I miei giorni di luce con Osho: Capitolo Ottavo

Libro di Prem Shunyo

In prigione negli stati uniti

28 ottobre 1985 – Il Lear stava per atterrare a Charlotte, nella Carolina del Nord. Scrutai nell’oscurità e vidi che l’aeroporto era deserto. Alcuni cespugli alti e sottili venivano spazzati via dalle raffiche del jet in atterraggio. Appena si spensero i motori, Nirupa riconobbe Hanya, la giovanissima suocera che ci avrebbe ospitato a Charlotte. Ci aspettava sulla pista di atterraggio con Prasad, il suo compagno. Nirupa la chiamò tutta eccitata; ma quasi simultaneamente, da tutte le direzioni, le grida: “Mani in alto, mani in alto!”, mi gettarono in una dimensione completamente diversa. Per un attimo mi trovai in uno spazio di vuoto totale, dal quale la mente riemerse pensando: “No, non può essere vero.”

Nel giro di alcuni secondi l’aereo fu completamente circondato da una quindicina di uomini che ci puntavano le armi addosso.Era proprio vero, purtroppo – il buio, le luci intermittenti, lo stridìo di frenate improvvise, le urla, il panico e la paura, era tutto intorno a me, ma ero troppo consapevole del pericolo per non rimanere calma.“Non provare nemmeno a starnutire,” dissi a me stessa, “perché quelli sparano.” Anche loro avevano paura, e non c’era da meravigliarsene.Tre anni dopo questi avvenimenti, infatti, un giornalista indipendente intervistò le autorità e gli fu risposto, prove alla mano, che il messaggio ricevuto da quegli uomini era di arrestare i passeggeri dei due aerei; si diceva che si trattava di criminali evasi, pericolosi terroristi armati di mitra e che stavamo scappando dalla giustizia. Quegli uomini erano tutti vestiti in jeans e camicie a scacchi. Pensai subito che fossero una banda di nostri vicini dell’Oregon che volevano rapire Osho. Non ci dissero né che eravamo in arresto, né che erano agenti dell’FBI. Avevo davanti dei killer professionisti. Avevano un’aria spietata e disumana;non avevano alcuna espressione negli occhi: sembravano soltanto dei fori scintillanti. Urlando, ci ordinarono di uscire dall’aereo con le mani in alto; i piloti avevano aperto il portello, ma non riuscivamo a uscire perché la poltrona di Osho occupava un terzo della cabina e si trovava proprio davanti all’uscita. Cercammo di spiegarglielo ma loro pensarono che stessimo organizzando un piano di fuga, o caricando i nostri mitra… e vennero all’assalto: una luce fortissima mi colpì in pieno viso attraverso il finestrino dell’aereo. Mi girai e vidi la canna di un fucile a venti centimetri dal mio naso, e dietro una faccia tesa e impaurita. Mi resi conto che aveva molta più paura di me, e questo era pericoloso. Dopo una scena degna diMonty Python, in cui i killer urlavano ordini contradditori del tipo: “Non vi muovete,” “Scendete dall’aereo,” “Fermi tutti,” la poltrona di Osho fu spostata e parecchi agenti salirono a bordo; per poco non spararono intesta a Mukti, perché si era piegata per mettersi le scarpe.

Fuori, sulla pista, ci fecero mettere con le mani in alto, le gambe divaricate e la pancia contro il jet, per poterci perquisire.Mentre venivamo rozzamente ammanettate, mi girai verso Hanya, che appariva terrorizzata, e le dissi: “Andrà tutto bene.” Ci mettemmo a sedere nella sala d’attesa dell’aeroporto, circondate da uomini armati che erano dovunque, dietro i banconi, gli armadi e le piante, e puntavano i fucili verso l’entrata, in attesa che atterrasse il secondo jet, su cui viaggiava Osho. Sentimmo il rumore di parecchi scarponi in corsa, lo sfregamento delle braccia contro i giubbotti anti-proiettile, i messaggi concitati via radio. Poi il rumore di un jet solitario che atterrava. I cinque minuti che seguirono furono terrificanti. Non sapevamo cosa avrebbero fatto a Osho. Nirupa cercò di avvicinarsi alla porta a vetri che dava sulla pista di atterraggio,sperando di inviare un segnale di allarme, ma le fu ordinato di tornare a sedersi, sotto la minaccia di un fucile. Il silenzio dell’attesa era mortale, così come l’impotenza di essere nelle mani di uomini violenti. La tensione in quella sala d’aspetto era soffocante; alla fine riudimmo le grida spaventate degli uomini armati. Non riuscivano a capire perché i motori fossero ancora accesi, visto che il jet era atterrato. Il motivo era semplice: così facevano funzionare l’aria condizionataper Osho, ma loro non potevano saperlo, e divennero ancor più nervosi. Passarono alcuni minuti in cui sentii un vuoto terribile dentro di me. Poi vedemmo Osho entrare attraverso le porte a vetri: aveva le manette ai polsi ed era affiancato da ambedue i lati da uomini armati e pronti a sparare. Osho entrò come se stesse entrando in Buddha Hall per fare un discorso ai suoi discepoli. Era calmo, e vedendoci lì sedute e incatenate,ad aspettarlo, un sorriso illuminò il suo volto. Entrando sul palcoscenico di quel dramma – un dramma completamente differente da quelli vissuti finora – continuava a essere lo stesso. Qualunque cosa gli succedesse all’esterno, non intaccava minimamente il suo centro: doveva essere uno spazio molto profondo ed estremamente tranquillo.

La scena successiva fu un vero disastro, perché ci fu letta una lista di nomi che non avevo mai sentito. Il dramma cominciava a farsi più confuso.“Avete arrestato le persone sbagliate,” disse Vivek. Era il film sbagliato, le persone erano sbagliate, tutto sembrava così bizzarro.L’uomo che leggeva quei nomi sembrava un albino con i capelli tinti di rosso. Aveva una forte carica sessuale che mi fece pensare si divertisse a fare del male agli altri. Chiedemmo più volte se eravamo in arresto,ma non ricevemmo mai risposta. Venimmo quindi spinti fuori dall’aeroporto, qui c’erano almeno venti macchine della polizia in attesa, con le luci blu e rosse che lampeggiavano. Osho venne separato dal gruppo e fatto salire in macchina da solo. Il mio cuore quasi si fermò, piegai la testa e misi una mano là dove era solito battere; la mia mente scioccata fu travolta dall’intuizione che stesse accadendo qualcosa di terribile. La polizia non ci guardò in faccia neppure una volta. Sono sicura che se lo avessero fatto non ci avrebbero incatenati e trattati come terroristi. Avrebbero visto quattro donne sui trentacinque anni, molto femminili e pericolose quanto gattini; due uomini intelligenti e maturi, di un’eleganzae di una grazia rare e squisite e Osho…cosa dire di Osho? Basta guardarela sua fotografia.

Nelle ore successive, non riuscii a capire come gli americani che seguivano l’evento alla televisione non si rendessero conto della differenza fra Osho e i suoi carcerieri, fra Osho e qualsiasi altro essere umano mai apparso sui loro teleschermi. In carcere vidi alla TV il programma che ci riprendeva nel viaggio dalla prigione al tribunale e poi di nuovo in prigione. Ciò che veniva trasmesso era rumoroso, volgare e violento, poi all’improvviso appariva sullo schermo questo saggio di altri tempi, questo mistico con le mani e i piedi incatenati che sorrideva al mondo e congiungeva le mani ammanettate per salutare col namasté il mondo che voleva distruggerlo. Ma nessuno riusciva a vederlo. Mentre ci portavano in prigione a tutta velocità, mi chiesi se questa gente non fosse completamente pazza. Anche se le strade erano deserte e tranquille, guidavano in modo tale da sballottarci di continuo, mandandoci a sbattere contro le pareti e le portiere e facendoci prendere violenti colpi alle ginocchia e alla schiena. La macchina su cui era stato fatto salire Oshoera davanti a me, e vedendola procedere allo stesso modo pensavo al suo corpo così delicato e alla sua schiena ridotta così male. Più tardi avrebbe detto: “Anch’io guido in modo spericolato. In tutta la mia vita ho commesso solo due reati e tutti e due per eccesso di velocità. Ma quella non era spericolatezza, usavano un nuovo tipo di fermata improvvisa – frenavano senza motivo, solo per farmi avere un contraccolpo. Avevo le manette, le gambe incatenate, e avevano avuto l’ordine di mettermi una catena anche intorno alla vita, proprio dove mi fa male la schiena. Questo accadeva ogni cinque minuti: improvvisamente acceleravano e altrettanto improvvisamente frenavano, solo per farmi più malepossibile alla schiena. Ma nessuno disse: ‘Gli state facendo male.’”

Arrivati in prigione, Jayesh, sorpreso dall’inaspettata direzione che avevano preso le sue vacanze, esclamò con finta rabbia: “Chi ha prenotato questo albergo?”. Passammo la notte su delle panche di metallo; non ci diedero da mangiare né da bere. Il water era in mezzo alla stanza, così ogni nostro movimento poteva essere controllato dall’occhio elettronico che si trovava sulla porta. Anche Osho era stato messo da solo in una cella simile,che sembrava una gabbia, e in quella vicino a lui c’erano Devaraj,Jayesh e i tre piloti. Devaraj si rivolse a Osho attraverso le sbarre: “Bhagwan?”.“Mm?” rispose Osho.“Stai bene, Bhagwan?”.“Mm, mm” fu la risposta. Ci fu una pausa e poi dalla cella di Osho si udìla sua voce: “Devaraj?”.“Sì, Bhagwan.”“Cosa sta succedendo?”.“Non lo so, Bhagwan.”Ci fu una lunga pausa e di nuovo la voce di Osho: “Quando riprendiamoil viaggio?”.E Devaraj rispose: “Non lo so. ”Ci fu un’altra pausa e di nuovo la voce di Osho: “Ci dev’essere un errore. Deve essere chiarito.”Nella terza gabbia della fila c’eravamo noi quattro donne e la donna pilota che urlava e piangeva disperata. Il contrasto fra noi e quella donna che camminava avanti e indietro e gridava, mi fece provare un’immensa gratitudine:anche in una situazione simile potevo sentire in me la qualità meditativa che Osho ci aveva insegnato per anni. Prima di allora non avevo mai avuto l’opportunità di sperimentarla così chiaramente. Anch’io, naturalmente, ebbi i miei momenti di rabbia. Mi era chiaro cheil sistema carcerario è fatto per distruggere l’individuo, umiliarlo e impaurirlo, riducendolo così a schiavo ubbidiente. Nelle prime ore di prigionia ci dissero che era contro il regolamento dare il caffè ai prigionieri, perché spesso lo gettavano in faccia alle guardie. Rimasi scioccata quando me lo dissero: non riuscivo a capire come si potesse gettare del caffè caldo in faccia a chi te lo sta offrendo. Lo capii perfettamente alcune ore più tardi, quando incontrai la persona cui l’avrei volentieri gettato, se solo ne avessi avuto l’occasione. Rimanemmo nelle nostre gabbie tutta la notte e tutto il mattino del giorno dopo, poi ci portarono in tribunale, dove dovevano prendere una decisione sulla cauzione. Ci dissero che ci sarebbero voluti solo venti minuti,si trattava di ordinaria amministrazione. Per portarci in tribunale, ci misero le catene ai piedi e le manette, unite a una catena stretta intorno alla vita. Due uomini andarono nella cella di Osho…li osservai attraverso le sbarre. Erano molto violenti con lui:uno di loro gli diede un calcio mentre lo spingeva con la faccia al muro,e un colpo alle gambe per fargliele divaricare, e intanto lo spintonava.Vedere brutalizzare un bambino appena nato non sarebbe stata una scenapiù disgustosa di quella. Osho non sa neanche cosa sia la resistenza,anche cogliere un fiore per lui è un atto di violenza; la sua fragilità e la sua delicatezza sono incredibili. Ricordo ancora la faccia di quell’uomo. Ero così arrabbiata e impotente,che ogni volta che lo guardavo mi concentravo sulla sua testa, desiderandoche esplodesse.La storia della cauzione fu una farsa fin dall’inizio. Notai che il giudice, Barbara De Laney, una donna che sembrava una casalinga, non guardò Osho in faccia neanche una volta durante tutta l’udienza. A un certo punto, nel bel mezzo dell’udienza, il nostro avvocato Bill Diehl disse: “Vostro onore, mi sembra abbiate già deciso quale sarà la sentenza. Tanto vale che ce ne andiamo a casa.”

Osho venne accusato di essere scappato per sottrarsi alla legge. Dissero che era al corrente del mandato di cattura emesso nei suoi confronti, per aver violato le leggi sull’immigrazione, e aveva perciò cercato di scappare. Noi fummo accusati di aiuto e istigazione a quella fuga illegale e di avere nascosto una persona ricercata dalla legge. Avevamo paura che Osho si ammalasse gravemente, se avesse dovuto passare un’altra notte in quel carcere. Per molti anni la sua dieta era stata rigorosamente controllata a causa del diabete e prendeva medicine con regolarità. Tutta la sua routine era stata strettamente programmata e non era mai stata trasgredita. Se non avesse mangiato il cibo giusto alle ore giuste, poteva ammalarsi. Aveva l’asma ed era allergico a qualsiasi odore. Era stato tenuto sotto osservazione per anni e a volte anche l’odore di una tenda nuova o il profumo di una persona, poteva causargli un attacco d’asma. La sua schiena eramolto delicata poiché un disco intervertebrale era scivolato fuori dalla sua sede, e di fatto non guarì mai.Venne fatta richiesta affinché fosse ricoverato in ospedale.“Vostro onore,” cominciò Osho, “le faccio una semplice domanda…”.Il giudice lo interruppe con arroganza, dicendogli di parlare tramitel’avvocato. Osho continuò: “Vostro onore, sono stato male tutta la notte su quelle panche di ferro e ho continuato a chiedere a quella gente un cuscino…”.“Non penso che abbiano un cuscino,” disse il giudice De Laney.“ Dormire su quelle panche di ferro…non riesco a dormire su quelle panche,”continuò Osho, “non posso mangiare niente di quello che mi danno.”Inoltrammo una richiesta affinché potesse tenere almeno i suoi vestiti,perché poteva essere allergico ai materiali forniti in prigione.“No, per ragioni di sicurezza,” disse il giudice. L’udienza doveva continuare il giorno dopo e noi dovevamo essere trasferiti nella prigione della contea diMecklenberg. Almeno eravamo usciti dalla prigione dello sceriffo. Negli ultimi giorni della sua vita, Osho disse al suo medico: “Tutto ebbe inizio in quella cella.”

Ci portarono nella prigione della contea di Mecklenberg, e ci incatenarono di nuovo le mani e i piedi. Le catene mi tagliavano le caviglie ed era difficile camminare. Mi stupii vedendo che anche quando era incatenato Osho si muoveva in modo aggraziato e la prima volta che vide me e Vivek incatenate insieme, si mise a ridere! Quando un detenuto entra o esce dalla prigione, deve aspettare in una cella senza finestre, lunga circa tre metri, dove c’è spazio solo per una brandina di ferro, e quando ci si siede le ginocchia sono a pochi millimetri dal muro. Io e Vivek eravamo sedute una accanto all’altra sulla branda, asfissiate dall’odore di urina. C’erano macchie di escrementi e di sangue sui muri e la porta d’acciaio era tutta raschiata, ovviamente dai detenuti precedentiche le si scagliavano contro impazziti. Ci guardammo con gli occhi sgranati per la meraviglia quando udimmo due uomini dall’altra parte della porta che parlavano, con l’accento tipico del Sud, delle quattro donne di Rajneesh e di quello che gli sarebbe piaciuto fare con loro, uno disse: “…una di loro ha le mestruazioni”, (come lo sapesse, non si sa). Aspettammo due ore, atterrite dalla paura di venir malmenate e violentate,non sapendo se quella sarebbe stata la nostra cella permanente. Ma la cosa più terribile era sapere che Osho riceveva lo stesso trattamento e noi non potevamo vederlo. Durante tutta l’esperienza fatta in prigione, questa fu la cosa più atroce: Osho non veniva trattato meglio degli altri e se lo stavano trattando allo stesso modo in cui trattavano noi…!?

Ci tolsero i vestiti e ci diedero quelli della prigione e lo stesso fecero con Osho. Erano vecchi ed erano stati lavati chissà quante volte, eppure,sotto le ascelle, il tessuto era ancora impregnato del sudore degli altri detenuti e quando si furono scaldati al calore del mio corpo, dovetti sopportare la puzza delle innumerevoli persone che li avevano indossati prima di me. Era così disgustoso che tre giorni dopo, quando mi offrirono un cambio di vestiti, li rifiutai, perché con quelli che indossavo almeno non avevo preso la scabbia o le piattole e chissà cosa sarebbe potuto succedere, cambiandoli…Seppi dall’infermiera Carter, la donna che si prese cura di Osho in quel carcere, che quando gli diedero quei vestiti Osho scherzando disse: “Ma i colori non si armonizzano!”.Le lenzuola erano peggio dei vestiti, erano strappate e piene di macchie giallo-grigiastre, per cui decisi di dormire vestita; le coperte erano bucate ed erano di lana! E Osho era allergico alla lana. Niren, uno dei nostri avvocati, portò in prigione alcune coperte di cotone per Osho,ma non gli arrivarono mai.La prigione è una istituzione cristiana. Un prete, con tanto di Bibbia, visitava le celle e parlava degli insegnamenti di Cristo. Mi sembrava di essere tornata indietro di cinquecento anni; era tutto così barbaro. Dovevo condividere la mia cella con dodici detenute che erano tossicomani o prostitute: “Aiuto,” pensai, “e l’AIDS?” Quando entrai, interrupperole loro attività e mi seguirono con lo sguardo finché arrivai all’unica branda vuota, trascinandomi dietro quel covo di pulci che loro chiamavano materasso. Per un momento mi sentii sospesa nel vuoto. Poi mi avvicinai al tavolo dove alcune di loro stavano giocando a carte e chiesi di poter giocare anch’io. Volevo imparare anche a parlare con il loro accentodel Sud, prima di lasciare la prigione. Con quelle detenute mi divertii, le trovai più intelligenti di molte persone che avevo incontrato fuori della prigione. Dissero che mi avevano visto in televisione, insieme al mio guru, ma non riuscivano a capire perché ci avessero arrestati e messi dentro con tutto quel chiasso, solo per aver commesso dei crimini contro le leggi sull’immigrazione. Non trovavano una spiegazione a quanto stava succedendo…perché venivamo trattati come pericolosi criminali? Pensai che, se era così ovvio per quelle ragazze,molti altri americani si sarebbero scandalizzati per l’arresto di Osho, e qualcuno con un minimo di coraggio, di intelligenza e di potere si sarebbe fatto avanti e avrebbe detto: “Ehi…aspettate un attimo…cosa sta succedendo?” Ero assolutamente convinta che sarebbe successo. Questa si chiama speranza, e vissi per cinque giorni nella speranza.

Dopo alcune ore mi cambiarono di cella, non ne chiesi il motivo, perché fui molto contenta nel ritrovarmi con Vivek, Nirupa e Mukti. Dividevamo la cella con altre due detenute: c’erano sei letti a castello, un tavolo,una panca, una doccia e una televisione, che spegnevano solo di notte. Lo sceriffo Kidd era il direttore della prigione e credo che, viste le circostanze,fece del suo meglio per aiutare Osho. Mentre ci facevano le foto, disse a Vivek e a me: “Osho è un uomo innocente.” Anche l’infermiera Carter era molto attenta e sensibile con lui e ogni giorno ci portava messaggi del tipo: “Oggi il vostro ragazzo ha mangiato tutto il semolino.”Una mattina, guardando fuori dalle sbarre della cella, vidi Osho che salutava il Capo Delegato Samuels… il modo in cui lo fece fermò il tempo per me e trasformò la prigione in un tempio. Prese le mani di Samuels nelle sue e si guardarono negli occhi per alcuni istanti. Osho lo guardava con un tale rispetto e un tale amore…quell’incontro non stava avvenendo in una prigione, anche se ci eravamo! Osho tenne una conferenza stampa e venne ripreso dalla televisione vestito da carcerato, mentre rispondeva alle domande dei giornalisti. La prima volta che lo vidi con quei vestiti, fui colpita da una bellezza mai vista prima. Mentre ci allontanavamo, io e Vivek ci guardammoed esclamammo all’unisono: “Lao Tzu!” Sembrava proprio l’antico maestro cinese Lao Tzu. Le guardie della prigione diventarono più amichevoli con noi e più rispettose con Osho; capii che erano brave persone, anche se non si rendevano conto che quel sistema era disumano. Una secondina, mentre ci accompagnava all’ascensore per andare in tribunale, ci guardò e disse: “Dio vi benedica.” Poi si girò velocemente, forse imbarazzata oppure timorosa che qualcuno la sentisse. Ogni giorno potevamo andare in cortile per circa un quarto d’ora. La cella di Osho era al secondo piano e aveva una lunga finestra che dava sul cortile. Un detenuto fece in modo di far sapere a Osho che, una volta in cortile, avremmo tirato una scarpa sulla sua finestra così lui si sarebbe potuto affacciare e salutarci con la mano. Era difficile distinguere con chiarezza la sua figura, ma lo riconoscevamo ugualmente e vedevamo benissimo la sua mano che ci salutava. Ballavamo e piangevamo dalla gioia, una volta persino sotto la pioggia insistente: per noi era come avere un darshan. Quella figura indistinta che appariva alla finestra, mi ricordava i santi delle finestre in vetro colorato delle cattedrali. Quando ritornavamo in cella, le guardie si meravigliavano delle nostre facce sorridenti e non capivano perché, prima di scendere in cortile, eravamo invece tristi e sconsolate.

Nei cinque giorni in cui venne discussa la nostra causa, potei osservare la ‘giustizia’ americana all’opera, mentre in tribunale si rivelava per quello che è: una vera e propria farsa. Gli agenti del governo, chiamati a testimoniare, mentivano senza pudore. Persino alcuni sannyasin, che erano stati ricattati, produssero prove contro Osho. Contro di lui furono usati i crimini di Sheela, anche se non avevano niente a che fare con il caso in questione. Con sempre maggior chiarezza mi resi conto che in questo mondo senza giustizia e comprensione, niente poteva avere un senso. Le mie speranze che qualcuno in America si sarebbe fatto avanti per dichiarare che stava succedendo qualcosa di folle e inumano, furono del tutto vane. Non c’era nessuno disposto a questo. Osho era solo. E ha spiegato che un genio, un uomo del calibro di Buddha, è sempre molto in anticipo sui suoi tempi, perciò non sarà mai riconosciuto dai suoi contemporanei…ma vederlo accadere era sconvolgente. La verità era questa: in questo paese chiamato America, Osho si trovava in una terra barbara e gretta; non c’era nessuno che avesse il coraggio di ascoltare ciò che aveva da dire, o che provasse a capirlo.

Il processo durò cinque giorni, quando ci liberarono e potemmo uscire dal tribunale finalmente liberi dalle catene, un giornalista mi chiese:“Come ci si sente senza catene?” Mi fermai, alzai le braccia al cielo e risposi: “Non c’è nessuna differenza.”Per Osho però quell’avventura non era finita: gli era stata negata la libertà sotto cauzione. Sarebbe dovuto tornare a Portland, in Oregon, quale prigioniero e lì avrebbero preso una decisione. Era un volo di sei ore. Lo vidi in televisione, mentre veniva scortato all’aereo-prigione. La grazia con cui si muoveva pur con le mani e i piedi incatenati,mi spezzava il cuore. Ci diedero il permesso di salutarlo attraverso le sbarre della prigione. Mukti, Nirupa e io andammo davanti alla sua cella, infilammo le braccia tra le sbarre piangendo. Lui si alzò dalla branda di ferro e venne verso di noi, ci strinse le mani dicendo: “Voi andate. Non preoccupatevi, uscirò presto. Andrà tutto bene. Andate felici.” Mentre aspettavamo nell’ufficio della prigione di potercene andare, guardavamo Osho in televisione e un poliziotto disse: “Quell’uomo ha veramente qualcosa. Qualsiasi cosa gli succeda, rimane rilassato e in pace.”Avrei voluto gridare al mondo intero che quello era il Maestro, arrestato e accusato di crimini che non aveva commesso, e che ora veniva torturato dal sistema giudiziario americano; eppure, fisicamente sofferente,mentre stava per essere trascinato attraverso gli Stati Uniti come un volgare criminale, sotto la minaccia delle armi, ci aveva detto:“Andate felici.” Non riuscivano a capire, anche solo da queste due parole,che tipo di uomo è Osho? La mia energia cambiò completamente e smisi di piangere, guardandolo. Ecco la forza della felicità – pensai – e la felicità è il suo messaggio.“Andrò felice e sarò forte,” promisi a me stessa. Trovai la forza interiore, ma quella felicità era superficiale: era come un cerotto su una ferita aperta nel cuore.

Tornammo tutti a Rajneeshpuram e lasciammo Osho nelle mani di gente che stava in realtà per ucciderlo. Il viaggio dalla Carolina delNord a Portland, che avrebbe dovuto durare solo sei ore, durò infatti sette giorni. Osho fu trasferito da una prigione all’altra, attraverso tutto il paese; e proprio in questo periodo, in uno dei quattro carceri in cui sostò, fu esposto a radiazioni e avvelenato con tallio, la stessa sostanza usata dal KGB o, più di recente, da Saddam Hussein contro i personaggi scomodi al regime. Aspettammo a Rajneeshpuram per sempre. Era il 6 novembre e dalla sera del 4 non si avevano più notizie di Osho, da quando c’era stato riferito che era arrivato a Oklahoma City. Come era possibile?! Il viaggio avrebbe dovuto durare solo sei ore! Invece erano passati tre giorni da quando Osho aveva lasciato Charlotte. Le autorità carcerarie non volevano rivelarci dove si trovasse, e Vivek dovette urlare a lungo, prima che si potesse dare l’avvio a una ricerca. Bill Diehl, l’avvocato che si era occupato così bene di noi a Charlottee che aveva lavorato con tanto amore per Osho, volò in Oklahoma. Lo trovò e scoprì anche che in una delle carceri era stato costretto a firmare con lo pseudonimo di David Washington. Perché? Si può ipotizzare una sola risposta: in questo modo, qualsiasi cosa fosse successa,non ci sarebbero state tracce della sua permanenza sotto il nome di Bhagwan Shree Rajneesh. Finalmente, dodici giorni dopo l’arresto, Osho arrivò a Portland e gli venne concessa la libertà su cauzione. Nei giorni successivi Osho si riposò, dormendo venti ore. Ci sarebbestata un’altra udienza in tribunale, il 12 di novembre. La notte prima mi fu detto che subito dopo l’udienza, Osho avrebbe lasciato l’America e sarebbe tornato in India.

Laxmi, la sua vecchia segretaria, che negli ultimi quattro anni era stata lontana dalla Comune, ritornò sulla scena. Fui presente a un suo incontro con Osho in cui disse che aveva trovato un posto sull’Himalaya dove avremmo potuto creare una nuova Comune. Gli raccontò di un magnifico fiume, con un’isola nel mezzo. “Ricostruiremo la nuova Buddha Hall proprio lì,” disse Osho. Laxmi aggiunse che c’erano molti bungalow e una casa più grande per lui, e che non avremmo avuto difficoltà a ottenere i permessi per costruire su larga scala. Osho era pronto a ricominciare tutto da capo. Nonostante alcuni dei suoi sannyasin lo avessero tradito e nonostante le precarie condizioni fisiche,il suo lavoro doveva continuare. Ero sbalordita dal grande entusiasmo col quale discuteva sui dettagli della nostra nuova Comune. Riempii almeno venti enormi bauli: pensavo che, andando sulle montagne dell’Himalaya, avremmo avuto difficoltà a trovare rifornimenti divestiti pesanti, prodotti per il corpo, cibo speciale, ecc.… e volevo essere sicura che a Osho non mancasse nulla; presi tutti i suoi vestiti pesanti, sapendo che per molto tempo la sartoria non sarebbe stata operativa.Il giorno dopo, Vivek e Devaraj partirono, io sarei partita più tardi: dovevo accompagnare Osho a Portland. Nell’aria aleggiava un dolore straziante:ci stavamo separando dalla nostra Comune, una creatura che avevamo visto crescere sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno, per quattro anni. Certo, avevamo la speranza di riunirci tutti molto presto, a detta di Laxmi, ma il dolore per ora c’era. Nel fare i bagagli, andai a prendere le poche cose che adornavano la stanza di Osho. Lui prese in mano la sua statuetta di Shiva, di cui aveva parlato tante volte nei suoi discorsi e disse: “Dalla alla Comune, possono venderla.” Poi andò verso la statua di Buddha che amava tanto e disse di fare la stessa cosa. Io balbettai: “No Osho, non queste, le ami tanto,” ma lui insistette. Poi aggiunse che quando l’FBI avesse restituito i suoi orologi, avremmo dovuto esporli sul podio di Mandir, così tutti avrebbero potuto vederli. Sarebbero serviti per pagare i biglietti d’aereo per l’India alla sua gente.Non sapevamo, né potevamo immaginare, che il Governo americano avrebbe rubato tutti i suoi orologi.

Quando ci arrestarono a Charlotte, confiscarono tutti i nostri averi. Qualcosa ci venne restituita dopo una battaglia legale durata un anno, ma si tennero gli orologi di Osho. Questa è vera e propria pirateria. Dissi addio ai miei amici, uscii all’aperto e mi inchinai davanti alla ‘mia’montagna, dove avevo dormito, che avevo scalato o davanti alla quale mi ero semplicemente seduta per ammirarla, in quei quattro anni. Poi chiamai Avesh in garage per dirgli di portare la macchina davanti all’ingresso, come aveva fatto tante altre volte. Avesh guidava e io ero seduta dietro con Osho. C’erano persone dappertutto,dal laghetto di Basho a Rajneesh Mandir, lungo la strada che serpeggiava attraverso il centro di Rajneeshpuram, la nostra città, e fuori dall’aeroporto. Ovunque, persone vestite di rosso che suonavano, cantavano,ballavano, e dicevano addio al loro Maestro. E i volti! Quei volti! I musicisti seguirono la macchina fino all’aeroporto, alcuni corsero per tutto il tragitto con enormi tamburi brasiliani al collo.Vidi volti un tempo senza espressione, ora splendenti e vivi. Osho salutava per l’ultima volta la sua gente a mani giunte. Ero paralizzata dal dolore ma non volevo perdere il controllo. Non era il momento adatto per dare libero sfogo alle emozioni. Ero lì per prendermi cura di Osho e dissi a me stessa: “Piangerai più tardi, non adesso.”Arrivati al piccolo aereo che ci aspettava sulla pista di decollo, Osho dalla scaletta si voltò per salutare tutti, prima di entrare. La pista era piena di persone dai volti raggianti che suonavano e cantavano: era l’addio entusiasta e festoso al loro Maestro. Diedi un ultimo sguardo fuori dal finestrino dell’aereo che stava decollando, poi guardai Osho: era seduto in silenzio, immerso in se stesso come sempre mentre lasciava dietro di sé la sua gente, il suo sogno.

Pubblicato in I miei giorni di luce con Osho.