Libro di Prem Shunyo
A Creta
Era la metà di febbraio e l’acqua del mare Egeo era fredda, ma era stupendo nuotare nuda nelle calette limpide e profonde, circondate dalle rocce su cui le onde venivano a infrangersi con dolcezza. Il sole splendeva e io guardavo la villa costruita a picco sul mare, e la scala scolpita nella roccia che si arrampicava fino alla casa. Amrito l’aveva affittata per un mese, chiedendola a un suo amico regista, Nikos Koundouros, e con rapidità era riuscita ad apportare alcune migliorie; al bagno, per esempio.
Osho abitava nelle stanze superiori e la finestra circolare del suo soggiorno si apriva a picco sul mare. La sua camera da letto era invece situata sul retro della casa, e quindi era buia e cupa.La stanza dove vivevo e dove lavavo i vestiti di Osho, si trovava a metà altezza sulla scogliera e aveva un balcone bianco e rotondo. Al piano superiore c’erano i nostri amici di Hollywood, Kaveesha e David, che erano amanti da sempre, John e Kendra, la sua ragazza, una bionda estremamente bella, sannyasin da quando era bambina, e Avirbhava. Avirbhava è una miliardaria del Tennessee. Temeva che gli uomini l’amassero solo per i suoi soldi, pose la questione a Osho e lui le rispose: “I soldi sono parte di te. Tu non sei solo una bella donna, sei una bella donna ricca!” E concluse: “Pensi che io mi preoccupi del fatto che tu mi ami solo per la mia illuminazione?”.
Non appena si seppe che Osho era a Creta, iniziarono ad arrivare sannyasin da ogni parte del mondo; riviste e quotidiani di molti paesi mandarono i loro giornalisti; giunsero anche troupe televisive dalla Germania, l’Olanda, gli Stati Uniti, l’Italia e l’Australia. Dal giorno successivo al suo arrivo, Osho iniziò a tenere un discorso al mattino e uno alla sera; nel giro di pochi giorni gli ascoltatori erano circa cinquecento, per lo più sannyasin, arrivati dall’Europa e dagli Stati Uniti. La scena era suggestiva: Osho si sedeva in cortile, sotto un albero di carrubee un gruppo di musicisti stava sul patio di pietra e suonava quando usciva dalla casa e quando vi rientrava, alla fine del discorso. Spesso ballava con Vivek che gli danzava allegramente intorno; si avvicinavano e si allontanavano, sempre ridendo, lungo tutto il percorso e su per le scale, fino a scomparire dietro il portone di quercia della casa. Tutti venivano travolti da quell’esplosione di semplice gioia, e incitavano mandando grida stupite. Nei giorni di pioggia, ci sedevamo in casa nella grande stanza al pianterreno;ma la riempivamo oltre le sue possibilità e qualcuno doveva sempre sedersi sulle scale, o sui davanzali delle finestre. In quei discorsi, Osho rispondeva alle domande dei discepoli e dei giornalisti presenti. Sembrava di rivivere i tempi in cui si andava in pellegrinaggio dai saggi, per porre domande e ricevere consigli illuminati. I giornalisti interrogavano Osho sui temi più diversi: la società, i leader politici, il papa, il controllo delle nascite, la pena di morte, i problemi che il matrimonio crea, il movimento di liberazione della donna, la salute fisica e mentale, gli armamenti e la meditazione. Certo, facevano anche domande sulla meditazione, ma naturalmente non mancavano i rappresentanti di giornali scandalistici che ponevano le stesse domande di sempre: “Sei conosciuto anche come il guru del sesso…?”.E Osho rispondeva: “Che io sia definito il guru del sesso, non è solo falso,è assurdo. Per mettere le cose in chiaro, io sono l’unica persona al mondo a essere contro il sesso.Ma per rendersene conto occorre avere una grande capacità di comprensione e non possiamo aspettarcela dai giornalisti. Ci sono circa quattrocento libri pubblicati a mio nome, e ce n’è uno solo sul sesso. Ma tutti parlano solo di quel libro; degli altri trecentonovantanove non importa niente a nessuno, e quelli sono i migliori. Il libro sul sesso serve per prepararvi; in questo modo potete capire gli altri libri e arrivare a livelli più elevati, scrollandovi di dosso i piccoli problemi comuni fino a raggiungere le vette della consapevolezza umana – ma nessuno parla di quei libri.”
L’altra domanda che più ricorreva tra i giornalisti era: “Ti mancano le Rolls Royce?”.E Osho rispondeva: “Ame non manca mai niente. Ma sembra che al resto del mondo manchino le mie Rolls Royce! È un mondo veramente folle. Quando c’erano le Rolls Royce, tutti erano invidiosi; adesso che non ci sono, ne sentono la mancanza. Io vengo semplicemente ignorato. Forse, un giorno, torneranno a esserci e la gente ricomincerà a essere gelosa…Proprio l’altro giorno, alcuni fotografi volevano riprendermi, e la mia gente non voleva che mi facessi fotografare vicino a una Honda, ma io ho insistito…la Honda non è mia, come non lo erano le Rolls Royce. Ma lasciamo che la gente si diverta… la cosa farà loro piacere! Ma è strano, è molto strano, che la mente delle persone si debba occupare di cose che non la riguardano affatto.” E sul denaro lui diceva: “…Mi dispiace dirvi che non capisco niente di finanza. Non ho un conto in banca. Non tocco soldi da trent’anni. Sono stato in America per cinque anni e non ho visto neanche un biglietto da un dollaro.Vivo con totale fiducia nell’esistenza. Se vuole che io sia qui, farà qualcosa in merito. Se non lo vuole, non farà niente. La mia fiducia nell’esistenza è totale. Coloro che non hanno fiducia nell’esistenza, credono nel denaro, credono in Dio e credono in ogni tipo di idiozia.”
Alla domanda: “Il nome Bhagwan è scritto sul tuo passaporto?”.Osho rispose: “Non ho mai visto il mio passaporto. Se ne prende cura la mia gente. Quando ero in prigione in America non avevo il numero di telefono dei miei avvocati, né quello della Comune, o delle mie segretarie, perché in tutta la mia vita non ho mai telefonato. Lo sceriffo era sorpreso e mi chiese: ‘Chi dobbiamo informare del tuo arresto?’ Risposi:‘ Chi ti pare, per quanto mi riguarda io non conosco nessuno. Potresti informare tua moglie, forse le piacerebbe sapere quello che sta facendo suo marito: arresta gente innocente senza un mandato.’ Il mio stile di vita è talmente diverso dalla norma che a volte può sembrare incredibile. Non so dove sia il mio passaporto in questo momento:lo deve avere qualcuno, da qualche parte.”
Qualcuno gli chiese: “Come vorresti presentarti al popolo greco?”.Osho rispose: “Oh, mio Dio. Non mi riconoscete? Sono la stessa persona che avete avvelenato venticinque secoli fa. Voi mi avete dimenticato, ma io no ho dimenticato voi. Sono qui solo da due giorni – ma pensavo che in venticinque secoli la Grecia si fosse evoluta verso qualità migliori, più umane, verso la verità. Invece mi sento triste, perché in soli due giorni, sono già usciti degli articoli sui giornali greci che dicono bugie su di me, fanno asserzioni che non hanno alcun fondamento reale, sono pure assurdità.”
Osho aveva lasciato il Nepal, la terra dove era nato Gautama il Buddha,ed ora eravamo qui, in Grecia, prima tappa del suo tour mondiale, la terra di Zorba. E ci spiegò: “Zorba rappresenta le fondamenta del tempio. Buddha è il tempio stesso. Per l’‘uomo nuovo’ ho scelto il nome di Zorba il Buddha. Non voglio nessuna schizofrenia, non voglio divisione fra materia e spirito, fra sacro e mondano, tra questo mondo e l’altro mondo. Non voglio nessuna divisione, perché ogni divisione vi spacca in due; e una personalità, un’umanità divisa da se stessa, sarà senz’altro pazza e malata. E noi viviamo in un mondo pazzo e malato, che guarirà solo se quella spaccatura sarà ricongiunta. Zorba deve diventare Buddha e Buddha deve capire e rispettare le sue fondamenta. Le radici possono essere brutte, ma senza quelle radici non ci sarà nessun fiore.”
Chiarì anche perché era favorevole al vegetarianismo: “Coloro che per secoli sono stati vegetariani, sono assolutamente non-violenti. Non hanno fatto guerre, nessuna crociata, nessuna jihad. Coloro che mangiano carne, sono meno sensibili, sono più duri. Arrivano perfino a uccidere in nome dell’amore; in nome della pace,vanno in guerra. Arriveranno a uccidere in nome della libertà e della democrazia…Mi sembra che uccidere gli animali per nutrirsene, non sia molto diverso dall’uccidere gli esseri umani. Differiscono solo nei corpi, nella forma; ma è la stessa vita che state distruggendo.”
Gli vennero anche poste domande sull’educazione dei bambini e sui problemi degli adolescenti. La cosa mi stupì: mentre alcuni giornalisti gli chiedevano consigli sui giovani, proprio per questo crimine il governo greco si preparava ad arrestarlo, qui a Creta: “Corruzione della gioventù”. Era la stessa accusa fatta a Socrate, venticinque secoli prima… la storia pareva ripetersi inesorabilmente.“ Anche tu, come molti altri, pensi che l’AIDS sia una maledizione di Dio,contro la dissolutezza dei costumi?”.Osho: “È di certo una maledizione divina, ma non contro la dissolutezza. È una maledizione divina frutto degli insegnamenti della chiesa sul celibato– cosa innaturale; della scelta di tenere suore e preti separati – cosa innaturale, e che può solo generare omosessualità. L’omosessualità è una malattia religiosa e la chiesa ne è responsabile. Dio stesso ne è il responsabile,perché nella trinità cristiana esiste Dio, il padre, c’è Gesù Cristo, il figlio e chi è questo Spirito Santo? Non c’è neppure una donna. È un gruppo gay. E io sospetto che lo Spirito Santo sia il fidanzato di Dio.” Chiarì anche che la società e i preti ci hanno dato le due bugie più grandi: Dio e la morte.“Dio non esiste. La morte non esiste. Questi cosiddetti leader religiosi –i cardinali, i vescovi, gli arcivescovi – sono i rappresentanti dell’unico figlio di un’ipotesi. Sono le persone meno intelligenti del mondo. Vivono in un’allucinazione.” (da Socrates Poisoned Again After 25 Centuries)
L’arcivescovo di Creta, Dimitrios, rispose immediatamente, in un modo che dimostrava inequivocabilmente ciò che Osho aveva detto sull’ipocrisia dei preti: “O la smette di parlare o saremo costretti a usare la violenza. Scorrerà sangue, se Bhagwan non lascerà l’isola di sua volontà.” I giornali locali citarono una frase dell’arcivescovo in cui affermava che avrebbe fatto saltare la villa con la dinamite e le avrebbe appiccato fuoco con dentro Bhagwan e i suoi seguaci, se non se ne fossero andati. Amrito eMukta, con i suoi capelli grigio-argento e gli occhi di un profondo marrone scuro, andarono a trovare l’arcivescovo per chiarire l’eventuale equivoco. Mentre si avvicinavano alla chiesa, un abitante del luogo urlò contro Amrito: “Tu sei la figlia del diavolo! Vattene via!” Rimasero qualche minuto di fronte alla porta dell’abitazione del sacerdote, cercando di spiegargli che prima di condannare Osho, avrebbe almeno dovuto ascoltareciò che aveva da dire, ma alla fine il vescovo si mise a urlare pieno di rabbia: “Andatevene da questa casa!” E loro tornarono indietro. Arrivarono Veena e Gayan, che erano state le sarte di Osho a Rajneeshpuram,e ci divertimmo a riparare tutti i danni che i lavaggi con i secchi di neve sciolta a Kulu avevano arrecato alle tuniche e ai cappelli di Osho. Stavamo rincontrando molti amici, e l’atmosfera diventava allegra e gioiosa,ma io non mi sentivo amio agio. Avevo avuto un incubo in cui vedevo alcuni uomini arrampicarsi sulle mie finestre e immaginavo che nella baia sottostante fossero ormeggiate delle barche dall’aspetto minaccioso. Mi ricordai che questa era l’isola da cui Gurdjieff era stato portato via in coma, dopo che gli avevano sparato. In quel periodo poi, mi accadevano molti incidenti:mi ero fatta un livido enorme su una coscia, cadendo dalle scale, rompevo sempre qualcosa e la mia lavatrice continuava ad allagare il pavimento e a darmi la scossa.Una sera, un forte vento si abbatté sull’isola. Il mare era mosso e gli alberi erano piegati dal vento che sibilava. Sarvesh, il ragazzo di Avirbhava, e io pensammo che sarebbe stato ‘divertente’andare a fare un giro in moto e godersi il vento fra i capelli. Amrito ci bloccò la strada con le braccia aperte, dicendo: “No, non vi lascerò andare.” Era una 750 cc. da corsa e Sarvesh aveva ammesso che erano quindici anni, dai tempi dell’università,che non guidava una moto. Ma ormai avevamo deciso e ci dirigemmo giù per la collina, verso il piccolo paese di Agios Nicholaos.Ben presto mi resi conto che Sarvesh non riusciva a controllare la moto e mentre prendevamo una curva sul lungomare, il vento ebbe la meglio.La moto gli sfuggì alla presa e io sentii la mia faccia scivolare sulla schiena di Sarvesh e mi ritrovai in mezzo alla strada con il viso sull’asfalto. Avevo sapore di sangue in bocca e con la lingua esaminai i denti – c’erano tutti – bene. Il sangue veniva dalla faccia e dal naso; avevo dei tagli sulle mani, i calzoni erano strappati, mi mancava una scarpa, avevo una caviglia gonfia,ma mi sentivo in uno stato di estrema lucidità. Non avevo mai avuto un incidente prima ed ero sbalordita perché sentivo una gran calma e chiarezza. Sarvesh era disteso a faccia in giù in una pozza di sangue che fiottava dalla testa. Guardai il suo corpo, e stranamente mi sembravache non ci fosse di che preoccuparsi. Gli controllai il respiro, sembrava normale e rilassato. Mi chinai e lo chiamai per nome, ma era svenuto.Mi osservavo,mentre davo istruzioni ai passanti – tu chiama un’ambulanza,tu prenditi cura della moto, tu chiama la villa (mi ricordavo persinoil numero di telefono a sei cifre). Andammo all’ospedale dove Sarvesh rimase svenuto per quaranta minuti. Non avevo dubbi sul fatto che non avrebbe avuto problemi. Quella notte sperimentai una chiarezza tale da giustificare quell’esperienza.
Il giorno dopo mi arrivò un messaggio di Osho: diceva che ero stata ‘stupida’ad andare in giro con la moto.Andammo a prendere Sarvesh all’ospedale: la sua faccia era blu e irriconoscibile. Aveva avuto una brutta commozione cerebrale,ma in poche ore si era ripreso. Dormii tutto il giorno e tutta la notte; quando uscii dalla mia stanza, la mattina dopo, bastarono pochi minuti al sole per farmi girare la testa e John, che è un medico, mi disse che quelli erano i sintomi della commozione cerebrale, così me ne tornai a letto. Amrito telefonò proprio quella mattina da Atene dove era andata a incontrare il capo della polizia, e ci informò che stava andando tutto bene, non c’era nulla di cui preoccuparsi. Alle due del pomeriggio, sentii un gran trambusto. Mi alzai dal letto, e incontrai Anando sulla porta. Mi disse che era arrivata la polizia, ma che io dovevo tornare subito a letto. Tornare a letto! Mi vestii immediatamente, ricordandomi dell’ultima esperienza con la polizia: quello che hai addosso può essere benissimo quello che dovrai indossare nei giorni successivi, in prigione. Mi avvicinai alla casa e vidi che era circondata da uomini in borghese armati, che urlavano ordini, e da una ventina di poliziotti in divisa. Quattro poliziotti stavano trascinando via Anando per portarla alla prigione del paese e lo stesso fecero con un amico che era corso in aiuto. Corsi su per le scale padronali, mi misi davanti alla porta della villa e dissi al poliziotto che si trovava lì: “Ci deve essere un errore. Per favore aspettate,i nostri avvocati stanno già mettendosi in contatto con il capo della polizia e presto sarà tutto chiarito.”Lui replicò: “Io sono il capo della polizia!”. Continuai a insistere che doveva esserci un errore e che avremmo contattato le autorità superiori. “Io sono il magistrato,” disse un altro dei presenti! Ero convinta che stessero commettendo un errore madornale e che, se solo avessimo potuto impedire alla polizia di entrare in casa fino all’arrivo di aiuti, sarebbe andato tutto bene. Ma quegli uomini si comportavanocome se fossero stati mandati a svolgere una missione d’emergenza e molto pericolosa. Mi tornò in mente l’arresto a Charlotte, dove gli uomini che ci arrestavano non sapevano cosa stavano facendo, ma pensavano che stessero arrestando dei pericolosi terroristi. Si erano divisi in gruppi di due o tre e si aggiravano intorno alla villa cercando un’entrata. Mi avvicinai a due di loro che stavano per salire da una finestra, e li fronteggiai urlando: “No!” Provarono a farmi spostare da lì,ma io non li lasciavo avvicinare alla finestra. Avevo la faccia piena di lividi e di ferite per l’incidente di due notti prima e penso che fu quello che mi diede coraggio, perché sapevo che non mi avrebbero toccata. Se lo avessero fatto, avrei potuto creargli problemi,dicendo che erano stati loro a procurarmi quelle ferite. Forse lo sapevano anche loro, ma qualunque cosa pensassero della mia faccia così malridotta,non reagirono ai miei tentativi di fermarli. Geeta, la giapponese, corse ad aiutarmi e malgrado sia alta meno di un metro e cinquanta, mostrava una forza incredibile mentre cercava di impedire a quegli uomini di arrampicarsi sulle finestre. Io correvo intorno alla villa e ogni volta che vedevo qualcuno che cercava di entrare, immediatamente mi mettevo davanti a lui per impedirglielo.A un certo punto, vidi un poliziotto in borghese che a gambe divaricate sollevava sopra la testa un’enorme roccia. Sembrava Golia ed era pronto a scaraventare quel masso contro una finestra.Mi accorsi che dietro alla finestra c’erano Rafia, Asheesh e tutto il nostro equipaggiamento video. Se avesse tirato quella pietra, ci sarebbero stati feriti e danni…mi misi fra Golia e la finestra e urlai: “Pensavo che la polizia di Creta fosse amica della gente,ma voi siete solo dei fascisti!”Arrivarono altri due poliziotti in divisa e uno di loro, con la faccia paonazza, mi urlò: “Noi non siamo fascisti!” e Golia mise giù la roccia.Poi udii un rumore di vetri infranti, mi misi a correre e girato l’angolo vidi tre poliziotti che stavano entrando nella villa da un’altra finestra. Li vidi attraversare la stanza e andare verso la scala, poi con la coda dell’occhio notai che anche la porta principale stava per essere aperta. Allora entrai anch’io dalla finestra, e mi misi a correre verso la scala a chiocciola che portava alle stanze di Osho. Arrivai prima, perché sapevo la strada mentre loro esitavano forse aspettandosi di trovare gente armata. Giunta in cima alle scale, vidi Rafia che scattava foto a raffica a quegli uomini che stavano salendo. Arrivai davanti al bagno di Osho e vidi che, dietro di me, due o tre poliziotti afferravano Rafia di peso e lo portavano in soggiorno…temevo che lo picchiassero, ma non potevo farci niente. Kendra arrivò alcuni minuti dopo e andò nel soggiorno dove Rafia, steso sul pavimento con due uomini sopra di lui, riuscì a farle scivolare in mano il rullino fotografico. John era riuscito ad avvicinarsi a me e, spalla a spalla, proteggevamo la porta del bagno, chiamando Osho da una fessura, per fargli sapere quello che stava succedendo. Lui rispose che sarebbe uscito in un minuto. Apparve anche Golia…tutta la scala a chiocciola era zeppa di poliziotti, altri cercavano di salire; alcuni stavano ammassandosi nel corridoio,davanti al bagno di Osho. Dissi loro: “Per favore, siamo gente pacifica,non c’è nessun bisogno di usare la violenza.”Golia rispose che sarebbe dipeso da noi se avessero usato violenza o no.Io gli risposi che noi non avevamo usato nessuna violenza contro di loro. Provarono a spostarmi, ma ancora una volta la mia faccia gonfia e piena di ferite e la mia determinazione li dissuase. Dissi loro: “Per favore, lasciatelo finire.” Alcuni poliziotti abbatterono la porta della stanza da letto di Osho ed entrarono, armi alla mano. Quando Osho uscì dal bagno tutti incominciarono a spingere. Mi girai verso il capo della polizia e gli dissi che non c’era bisogno di tanti gorilla, che per favore ne mandasse giù qualcuno; cosa che lui fece, lasciandone solo otto o dieci a scortare goffamente Osho in soggiorno. Lui con molta calma andò verso la sua poltrona e si mise a sedere. Quando entrammo, vidi Rafia. Era seduto, aveva un’espressione stravolta e i capelli arruffati. Notai che quando Osho si sedette, gli lanciò uno sguardo penetrante, presumo per vedere se stesse bene. John si mise a sedere su un bracciolo della poltrona di Osho e io sull’altro. I poliziotti ci stavano tutti intorno e si misero a urlare contemporaneamente,in greco. La cosa continuò per alcuni minuti, poi Osho si girò verso di me e mi disse: “Vai a cercare Mukta perché traduca. ” Scesi, accompagnata dal capo della polizia e chiamammo Mukta che arrivò di corsa.Adesso avevamo un’interprete, ma le cose non migliorarono,perché tutti continuavano a urlare. Osho con calma chiese cos’erano venuti a fare e se avevano un mandato. Quelli agitarono dei fogli eMukta incominciò a leggerli,mentre nella stanza regnava il caos. Io avevo la sensazione che avessero ricevuto l’ordine di portare viaOsho prima d’una certa ora, perché tutti continuavano a guardare l’orologio e la loro aggressività e la loro ansia aumentavano. Osho disse che sarebbe partito senza problemi ma che dovevano darci il tempo per fare i bagagli e trovare un aereo. Avrebbero potuto assistere ai preparativi… ma perché arrestarlo? Quelli gridarono: “No!” Doveva andare con loro. “Subito!”.Insistevano tanto per portarlo via che io mi misi a urlare che non potevano farlo, finché non avessimo preparato i bagagli. Dissi: “È una persona molto malata e tutto il mondo saprà ciò che gli state facendo. Se gli farete del male, vi troverete veramente nei guai.” E proseguii dicendo che non potevano portarlo via senza le sue medicine. Ancor oggi ricordo il profondo imbarazzo, definendo Osho “un uomo molto malato” proprio davanti a lui, sapendo che è molto, molto di più!
Guardai John, che era seduto dall’altra parte. Sedeva immobile e in silenzio;il volto era uno schermo vuoto sul quale si poteva proiettare qualsiasi cosa. La mia proiezione in quel momento fu che, con la sua immobilità,trasmetteva alla polizia il messaggio di prendere le cose con calma. La confusione non accennava a diminuire, i poliziotti continuavano a discutere animatamente fra di loro. La tensione sembrava crescere e diminuire con un ritmo che mi ricordava un mare in tempesta.Un poliziotto che ne aveva avuto abbastanza del ritardo, si diresse rudemente verso Osho e con una mano gli prese il polso, posato sul bracciolo della poltrona, come fa sempre quando siede rilassato. Gli disse: “Ti portiamo via adesso!” e fece il gesto di volerlo strappare letteralmente dalla poltrona. Osho, molto gentilmente, posò la mano che aveva ancora libera su quella del poliziotto dando dei colpetti e dicendo: “Non c’è bisognodi usare la violenza.” Il poliziotto lasciò cadere la sua mano e fece un passo indietro con rispetto. Il capo della polizia disse infine che doveva arrestare Osho e non poteva farci niente. Quelli erano gli ordini. Era stata presa una decisione. Osho si alzò e si avviò verso la porta, io corsi all’armadietto dove tenevamo i suoi medicinali, e mi misi in tasca tutto ciò che riuscii ad afferrare, riuscendo ad arrivare in tempo per tenergli la mano, mentre scendeva le scale.Osho si voltò verso di me, mentre scendevamo, e con un tono di voce gentile e preoccupato mi chiese: “E tu Chetana, come stai?” Non riuscivoa crederci! Era come se stessimo andando a fare una tranquilla passeggiata pomeridiana, senza alcuna preoccupazione al mondo e lui mi stesse chiedendo della mia salute. Risposi: “Oh, Bhagwan, io sto bene.”Circondati dalla polizia, attraversammo le stanze del pianterreno, dove soltanto il giorno prima ci eravamo goduti i suoi bellissimi discorsi. Superammol’enorme portone in legno e uscimmo sotto il patio: c’erano alcuni sannyasin, completamente sconvolti, non sapendo cosa fare e Mukta che stava urlando con tutto il fiato che aveva contro due poliziotti. Osho si fermò, si girò verso di lei e le disse: “Non perdere tempo a parlare con loro, Mukta, sono degli idioti.” Raggiungemmo una macchina della polizia e Osho si voltò e mi disse di rimanere lì e fare i bagagli. Annuii con la testa e lui entrò in macchina seguito da due poliziotti, uno per lato. Vidi che Devaraj era lì, allora vuotai nelle sue tasche tutte le medicine che avevo raccolto.Sembrava proprio che avessero intenzione di andarsene con Osho chissà dove, senza portare con lui nessuno di noi. Presi una rapida decisione…mi sdraiai sul cofano e urlai al capo della polizia, che a questo punto mi sembrava di conoscere molto bene, con forza e scandendo lentamente:“Il-dottore-viene-in-macchina! Il-dottore-viene-in-macchina!” Devaraj era pronto, uno dei poliziotti scese e Maneesha spinse dentro Devaraj,subito seguito dal poliziotto. Erano schiacciati sul sedile posteriore, con Devaraj che cercava di tenere in equilibrio sulle ginocchia la sua borsa da medico e Osho, in un angolo.
Mentre la macchina si allontanava sempre più veloce, fino a scomparirealla nostra vista, oltre il viottolo polveroso che portava sulla litoranea,la mia mente registrò questa immagine: Osho aveva quel vestito –quello che avevo sognato quando ero a Rajneeshpuram. Non sapevamo dove la polizia avrebbe portato Osho. Qualcuno disse che volevano spedirlo in Egitto, via mare. Ed era vero: ci sono voluti venticinquemila dollari per corrompere la polizia e permettere a Osho di lasciareil paese sano e salvo. Cercai Mukti e Neelam. Si dovevano organizzare le cose in modo che,nel caso in cui Osho fosse stato deportato, loro arrivassero in India con lui. Ero terrorizzata all’idea che arrivasse in India da solo…ciò che aveva detto sui soldi e sul suo passaporto era vero, ahimè! Riempii rapidamente una dozzina di giganteschi bauli di metallo.Misi la poltrona di Osho in una cassa di legno; inoltre c’erano valigie e bauli più piccoli…in tutto una trentina di colli. Lavorai come un fulmine…e alla fine andai all’aeroporto di Heraklion dove Osho stava aspettando un volo per Atene. Il modo in cui la polizia lo trattava era migliorato molto da quando aveva ricevuto i venticinquemila dollari. Osho era seduto in una stanzetta del posto di polizia locale circondato da poliziotti armati, e stava concedendo un’intervista a un reporter della rivista Penthouse. Pioveva, ma questo non impediva a centinaia di sannyasin di continuare a cantare e ballare, celebrando fuori dall’edificio in cui Osho era trattenuto…cantavamo, trasformando quella tragedia disastrosa in una festa! Era l’ora in cui arrivavano i voli dall’Europa e dall’America: ormai la notizia che Osho era a Creta aveva fatto il giro del mondo e ogni giorno arrivavano gruppi di sannyasin. Quella sera si assisteva all’assurdo:i nuovi arrivati si trovavano ad abbracciare gli amici, che non vedevano forse dai tempi della distruzione della Comune in America, sommando emozione a emozione, sentendo che Osho stava per lasciare il paese… pareva una barzelletta, e le risate risuonavano allegre man mano che l’assurdità della situazione aumentava: erano arrivati appena in tempo per salutarlo!
L’aeroporto era strapieno: a centinaia di sannyasin si aggiungevano gli abitanti di Agios Nicholaos, il villaggio in cui avevamo fatto base, affascinando tutti con la nostra allegria e la nostra gioia di vivere. Poiché si avvicinava il momento della partenza, entrai nella hall dell’aeroporto e fui travolta da uno spettacolo incredibile: centinaia di persone vestite di rosso e di arancione cantavano, ridevano e ballavano…ogni tanto una voce esclamava: “Eccolo lì!” e tutti correvano verso la direzione indicata, ma un’altra voce replicava: “No, è lì!” e le persone si muovevano come un unico corpo. Pensai a un bastimento in un mare in tempesta, dove tutti vengono sballottati dalle onde da una parte all’altra della nave. Aspettando che Osho attraversasse la hall dell’aeroporto, l’atmosfera si caricava di eccitazione e di aspettativa; nascevano canti spontanei e risate…mi trovai in piedi, vicino ad Anando, che era stata rilasciata. Salimmo sulla balconata, in tempo per vedere Vivek, Rafia, Mukti, Neelam e qualche altro sannyasin che salivano su un aereo. Naturalmente pensavamo che anche Osho sarebbe salito su quell’aereo. Il cuore ci si bloccò inpetto quando partì senza di lui; avevamo una gran paura che ci stessero giocando qualche brutto tiro. Subito dopo, vedemmo una macchina che si avvicinava a un piccolo aereo di linea interno, pronto sulla pista; ne uscirono Devaraj e Osho. Stavano salendo proprio su quello, diretti ad Atene e Anando mi disse: “Ho un biglietto per quell’aereo,” e con quelle parole scomparve fra la folla, girandosi solo per dirmi di spedirle i suoi vestiti.Guardai l’aereo che decollava circondata da centinaia di amici, alcuni confusi, altri tristi, tutti immersi in un gran vuoto… poi tornai alla villa deserta, in attesa dell’atto successivo di questa incredibile avventura nell’ignoto nella quale ero ormai totalmente coinvolta. Le ultime parole di Osho alla stampa, prima di lasciare la Grecia, sono state: “Se una persona sola, che si ferma soltanto per quattro settimane con un visto turistico, può distruggere la vostra moralità, la vostra religione,vecchie di duemila anni, allora non vale la pena conservarle. Dovrebbero essere distrutte.”