente del mondo; tutto si svolgeva nella più assoluta serenità. Le guardie del corpo private se ne tornarono a casa e facemmo persino amicizia con i poliziotti. Osho ci parlò delle nostre paure e disillusioni per il trattamento che lui aveva subito da parte del mondo esterno: “Aver fiducia significa semplicementeche qualsiasi cosa accada, ci lasciamo andare con gioia, non riluttanti o controvoglia – altrimenti se ne perde il significato – ma danzando, cantando, con una risata, con amore, perché qualsiasi cosa succeda,va bene. L’esistenza non può sbagliare. Se non realizza i nostri desideri, vuol dire semplicemente che i nostri desideri erano sbagliati.” (da The Path of the Mystic)
Hasya e Jayesh continuavano a viaggiare da un paese all’altro, alla ricerca di un posto che potesse ospitare Osho, in caso fossero sorti problemi in Uruguay. Furono invitati dal primo ministro dell’isola di Mauritius e fecero un volo di quaranta ore solo per scoprire che voleva sei milioni di dollari per lasciar entrare Osho nel paese.La Francia chiese dieci milioni di dollari per quello che era praticamenteun contratto di cinque anni. A quel punto, ventun paesi avevano rifiutato il visto a Osho, persino quelli a cui non avevamo neanche pensato! A tal punto erano terrorizzati dal fatto che Osho potesse distruggere la loro morale, anche solo atterrando all’aeroporto! Osho iniziò a parlare due volte al giorno. Scendeva dalla scala a chiocciola, camminava sul pavimento di piastrelle rosse con le mani giunte nel segno del namasté ed entrava nel bellissimo soggiorno, dove c’era posto per circa quaranta persone. Questi discorsi erano molto diversi da quelli che ricordavo; l’atmosfera era molto intima e lui parlava lentamente, con grande calma. Non erano più i discorsi focosi di Rajneeshpuram e di Pune; trovare domande da fargli divenne “una grande pulizia dell’inconscio,” come lui la descrisse. A volte rispondeva a cinque o sei domande e non tutte quelle che facevamo venivano accettate. Maneesha si dava un gran da fare nel metterne insieme di nuove: non era affatto facile formularne una, quando l’ultima aveva avuto come risposta una bastonata Zen!
“…Ricordate una cosa: quando mi fate una domanda, siate pronti adavere qualsiasi risposta. Non aspettatevi la risposta che vi piacerebbe;altrimenti non imparerete niente, non vi sarà una crescita. Se vi dico che avete sbagliato, provate a prenderne nota. Non lo dico per farvi delmale. Se dico una cosa è proprio quella. E se incominciate a sentirvi feriti da queste piccole cose, diventerà impossibile per me lavorare. In questo caso dovrò pensare a quello che vi piace. Allora non sarò di aiuto, non sarò più un Maestro per voi.” Osho ci ha parlato anche dello spazio bellissimo cui il discepolo arriva, quando non ci sono più domande: “Quello è il vero lavoro del Maestro, del Mistico…prima o poi le persone che sono vicine a lui, incominciano a non avere più domande. Essere senza domande è la vera risposta.”
“Amato Maestro,questa mattina, quando dicevi che ‘la vera risposta è essere senza domande,’ ho osservato le mie domande sciogliersi nel silenzio che ho condiviso con te per un momento. Ma una domanda è sopravvissuta ed è questa: se non ti facciamo più domande, come potremo giocare con te?”. Osho: “Questa è una vera domanda! Sarà difficile, per cui sia che abbiate o non abbiate domande, continuate lo stesso a chiedere. Non c’è bisogno che le domande siano vostre, ma devono essere di qualcuno, devono venire da qualche parte. E le mie risposte possono aiutare qualcuno, da qualche parte. Per cui, continuiamo a giocare. Io non posso dire niente, lasciato a me stesso. A meno che non ci sia una domanda, io sono in silenzio. Per me è possibile rispondere perché c’è una domanda. Quindi non importa se la domanda è vostra; ciò che conta è che sia di qualcuno, che venga da qualche parte. E non sto solo rispondendo a voi; tramite voi sto rispondendo a tutta l’umanità… e non solo all’umanità contemporanea, ma anche all’umanità che arriverà quando non sarò più qui a rispondere. Per cui, cercate tutte le domande possibili, sotto tutte le angolazioni, in modo che tutti, anche in futuro, quando non ci sarò più, potranno trovare nelle mie parole la risposta alle loro domande. Per noi è un gioco. Per qualcun altro può essere una questione di vita o di morte.”
Come un colpo sordo nel cuore, mi resi conto all’improvviso che Osho sapeva che non sarebbe stato riconosciuto e compreso dai suoi contemporanei. Tutto questo era per i posteri. Le mie speranze, i miei sogni che da qualche parte nel mondo il suo lavoro avrebbe potuto fiorire e centinaia di migliaia di persone sarebbero venute a vederlo, non erano reali. Capii in un lampo che non sarebbe mai accaduto che i suoi discorsi fossero trasmessi via satellite per milioni di persone e che lui potesse vedere centinaia dei suoi discepoli illuminarsi. Mentre rispondeva a una domanda di Maneesha, fu molto esplicito: “Ci vorrà tempo, ma il tempo non scarseggia mai. E non c’è bisogno che la rivoluzione avvenga davanti ai nostri occhi. È sufficiente sapere di essere parte di un movimento che ha cambiato il mondo, che avete fatto la vostra parte a favore della verità, che sarete parte di una vittoria che alla fine non potrà non accadere.” (da Beyond Psychology)
Andavo letteralmente in delirio quando parlava di metodi per lasciare il corpo, di ipnosi per ricordarsi le vite precedenti e di antiche tecniche tibetane, Sufi o tantriche, per poi riportarci sempre e comunque al ‘testimone’. Ci spiegò che le tecniche per lasciare il corpo sono utili per far vivere l’esperienza di non essere il corpo, ma non vanno più in là di quello. Comprendere le vite passate e sapere di essere già stati qui prima, rendersi conto che si commettono sempre gli stessi errori e che ci stiamo muovendo in cerchio va benissimo, ma poi ci vogliono la meditazione e il testimone, per uscire dalla ruota. Ci diede da sperimentare tecniche che mostravano il potere della mente sul corpo e ci fece fare esperimenti telepatici per vedere quanto eravamo in armonia e interconnessi l’uno con l’altro.
Era nata la “Scuola dei Misteri”.
In giardino c’era una stanza per i giochi coperta da un tetto di paglia, nella quale Kaveesha ci ipnotizzava in piccoli gruppi. Facevamo esperimenti con la telepatia e, man mano che il gruppo diventava più armonioso e più affiatato, anche la pulizia della casa e il cucinare divennero attività rilassanti, al punto che nessuno aveva la sensazione di lavorare sul serio. Tutta la giornata ruotava intorno ai discorsi di Osho e ai nostri esperimenti con le diverse tecniche. Gli riferivamo come le cose procedevano e lui ci dava ulteriori consigli, conducendoci ogni volta più in profondità in territori sconosciuti. Mentre ci faceva fare voli straordinari nel mistero, Osho continuava a ripeterci che il più grande mistero è dato dal silenzio e dalla meditazione. “La spiritualità è uno stato estremamente innocente della consapevolezza, in cui non succede niente, il tempo si ferma, non ci sono più desideri, non ci sono più nostalgie, né ambizioni. Questo momento diventa il tutto… Siete separati, totalmente separati. Siete solo dei testimoni e nient’altro.” – Osho. Disse che quel rimanere testimoni deve avvenire in uno stato di estremo rilassamento. Non è concentrazione; è la consapevolezza di tutto ciò che si fa: respirare, mangiare, camminare. Ci disse di cominciare dalle piccole cose – osservare il corpo, come se ne fossimo separati; osservare i pensieri che passano sullo schermo della mente, come se stessimo guardando un film; osservare le emozioni quando vengono, sapendo che non sono noi. L’ultimo passo accade quando siamo completamente in silenzio e non c’è più niente da osservare: allora il testimone si volge verso se stesso.
A una persona disse che non era ancora pronta per osservare, perché si sarebbe sentita divisa in due. Le disse che prima doveva espellere le emozioni negative (ma solo in privato – senza mai gettarle sugli altri) perché per osservare si deve essere privi di repressioni. Io credo che, se ci si sente a proprio agio osservando, se si prova una sensazione di pace e di gioia, allora vuol dire che si è pronti. Come per ogni altro metodo di meditazione, se ti fa sentire bene, è quello giusto per te. Parlò anche dei sette livelli della consapevolezza e dei limiti della psicologia e psichiatria occidentali, che sono molto, molto indietro rispetto all’Oriente. Ascoltavo questi discorsi con le antenne alzate, ascoltavo con un tale senso di urgenza ed ero talmente affascinata che avvertivo un formicolio nella testa. Era un fenomeno nuovo per me, perché per anni mi ero seduta in meditazione mentre Osho parlava, senza preoccuparmi troppo di quello che diceva. Glielo raccontai e lui rispose che lo stavo ascoltando dal cuore: “Quando il cuore è colmo di gioia, inizia a straripare in tutte le direzioni; la mente non è tenuta in disparte. Sta succedendo questo: all’improvviso hai iniziato ad ascoltare sforzandoti di capire e hai la sensazione che la testa sia piena di formicolii. Significa che qualcosa sta straripando dal cuore, perché quel formicolio non può verificarsi quando capisci solo le parole… La mente e il cuore incominciano a essere in armonia; il loro conflitto si sta dissolvendo, il loro antagonismo sta scomparendo. Molto presto, saranno una cosa sola. Allora il tuo ascoltare avrà entrambe le qualità, arriverà al tuo cuore come una vibrazione, come un fremito, e alla mente come una comprensione – ed entrambe sono connesse con te.” Gli ho sentito dire: “Dovete capire una distinzione, la distinzione fra cervello e mente. Il cervello è parte del corpo. Ogni bambino nasce con un cervello nuovo, ma non con una mente nuova. La mente è uno strato di condizionamenti che circonda la consapevolezza. Non ve ne ricordate, ecco perché esiste una discontinuità. In ogni vita, quando una persona muore, il cervello muore, ma la mente viene liberata dal cervello e diventa uno strato intorno alla consapevolezza. Non è un fenomeno materiale: è semplicemente un tipo di vibrazione. Per cui intorno alla nostra consapevolezza ci sono migliaia di strati.” (da The Path of the Mystic) “Voi non vedete il mondo com’è. Vedete il mondo come la vostra mente vi obbliga a vederlo. Lo potete notare in qualsiasi parte del mondo – persone diverse vengono condizionate in modi diversi e la mente non è fatta d’altro che di condizionamenti.” (da The Trasmission of the Lamp)
La mente, per come intendo io, è ciò che ti viene dato dalla società, dalla famiglia; la religione nella quale sei nato, per esempio; la tua razza, nazionalità, classe sociale, morale; tutti i condizionamenti che ti impediscono di vivere come un individuo autentico. Durante queste settimane, stavo operando su di me un processo che consisteva nel cercare di distinguere la realtà dall’immaginazione. Feci quattro o cinque domande a Osho sulla realtà e sull’immaginazione, e iniziai a pensare che niente nella mia vita fosse reale. Passavo molto tempo passeggiando da sola su e giù per la spiaggia, cercando di capire. Finalmente capii, quando Osho ricordò di non averci mai detto di discriminare tra l’una e l’altra: la realtà è quella che non cambia mai, mentre l’immaginazione scompare, una volta osservata. Entrambe non possono essere presenti contemporaneamente, per cui il problema di discriminare non sussiste. Guardando indietro, non riesco più a identificarmi con quelle domande, ma a quell’epoca mi bruciavano dentro; forse perché Osho mi ha aiutata a capirle. Penso che, senza un Maestro, sarei senz’altro impazzita per quell’angoscia esistenziale e sarei rimasta bloccata con lo stesso interrogativo, forse per tutta la vita. Passeggiavo da sola, lungo quelle strade stupende, costeggiate di abeti ed eucalipti, tra tante ville vuote perché la stagione dei bagni era finita, cercando di capire chi ero. Tutti i miei pensieri non approdavano a nulla. Non riuscivo a scoprire alcunché. Ero forse solo quell’energia che fluiva dentro di me, quando chiudevo gli occhi? Ero l’espressione di quell’energia? O ero la consapevolezza di tale energia? Osho disse che l’energia, in quanto consapevolezza, è la più vicina al vero centro dell’esistenza, che esiste un’unica energia, ma nel pensiero o nell’espressione, l’energia si muove verso la periferia… “Vai indietro passo dopo passo,” disse. “È un viaggio verso le tue origini, e l’unica cosa che hai bisogno di sperimentare sono le tue origini, perché non sono solo le tue origini, sono le origini di tutte le stelle, della luna e del sole. Sono le origini di tutto.” Mentre lavoravo in lavanderia e pulivo la stanza di Osho, pensavo a nuove domande, ma allo stesso tempo cercavo ancora di digerire il discorso di alcune ore prima. Una volta gli chiesi: “Dov’è la demarcazione tra il mio mondo interiore e il mondo esterno? Quando ogni evento viene visto attraverso i miei occhi e la mia percezione, mi sembra diventi il mio mondo, quindi è interiore. D’altro canto, se il testimone è la mia realtà interiore e il testimone è universale, mi sembra che, ancora una volta ho fatto un salto da dentro a fuori.” “Chetana, stai impazzendo!” mi disse Osho. Era vero. Mentre passeggiavo sulla spiaggia o fra le dune di sabbia, il dialogo con il mio maestro interiore continuava: “Forse esisto solo perché penso di esistere!”. “Forse senza pensieri non esisterei affatto!”. Osho ha detto che la mente non potrà mai capire la verità, perché è di gran lunga al di sopra e al di là di essa, ma in qualche modo dovevo provarci, se non altro per stancarmi e realizzare che la mia mente è completamente inutile nella sfera mistica. Gli avevo sentito dire che la mente non può comprendere ilmondo interiore, ma quella non era una mia comprensione e non avevo ancora fatto quell’esperienza in prima persona. Così, giorno dopo giorno, stavo impazzendo, nel tentativo di capire.
Osho raccontò una bellissima storia: “Un re, che era anche un mistico, costruì una grande città e dentro la città costruì un tempio di pietra rossa. All’interno era rivestito di piccoli specchi…milioni di specchi. Per cui, quando entravi nel tempio, ti vedevi riflesso in milioni di specchi. Tu sei uno, ma le tue immagini sono milioni. Si racconta che una notte un cane entrò nel tempio e si uccise. Non c’era nessuno, le guardie se n’erano andate, avevano chiuso il tempio e il cane era rimasto dentro. Incominciò ad abbaiare contro quei cani, milioni di cani. Iniziò a saltare da una parte all’altra andando a sbattere contro gli specchi. E tutti quei cani gli abbaiavano contro… si può capire cosa accadde a quel povero cane: tutta la notte ad abbaiare e a litigare… si uccise da solo, andando a sbattere contro le pareti. Al mattino, quando aprirono le porte, trovarono il cane morto, c’era sangue dappertutto. I vicini dissero: ‘Per tutta la notte ci siamo chiesti quale fosse il problema. Il cane continuava ad abbaiare.’ Quel cane doveva essere un intellettuale. Naturalmente pensava: “Oh mio dio, quanti cani! Io sono solo, è notte, le porte sono chiuse e sono circondato da tutti quei cani… mi uccideranno.” E si uccise da solo; non c’era nessun altro cane. Questa è una delle cose più importanti ed essenziali che dobbiamo capire del misticismo; le persone che vediamo intorno a noi, sono solo nostre proiezioni. Stiamo inutilmente combattendo l’uno contro l’altro, abbiamo inutilmente paura gli uni degli altri. Abbiamo così tanta paura che stiamo accumulando armamenti atomici – e c’è solo un cane, tutti gli altri sono solo immagini riflesse. Per cui, Chetana, non fare l’intellettuale. Non pensare a questi problemi; altrimenti rimarrai sempre più confusa. Piuttosto, diventa consapevole e vedrai che il problema sparirà. Io non sono qui per risolvere, ma per dissolvere i vostri problemi – e la differenza è enorme.” (da The Path of the Mystic)
Se nessuno gli poneva domande, Osho non parlava e quando parlava ci svelava misteri e segreti sublimi. Spesso, gli ho sentito dire che, sebbene sapesse che la maggior parte di quello che diceva era al di sopra delle nostre possibilità, doveva dirlo comunque. Avevo la sensazione che si affrettasse a dire il più possibile perché rimaneva poco tempo. Ne parlai con Rafia e lui mi disse che gli veniva in mente una storia che Osho aveva raccontato molte volte: “Gautama il Buddha e il suo discepolo Ananda camminavano in autunno nella foresta e quest’ultimo chiese al Buddha se aveva detto tutto quello che sapeva o aveva lasciato ancora qualcosa di inespresso. Buddha aveva parlato per quarant’anni, ma si inchinò e con una mano raccolse una manciata di foglie. Disse ad Ananda che aveva parlato tanto così (indicando la manciata di foglie) e che il non detto era tanto così, e con la mano indicò tutta la foresta cosparsa di foglie secche.” Rafia mi disse che aveva la sensazione che Osho in Uruguay avesse raccolto una manciata di foglie e le avesse fatte piovere su di noi. “La verità è pura consapevolezza.” – Osho. Anche se Osho non raccontava barzellette durante questi discorsi, non dimeno ridevamo. Una sera abbiamo riso così tanto che non riuscivamo a fermarci. Mi ricordo che mi guardavo in giro, c’era anche Hasya quella sera, la guardavo e questo ci faceva ridere ancora di più. La nostra risata continuò incontrollabilmente anche dopo che Osho aveva finito con la sua battuta e aveva incominciato a parlare di qualcosa di ‘serio’. Geeta aveva una risata così acuta e impressionante, che quando Osho la sentiva, si metteva a ridere. Smetteva di parlare e si mettevano semplicemente a ridere insieme, senza ragione apparente, mentre il resto del gruppo, piano piano, veniva travolto da quella risata contagiosa. Alla fine ridevamo tutti a crepapelle. Osho ha spiegato che la risata è il più grande fenomeno spirituale: “La risata del Maestro e la risata del discepolo hanno esattamente la stessa qualità, lo stesso valore. Non c’è nessuna differenza. In ogni altra cosa vi sono delle differenze: il discepolo è il discepolo, sta imparando, brancola nel buio. Il Maestro è pieno di luce, non brancola più, quindi ogni azione sarà differente. Ma che tu sia al buio o in piena luce, la risata può unire. Per me la risata è la massima qualità spirituale, il luogo in cui l’ignorante e l’illuminato si incontrano.” (da The Trasmission of the Lamp) Se Geeta aveva un rapporto unico col Maestro, tramite la risata, anche Milarepa aveva un modo straordinario di giocare con Osho. Gli faceva sempre domande che lo facevano ridere, provocando Osho a prenderlo in giro. Era un gioco stupendo.
Tuttavia, la situazione politica per ciò che riguardava il visto di Osho era seria. Al termine di lunghe trattative, il governo dell’Uruguay decise di concedergli un permesso di soggiorno permanente e noi preparammo un comunicato stampa… ma il giorno dopo venne tutto annullato. Il presidente uruguayano, Sanguinetti, aveva ricevuto un messaggio da Washington. A chiare lettere si diceva che, qualora Osho fosse diventato residente, tutti i prestiti valutari che l’America stava per contrarre con l’Uruguay sarebbero stati annullati. Punto e basta! Hasya e Jayesh erano quasi sempre in viaggio. Qualcuno pensò che forse ci conveniva comprare un transatlantico e trasferirci a vivere lì… e Hasya e Jayesh andarono in Inghilterra, con l’idea di comprare una portaerei in disuso, e poi a Hong Kong a vedere una nave. Ma a Osho girava la testa anche solo a vedere qualcuno seduto su un’altalena, quindi sembrava impossibile che potesse vivere su una nave! Tuttavia, malgrado questo, si mise con grande entusiasmo a fare piani complicatissimi per rendere possibile quel progetto. Non ho mai sentito Osho dire di no a qualche cosa. Quando Hasya gli disse che pensavamo che vivere su una nave non avrebbe fatto bene alla sua salute, rispose: “Bene, se mi sono abituato a stare su questo pianeta, il mio corpo si abituerà a vivere su una nave. In questo modo, voi avrete più libertà.” Quando non erano in giro per il mondo, Hasya e Jayesh erano a Montevideo con Marcos. Marcos era un uomo d’affari uruguayano che aveva parecchi contatti col governo. Era un uomo innocente, dal cuore d’oro e stava veramente facendo di tutto per permettere a Osho di rimanere nel suo paese. Una sera Osho chiamò Vivek e Devaraj nella sua stanza e disse che non si sentiva più al sicuro in Uruguay. Voleva tornare in India! In quel momento l’Uruguay aveva perso il suo fascino e sentii che di nuovo eravamo circondati dal pericolo. Due giorni dopo la polizia, che aveva diligentemente sorvegliato la casa nelle ultime dieci settimane, se ne andò. Ci sembrava strano: forse qualcuno avrebbe cercato di fare del male a Osho e la polizia non voleva esserne coinvolta? Contattammo la polizia e questa volta addirittura li pagammo per sorvegliare la casa. L’atmosfera stava diventando tesa; Hasya e Jayesh erano via, e John e Isabel, una sannyasin cilena appena arrivata, continuavano a dialogare col governo, ma attraverso un altro canale. Non volevano lavorare con Marcos e scelsero come intermediario un loro amico, Alvarez. Anche lui era un uomo veramente bello, divenne anche sannyasin, ma io non mi sono mai fidata molto di lui. Era troppo affascinante, troppo bello.
Al nostro arrivo in Uruguay, il governo aveva ricevuto dei telex dalla NATO, col timbro ‘informazioni diplomatiche segrete’, la cui fonte erano gli USA. Le informazioni contenute nei telex dicevano che noi (i discepoli di Osho) eravamo trafficanti di droga, contrabbandieri e prostitute! Un giorno, durante le ultime settimane della nostra permanenza, arrivò la polizia a perquisire la casa. Sapevamo che era pericoloso, in quanto di solito, durante le perquisizioni nascondevano della droga nelle case di persone indesiderate, per un qualsiasi motivo, anche se non avevano commesso reati. Li trattenni fuori dalla porta, visto che non avevano un mandato e corsi nella stanza di Osho, che in quel momento stava parlando con Hasya e Jayesh. Entrai e dissi che c’era la polizia. Osho continuò a parlare con Hasya senza mostrare alcun cenno di agitazione, come se niente fosse successo. Lasciai la stanza e dopo cinque minuti arrivò Hasya: alla fine era riuscita ad alzarsi e dire a Osho che le dispiaceva, ma non riusciva più ad ascoltare quello che le diceva, perché tutta la sua attenzione era altrove, al fatto che c’era la polizia alla porta, per cui doveva andare a vedere cosa stava succedendo. La polizia se n’era andata, ma la situazione ormai era diventata complicata e disagevole…fu allora che Osho disse di volersene andare. Anche quell’avventura era conclusa! Ma di fatto continuava, perché ci rifiutavamo di guardare in faccia l’evidenza. Nella seconda settimana di giugno, Alvarez aveva promesso a John e a Isabel che Osho poteva rimanere senza problemi almeno altre sei settimane, dopo di che quasi sicuramente avrebbe ottenuto la residenza. Per noi fu una buona notizia: era quello che volevamo sentire!
Il 16 giugno andai dal dentista a Montevideo e come al solito andai a trovare Marcos e la sua famiglia. Lo trovai terrorizzato, mi disse che aveva sentito voci secondo le quali, se Osho non fosse uscito dal paese entro il 18 del mese, sarebbe stato arrestato. Il presidente Sanguinetti era a Washington con Reagan, dove stava negoziando i nuovi prestiti americani per il suo paese ed era la sua prima visita in tutti quegli anni. Tornai a casa di corsa, lo dissi a Vivek che lo riferì subito a Osho e immediatamente organizzammo la partenza con un aereo privato… il problema era trovare un paese dove avremmo potuto atterrare. La Giamaica era la nostra nuova speranza. La sera avevo già finito di fare i bagagli e la mattina dopo, all’alba, ero su un volo di linea per la Giamaica insieme a Rafia. Osho sarebbe arrivato con un aereo privato insieme a Vivek, Devaraj, Anando e Mukti. Il giorno in cui Osho lasciò l’Uruguay, arrivò una raffica di telefonate al ministero dell’interno di Montevideo, praticamente una ogni ora: era Washington che voleva sapere se Osho aveva lasciato il paese. Alle cinque del pomeriggio del 18 giugno, telefonò Alvarez: aveva ricevuto un telegramma dal dipartimento dell’immigrazione, in cui era scritto che Osho si sarebbe dovuto presentare nel loro ufficio prima delle 5:30 altrimenti l’avrebbero arrestato. Mi è stato detto che Osho lasciò la villa, diventata la nostra Scuola dei Misteri, alle 6:30, proprio mentre stavano arrivando tre pattuglie della polizia, che a quel punto si limitarono a seguire la macchina di Osho fino all’aeroporto. Mentre Marcos e tutti i sannyasin che in quel periodo si erano raccolti intorno a Osho celebravano, cantavano e ballavano con lui, ai poliziotti non rimase che stare a guardare, sbigottiti. L’atmosfera di tensione si dissolse di fronte alla celebrazione con cui Osho veniva accompagnato al jet in attesa. Mentre l’aereo saliva già alto nel cielo, e ormai si vedevano solo due piccole luci sparire nella notte, giunsero diverse auto della polizia… nessuno saprà mai perché.
Gli Stati Uniti d’America annunciarono, il 19 giugno, che l’Uruguay avrebbe ricevuto un prestito di 150 milioni di dollari.