Libro di Prem Shunyo
Una crocefissione in stile americano
Si stava facendo buio, mentre attraversavamo le strade bagnate di Portland,in quel pomeriggio di metà novembre. La scorta dei motociclisti della polizia che fiancheggiava la Rolls Royce era degna di un presidente.
C’erano almeno cinquanta poliziotti sulle loro potentissime HarleyDavidson, sembravano giganti vestiti di pelle nera, con le facce coperte dai caschi e dagli occhiali. Bloccavano la strada a tutti gli incroci e la coreografia era perfetta: i due motociclisti che erano a ogni lato della macchina venivano continuamente sostituiti da altri due che si inserivano nel traffico con grande abilità. In questa coreografia di sirene e guardie del corpo, Osho come sempre uscì dalla macchina senza essere minimamente toccato da ciò che avveniva all’esterno e, con l’elegante grazia di sempre, entrò nell’aula del tribunale, accompagnato da sei agenti in borghese.
Io scesi dall’altro lato della macchina e mi ritrovai nel caos: una folla di gente che spingeva, giornalisti, troupe televisive. Non mi permisero di entrare dalla stessa porta da cui era entrato Osho per cui lo vidi sparire,inghiottito da un mare di giacche grigie e nere che riempivano i corridoi del tribunale. Mi aprii un varco tra la folla, trovai un altro ingresso e dopo alcuni minuti di gran confusione, presi posto accanto a Osho nell’aula del tribunale. Lui era seduto in pace e rilassato, e osservava con distacco il dramma che si svolgeva davanti ai suoi occhi. In seguito avrebbe detto: “Il governo ha ricattato i miei avvocati. Di solito non succede mai che il governo prenda l’iniziativa di negoziare; nel mio caso, proprio prima che incominciasse il dibattimento, hanno chiamato i miei avvocati per negoziare, insinuando in diversi modi, fino a far loro capire questo: ‘Noi non abbiamo prove; lo sappiamo noi e lo sapete anche voi – e se andiamo avanti col processo, alla fine voi vincerete. Ma dobbiamo mettere in chiaro che al governo non piacerà essere sconfitto da un singolo individuo; non permetteremo a un individuo di vincere la causa. La causa può essere protratta per vent’anni e Bhagwan,nel frattempo, rimarrà in prigione. E ci sarà sempre il rischio che possa succedergli qualcosa, è bene che lo capiate chiaramente.’
Quando ritornò dal tavolo delle trattative insieme agli altri avvocati,Niren piangeva e disse: ‘Non possiamo farci niente, abbiamo le mani legate; ci vergogniamo a chiederti di dichiararti colpevole. Tu non sei colpevole, ma noi ti chiediamo di dire che lo sei, perché da quello che il governo dice è chiaro che la tua vita sarebbe in pericolo.’ Mi dissero,” continuò Osho, “che se accettavo di dichiararmi colpevole di due reati minori, sarei stato rilasciato ed espulso dal paese. Io ero pronto a rimanere, a morire in prigione – per me non c’era problema – ma quando cominciarono a dirmi: ‘Pensa alla tua gente’ allora pensai che quello (dichiararsi colpevole anche se non lo era) era il male minore.” Osho era accusato di aver commesso ben trentaquattro reati contro la legge sull’immigrazione, ma gliene vennero riconosciuti solo due; cos’era successo agli altri trentadue? Il giudice doveva essere un criminale,lo capii da quel patteggiamento: cos’è il crimine, una merce? Come si può mercanteggiare così? Perfino i due reati che gli vennero attribuiti erano falsi. Il primo consisteva nell’essere arrivato inAmerica con l’intenzione di rimanere e il secondo nell’aver organizzato matrimoni fra stranieri e cittadini americani.
1. Di fatto Osho aveva scritto per anni al Dipartimento per l’Immigrazione,chiedendo di portare avanti le sue pratiche, ma nessuno aveva mai risposto ad alcuna delle sue lettere. Come mai?
2. Fu accusato di avere organizzato migliaia dimatrimoni falsi, dei quali “almeno uno era certo” – stupii: neppure come barzelletta faceva ridere!– uno era certo! Cosa ne era stato delle altre migliaia?
E, in ogni caso, risultò che non avevano prove neppure per quello. Rimasi a bocca aperta quando sentii il giudice leggere a voce alta la sentenza e dire che Osho era venuto in America per creare un centro di meditazione per migliaia di persone, perché l’Ashram di Pune era troppo piccolo. Questo sarebbe un reato! Osho non si agitò mai, nulla pareva toccarlo, era umile eppure sembrava un re. La sua vulnerabilità e la sua innocenza, simile a quella dei bambini, in qualche modo lo rendevano intoccabile. Accettava totalmente quello che accadeva, ma non porgeva l’altra guancia. Gli opposti si incontrano quando il vuoto è abbastanza vasto e una volta lo sentii dire: “Il Maestro è come il cielo. Sembra esserci, ma in effetti non c’è.”
In quell’aula di tribunale, Osho era esattamente come se fosse seduto in camera sua, o in Buddha Hall a meditare con noi. Io credo che, quando la personalità non esiste più e l’individuo non è più dominato dai vecchi condizionamenti, non c’è più un ego che possa essere disturbato, o un ‘io’ che possa essere offeso. Il giudice Leavy chiese a Osho: “Ti dichiari colpevole o innocente?”.Osho rispose: “Io sono.” Il nostro avvocato, Jack Ransome, che era seduto accanto a lui, si alzò e disse: “Colpevole.” Questa scena si ripetè due volte, e più tardi, quando gli chiesi chiarimenti su quella risposta data al giudice, Osho, ridendo,mi disse: “Perché io non sono colpevole! Io ho solo affermato che esisto. Il nostro avvocato ha immediatamente aggiunto: ‘Colpevole.’Ma è un suo problema se lui è colpevole o no.”
Fu condannato a dieci anni di reclusione con sospensione della pena. Gli fu concessa la libertà con la condizionale per cinque anni, a patto che lasciasse immediatamente il paese, accettando di non rientrarvi per cinque anni, senza il permesso del procuratore generale degli StatiUniti. Quando il giudice chiese a Osho se aveva capito che non sarebbe potuto rientrare negli USA per cinque anni, lui rispose: “Naturalmente, ma non occorre limitare la mia espulsione a cinque anni, perché non metterò mai più piede in questo paese.” Il giudice disse: “Potresti cambiare idea.” Ma Osho rimase in silenzio e sorrise. Quando, più tardi, gli chiesi il significato del suo comportamento, mi rispose: “Per lo stesso motivo per cui Gesù rimase in silenzio quando Ponzio Pilato gli chiese:‘Qual è la verità?’Anch’io sono rimasto in silenzio e ho sorriso, perché quel pover’uomo non si rende conto che io non ho una mente, per cui non posso cambiare alcuna idea.” Osho venne condannato a pagare una multa di mezzo milione di dollari…per due reati minori che di solito vengono puniti con venticinquedollari e l’espulsione dal paese! Hasya, con l’aiuto di alcuni amici, raccolse la somma necessaria a pagare l’ammenda e Osho poté lasciare il tribunale. Ci ritrovammo a guidare per le strade bagnate di Portland, fra due ali di folla: alcuni salutavano,altri inveivano. Le luci dei negozi si riflettevano nelle pozzanghere,io guardai fuori dal finestrino e mi accorsi che le vetrine erano piene di decorazioni natalizie. Era stato tutto così bizzarro nelle ultime settimane, ma questo era troppo! Quell’ipocrisia chiamata Santo Natale mi fece veramente sorridere. Ci stavano scortando direttamente all’aeroporto, dove un gruppo di sannyasine giornalisti aspettava vicino a un aereo privato: vidi Vivek davanti al portello, pronta a riceverlo. Quando Osho fu in cima alla scaletta si girò e salutò tutti. Io lo osservavo, mentre pioveva e la sua barba danzava nel vento della notte. Ero affascinata dalla sua delicata bellezza e paralizzata dal significato storico di quel momento. Addio America, addio Mondo.
Le porte dell’aereo stavano per chiudersi, quando mi resi conto che dovevo partire anch’io; mi feci largo tra la folla, salendo la scaletta dicorsa ed entrando nella cabina calda e affollata. Vivek stava sistemandoi cuscini e le coperte di Osho su tre sedili, per preparargli un letto di fortuna; lui si sdraiò e chiuse gli occhi. Questa scena inconsueta sarebbe diventata fin troppo familiare nell’anno che stava per iniziare quando,a volte, la cabina di un aereo che volava intorno al pianeta, sarebbe stata la nostra sola ‘casa’. Mentre l’aereo decollava, provai un profondo senso di sollievo: lasciarel’America era la sensazione più bella che avessi provato da parecchio tempo. Aprimmo una bottiglia di champagne per celebrare, mentre Osho dormiva tranquillo. In aereo, Osho dormiva sempre, dal decollo all’atterraggio. Quando si svegliava, aveva l’espressione di un bambino appena nato che vedeo gni cosa per la prima volta, ed era sorpreso di essere ancora con noi su questa terra. Sull’aereo c’erano Vivek, Devaraj, Nirupa, Mukti, Hasya, Asheesh e Rafia. Era un jet molto piccolo, poiché la nostra prenotazione di un aereo più grande era stata cancellata non appena avevano saputo chi erano i passeggeri; così, la maggior parte del nostro gruppo, inclusa la famiglia di Osho, era rimasta a Portland, in attesa di raggiungerci con voli di linea.
Atterrammo a Cipro perché non avevamo il permesso di volare sopra gli stati arabi e poiché era un giorno di festa mussulmano, non c’era nessuno che potesse rilasciarlo.All’aeroporto di Cipro offrivamo uno spettacolo davvero divertente. Dal freddo inverno dell’Oregon eravamo passati al caldo soffocante del Mediterraneo con addosso stivali pesanti, giacconi, sciarpe e cappelli. Eravamo in otto, completamente vestiti di rosso e Osho con la sua lunga tunica, il cappello di maglia (a detta della stampa incastonato di diamanti) e la sua lunghissima barba argentata che si muoveva nel vento. Le autorità dell’aeroporto erano in allarme, cercavano di capire cosa stava succedendo e cosa dovevano fare. Di certo, non semplificò la situazione quel giornalista che, trovandosi per caso all’aeroporto,si mise a urlare: “È lui, Bhagwan Shree Rajneesh! È stato appena espulso dall’America.” Comunque, dopo un’ora passata a riempire moduli, mentre Osho era seduto in una sala d’aspetto sporca e fumosa,ci diedero il permesso di recarci in città. Prendemmo dei taxi e andammo nel ‘miglior’ hotel di Cipro. Erano le due di notte ed eravamo troppo eccitati per dormire, così mi misi a sedere sul terrazzo della mia stanza. Guardai il cielo e piansi.
Ero stata la testimone oculare di una moderna crocefissione ed ero ancora sommersa dai ricordi di Osho in catene, in prigione, di episodi irreali nelle aule dei tribunali, della fine di Rajneeshpuram e della diaspora di tutte quelle persone meravigliose. Sapevo la verità su ciò che avevamo cercato di creare in America; conoscevo la gioia e l’innocenzadi tutti coloro che avevano preso parte a quel meraviglioso esperimento e avevo la sensazione che l’esistenza stessa si fosse messa contro di noi e non ci fosse più posto per gente come noi, in questo mondo. E chiesi: “Perché ci hai abbandonato?”.
Il pomeriggio seguente, ricevuto il permesso di volare sui paesi arabi,stavamo dirigendoci alla volta dell’India. L’India! La mia ultima speranza. L’America aveva dimostrato di essere ancora a uno stadio di totale barbarie, incapace di capire un essere come Osho… in India sarebbe stato diverso. Gli indiani sanno cos’è l’illuminazione, conoscono la ricerca della verità e rispettano i ‘mistici’. Anche se solo per superstizione,gli indiani rispettano un grande Maestro e di certo conoscono Osho. Per trent’anni ha viaggiato per tutta l’India, a volte parlando a folle di più di cinquantamila persone. Ero certa che l’India avrebbe accolto a braccia aperte il suo ‘Uomo di Dio’. Il trattamento che Osho aveva ricevuto in America, avrebbe confermato il loro sospetto che l’Occidente non ha la più pallida idea delle ricchezze interiori. “Gli daranno della terra e un posto dove vivere,” pensavo.
Arrivammo a Delhi alle due e mezza di notte, ventiquattr’ore più tardi del previsto, a causa della sosta a Cipro. Questo ritardo aveva permesso a migliaia di persone di raggiungere l’aeroporto, creando un’atmosfera di forte tensione, nell’attesa crescente. Quando arrivammo al controllo passaporti, guardai la folla che si era raccolta al di là e provai un senso di panico. C’erano centinaia di giornalisti e troupe televisive con le loro telecamere in piedi sulle sedie e i tavoli, mentre un mare di gente eccitata e frenetica spingeva, sgomitando, desiderosa di toccare il guru. C’erano anche Laxmi, con tutto il suo metro e mezzo di altezza, e Anando, erano arrivate dall’America da pochi giorni (Anando è la donna cheavevo incontrato nel tunnel bianco all’inizio della mia avventura sannyasin,a Londra). Il resto della comitiva era ancora impegnato alla dogana, per cui Vivek e Osho dovettero attraversare da soli quella folla impazzita per raggiungere l’uscita dell’aeroporto e arrivare alla macchina che li stava aspettando. Li seguii, anche se Vivek continuava a urlarmi: “Torna indietro, torna indietro.” Ancora oggi non capisco perché lo dicesse; era una situazione impossibile. La gente si aggrappava ai vestiti di Osho; una donna gli saltò letteralmente addosso da dietro mettendogli le braccia al collo, altri si gettavanoai suoi piedi, colpendolo alle gambe, fino a farlo quasi cadere. Chi era in fondo spingeva sempre più forte per avvicinarglisi, mentre i giornalistigli si paravano davanti, cercando di fargli delle domande. C’era un solo modo per uscire da quella situazione e non ero affatto disposta a tornare indietro, limitandomi a osservare la scena. Nel tentativo di aprire un varco, iniziai ad afferrare quella gente per le braccia e per i capelli. Anando faceva la stessa cosa e anche Laxmi, malgrado la sua piccola statura, si dava un gran da fare. Osho sorrideva a tutti e con lemani giunte davanti a sé nel gesto del namasté, avanzava sereno lungo quel percorso minaccioso. Quando finalmente arrivammo alla macchina, ci vollero altri cinque minuti per riuscire ad aprire la portiera vincendo la pressione della folla e una forza incredibile per tenerla aperta mentre Osho entrava. Continuavo a tremare e solo quando la macchina lentamente partì,cominciai a rilassarmi.
Eravamo in India e Osho era al sicuro!