Libro di Prem Shunyo
«possiamo celebrare questi 10.000 buddha?»
Più di una volta Osho mi ha detto che andare in America aveva distrutto il suo lavoro. Non capivo veramente cosa intendesse dire e gli rispondevo: “No, almeno adesso sei conosciuto in tutto il mondo. Hai smascherato i politicanti di tutte le nazioni, i tuoi sannyasin sono maturati e cresciuti moltissimo.” Ma non capivo. Non sapevo che stava per morire avvelenato.
Guardando indietro a quegli ultimi tre anni, mi rendo conto dell’immensa mole di lavoro che Osho ha dovuto fare per ricreare la stessa intensità di energia che avevamo raggiunto, in quanto organismo consapevole, nella Comune degli anni ’70. Mi ricordo che una volta, durante un periodo di riposo, si alzò per il pranzo e mentre ritornava a letto, mi disse che non aveva niente da fare. Replicai: “Per essere uno che non ha niente da fare, stai facendo veramente tanto. Non hai lavoro? Ci sono migliaia di persone là fuori che sentono che stai ‘lavorando’ su di loro. ” Lui disse: “Questo è vero.” “Ho visto migliaia di persone, fra la mia gente, cambiare senza neppure s aperlo; sono cambiate radicalmente, ma la trasformazione è avvenuta in maniera sotterranea. La loro mente non vi ha potuto partecipare, è stato un contatto cuore a cuore.” (da Beyond Psychology)
So che è vero, perché ho visto moltissime persone totalmente trasformate stando vicino ad Osho. Ma a volte non ci rendiamo conto di quanto siamo cambiati, per la semplice ragione che viviamo a stretto contatto gli uni con gli altri – proprio come un genitore, vedendo il figlio tutti i giorni, non si accorge di quanto stia crescendo. Eppure, talvolta in me si crea una distanza, non fisica, bensì frutto della meditazione, e in questo spazio sento di toccare i piedi di tutti coloro che sono in viaggio con me. Stare con Osho non vuol solo dire tagliare e rifinire costantemente il mio diamante interiore; c’erano giorni di pura luce. Giorni in cui ero vicina a Osho, facevo piccole cose per lui, come portargli da mangiare, lavargli i vestiti o anche solo stargli accanto a osservare la sua vita estremamente semplice. Il modo in cui viveva, così totale, in profondo silenzio, assolutamente mite. Guardarlo fare cose del tutto ordinarie, come piegare un piccolo asciugamano che teneva sempre vicino a sé, mi bastava. Ma queste piccole cose non si possono esprimere a parole e quindi, il più prezioso fra i diamanti, non potrà mai essere descritto.
La sartoria di Osho era unica. Gayan, Arpita, Asheesh, Sandhya e Veena erano costantemente all’opera, perché Osho era esigente e al tempo stesso non lo era affatto. In questo campo, più che in altri, era evidente l’incontro degli opposti; in verità, era così tranquillo rispetto a ciò che doveva indossare, che non sapeva mai in anticipo quale sarebbe stata la prossima tunica, neppure quelle più ricercate che indossava durante le celebrazioni. Eravamo noi che preparavamo il vestito, il cappello e le calze a datte e lui li indossava. Tutte le tuniche avevano uno stile ‘spaziale’ e t alvolta, quando la stoffa era troppo rigida per creare l’effetto voluto sulle spalle, il risultato era un vero disastro. Ne ricordo una, in particolare: sembrava un’armatura. Osho chiamò Gayan nella sua stanza perché si rendesse conto dell’errore. Mancavano cinque minuti all’inizio del discorso e io gli dissi che gliene avrei portata un’altra. “No, no, lasciami indossare questa, voglio vedere la reazione della gente,” disse ridacchiando. In quell’occasione dovetti insistere dicendo che non poteva indossarla. Sapevo che tutti si sarebbero messi a ridere, ma a lui non importava. Spesso si divertiva a scegliere i tessuti e a volte scartava una tunica anche se ne aveva scelto lui la stoffa. Gli replicavo: “Ma l’hai scelta tu la stoffa.” Lui rispondeva: “Non posso sapere sempre…”. C’erano giorni in cui mi diceva: “Portami una tunica da celebrazione… ogni giorno è una celebrazione.” E poi, una settimana dopo: “Perché mi dai sempre queste tuniche così sontuose e dorate? Mi piacciono quelle semplici.”
Quando gliene piaceva una, era bellissimo il modo in cui la toccava, esclamando tutto contento: “Questa mi piace molto, è semplice e ricca al tempo stesso,” e lo faceva ogni volta che la indossava, come se la vedesse per la prima volta. Il colore che preferiva era il nero. Quando Vivek tornò da un viaggio in Tailandia, Osho le cambiò il nome: adesso si chiamava Nirvano – era un nuovo inizio. Era tornata con un’intera collezione di orologi luccicanti, in falso oro e con falsi diamanti. A Osho piacquero moltissimo e per tutto l’anno successivo ne ricevette a decine, perché amava regalarli. Ogni volta che sentivamo di qualcuno diretto a Bangkok, gli chiedevamo di tornare con alcuni di quegli orologi, così che li potesse regalare. A Osho piaceva moltissimo fare regali e li faceva con lo stesso amore, che fossero costosi o semplici. Non faceva differenza cosa donasse o a chi. A un certo punto costruimmo un armadio, nel quale venivano messe tutte le cose da regalare e ogni volta, lui sostava e sceglieva con estrema cura cosa dare a chi… spesso mi chiamava mentre era in bagno, dava un occhio nel suo armadietto e selezionava uno shampoo, o una crema, e mi diceva a chi darlo… talvolta lo faceva pochi minuti prima del discorso: mi dava una dozzina di oggetti da regalare e mentre tornavamo dall’auditorio mi chiedeva se avessi già distribuito i doni…con Osho ogni cosa era fatta ADESSO: per lui non esisteva altro tempo. Anando e Nirvano decisero di far costruire nel giardino un corridoio di vetro, in modo che Osho potesse fare un po’ di movimento nel verde, nei giorni in cui non si sentiva bene per il discorso. Si disse d’accordo, anche se io sospetto sapesse che l’avrebbe usato non più di un paio di volte. Ebbero anche l’idea di costruirgli un laboratorio in cui dipingere. Anni prima dipingeva stupendamente, ma poi era diventato allergico all’odore degli inchiostri e dei pennarelli. Il laboratorio si trovava accanto alla sua stanza da letto, lì avrebbe potuto dipingere con pennelli, inchiostri o penne – qualsiasi materiale inodore potessimo trovare. La stanza era di marmo verde e bianco e a lui piaceva moltissimo, anche se era molto piccola; dormì in quella stanza per nove mesi, la chiamava “la mia piccola capanna” – ma la usò solo una volta per dipingere. Un giorno mi chiamò nella sua “capanna.”
Era tempo di monsone, pioveva a dirotto e mi disse: “Così vengono scritti gli Haiku: Meditazione Gocce di pioggia che cadono sul tetto. Queste non sono poesie, sono immagini pittoriche”… poi si sdraiò e si mise a dormire. Decidemmo di costruire anche una piscina e una palestra ultimo modello, con macchine per esercizi fisici automatizzati. In verità, eravamo impegnati nel tentativo di aiutarlo a restare vivo, sperimentando qualsiasi metodo, mentre lui lottava contro il veleno che circolava nel suo corpo. Ci avevano detto che aveva nove anni di vita: questo era il tempo massimo, prima che il veleno facesse il suo effetto. Facemmo arrivare dal Giappone medicinali ritenuti efficacissimi nel risucchiare tossine; provammo bagni speciali e perfino una cintura radioattiva che, con la giusta dose di radiazioni, in Giappone aveva riscosso un certo successo nella cura di moltissime malattie. Amici da tutto il mondo, da un medico alchimista italiano a un famoso scienziato giapponese, inviarono a Osho erbe e medicine da provare. Ma lui diventava sempre più debole. A un certo punto non venne più al discorso del mattino: riceveva sessioni di massaggi. Però non volle rinunciare al discorso serale. Incominciò a soffrire di sincopi e svenimenti, cadeva a terra all’improvviso, il che aumentava la possibilità che si danneggiassero i vasi circolatori, specialmente del cuore. Eravamo costantemente preoccupati (io ero terrorizzata) che Osho cadesse quando non c’era nessuno e si rompesse un osso. Eppure non volevamo intrometterci troppo nel suo spazio standogli sempre accanto. In marzo, quando celebrammo il trentacinquesimo anniversario della sua illuminazione, nella Buddha Hall rifatta, con il tetto che la faceva sembrare una grande astronave, iniziò una nuova serie di discorsi, The Mystic Rose, con i quali ci introdusse a una nuova meditazione e a un nuovo saluto di apertura, stupendoci ancora una volta con la magica spontaneità con cui creava strumenti in grado di aiutare l’evoluzione della nostra consapevolezza. Davamo il benvenuto a Osho, quando entrava e usciva dalla Buddha Hall, alzando le braccia e urlando all’unisono… “Yaa Hu!”. La cosa lo divertiva moltissimo. Ogni notte, quando Osho andava a dormire, gli rimboccavo le coperte prima di spegnere le luci e uscire dalla stanza. Mentre lo facevo, Osho mi guardava con occhi sorridenti e mi diceva: “Yaa Hu! Chetana.”
Durante questa serie di discorsi, l’intera Comune ricevette una bastonata Zen, la cui eco è ancora presente in alcuni di noi. Per diversi giorni, qualcuno aveva disturbato con risatine fuori luogo il suo parlare. Accadde anche quella sera, mentre Osho stava rispondendo a una domanda sul silenzio e sul lasciarsi andare. L’atmosfera era incredibile, ci stavamo innalzando con lui sempre di più, tutti insieme…era uno di quei discorsi nei quali quasi ci si dimentica di respirare e proprio mentre il silenzio e la voce di Osho si espandevano al di là dei limiti dell’immaginabile, qualcuno si mise a ridere istericamente. Osho continuò a parlare, ma le risa aumentavano e altre persone si unirono a quella folle risata. Osho si fermò e disse: “Questo non è più uno scherzo…” ma le risate continuarono. Ci sentimmo tutti sospesi a mezz’aria e il tempo scorreva, Osho guardò la platea e con grande maestà e serenità, appoggiò il suo blocco di appunti, si alzò, salutò tutti a mani giunte e uscì dalla Buddha Hall, dicendo: “Non aspettatemi domani sera.” Non appena si alzò, corsi alla porta per accompagnarlo fino alla sua stanza. Ero in uno stato di shock e quando arrivammo alla sua camera, mi inchinai per cambiargli le scarpe. Volevo scusarmi con lui per quello che era successo, perché sicuramente la mia inconsapevolezza non è diversa da quella degli altri, ma non riuscivo a parlare. Lui mi disse di chiamare Neelam, Anando e il suo dottore, Amrito. Quando arrivarono, Osho era già steso sul letto e da lì parlò con loro per circa due ore. Disse che, poiché non eravamo capaci di ascoltarlo, non aveva senso venire tutte le sere in Buddha Hall. Stava vivendo solo per noi, sopportando dolori lancinanti; era solo per noi che usciva tutte le sere, per parlarci, e se non riuscivamo neanche ad ascoltarlo… Faceva un freddo pazzesco ed era buio, a eccezione di una piccola luce accanto al letto, e Osho sussurrava per cui Neelam, Anando e Amrito dovevano tenere la testa molto vicina alla sua per riuscire a sentirlo. Io ero ai piedi del letto, osservavo la scena ed ero così scioccata da non capire cosa provassi. Ripetevo a me stessa: “Cosa senti?” Ma non lo sapevo. Ero nel buio più completo, non riuscivo a capire cosa mi stesse succedendo. Osho stava dicendo che avrebbe lasciato il corpo e Neelam piangeva. Anando provava a scherzare con lui, ma sembrava non avesse più alcun senso dell’umorismo e questo era un segno molto pericoloso. Finalmente, le mie emozioni eruppero come un’ondata inarrestabile e incominciai a singhiozzare: “No, non te ne puoi andare. Non siamo pronti. Se te ne vai ora, vengo con te.” Vi fu una pausa, lui alzò la testa dal cuscino e mi guardò dritto negli occhi… io piangevo e mi sentivo come il personaggio di una tragedia. Tremavamo tutti dal freddo e piangevamo; poi Neelam disse: “Andiamo, lasciamolo dormire.”
Osho era solito fare degli spuntini durante la notte. Dipendeva da come si sentiva, e in quel periodo ne faceva due o tre per notte. Avere lo stomaco pieno lo aiutava a dormire e una volta ci aveva detto che questa sua abitudine era cominciata quando sua nonna si era presa cura di lui e aveva l’abitudine di dargli sempre dei dolci. Di solito faceva uno spuntino a mezzanotte; mi chiamò per portarglielo e mentre mangiava, seduto sul letto, mi misi a sedere sul pavimento. Aspettavo… ma non mi disse nulla sul fatto che avrebbe lasciato il corpo. Al contrario, mi parlò di altre cose, come se non fosse successo niente e io rimasi molto, ma molto tranquilla, non avevo nessuna intenzione di ricordarglielo. La sera dopo, Osho tornò a parlarci in Buddha Hall e da quella sera l’auditorio non fu più un pubblico, ma un’assemblea di meditatori. La qualità del nostro ascolto era cambiata e ancor oggi, sebbene Osho non sia più nel corpo, quando arrivano persone nuove, avvertono subito quell’atmosfera inusuale, riconoscendone il valore e inserendosi con la stessa facilità con cui ci si infila un guanto di seta. Alcune settimane dopo, alla fine di ogni discorso, Osho incominciò a guidarci in una meditazione che iniziava con qualche minuto di gibberish, una ripetizione di parole senza senso con cui tutti si liberavano della ‘spazzatura’ accumulatasi nella mente. Poi diceva: “Fermatevi e sentite il corpo come fosse congelato,” e noi rimanevamo seduti, immobili come statue. Poi diceva: “Lasciatevi andare,” e noi ci lasciavamo cadere sul pavimento dell’auditorio. Mentre eravamo sdraiati, Osho ci sospingeva delicatamente verso quello spazio silenzioso che un giorno sarebbe diventato la nostra casa, dandoci un assaggio del mondo interiore, dove un giorno risiederemo permanentemente. Poi ci riportava indietro e chiedeva: “Possiamo festeggiare questi diecimila Buddha?”.
Il diamante è la sostanza più dura al mondo e io ho vissuto alcuni dei giorni più duri con Osho quando lui cercò di smantellare il mio condizionamento inconscio di donna. Un condizionamento vecchio di secoli, radicato così profondamente che mi è molto difficile averne distacco e vedere che non mi appartiene. Quando parlo di “condizionamento vecchio di secoli,” intendo dire che la mia mente di donna è stata programmata da mia madre, la sua da sua madre e così via, lungo un percorso che risale alla notte dei tempi. Inoltre, dobbiamo, se non accettare, almeno giocare con l’idea che le nostre menti non sono ‘nuove’: sono una collezione di modelli di pensiero trasmessi attraverso i secoli. Nessuno ha mai dato alle donne tante opportunità di evolversi come individui e di liberarsi dalla schiavitù, come ha fatto Osho. Intorno a lui è sempre esistita una società di tipo matriarcale. Mi è sempre piaciuto ascoltare tutti gli elogi che Osho ha fatto per anni alle donne, durante i suoi discorsi, e ho sentito gli uomini sannyasin lamentarsi spesso di essere nati col sesso sbagliato, in questa vita. Ma all’inizio del 1988, Osho rivolse alle donne un diverso tipo di attenzione. Sembrava che, in tutti gli anni precedenti, avessimo ricevuto tanta compassione perché ne avevamo bisogno. Il condizionamento femminile è più duro da rompere, perché ci siamo lasciate trattare da schiave, e nel profondo le donne hanno ancora quella mentalità. Rispondendo a una domanda di Maneesha, su alcuni discepoli che ricevono un trattamento speciale, Osho disse: “La tua domanda, non è sul trattamento speciale, che poi vuol dire vivere a Lao Tzu e parlare ogni giorno in privato con il Maestro. Se sei consapevole di cosa stai domandando… riesci a vedere la tua gelosia? Vedi il tuo essere donna?”. Continuò spiegando che chiunque lo incontrasse personalmente, lo faceva per lavoro, e non tutti nella Comune potevano fare lo stesso lavoro. Qualcuno gli portava da mangiare, qualcun altro prendeva appunti e gli faceva da segretaria. Spiegò perché Anando era adatta a quel lavoro e Maneesha al suo. Continuò dicendo: “La prima Comune andò distrutta a causa delle gelosie delle donne. Litigavano continuamente. La seconda Comune è andata distrutta a causa delle gelosie delle donne. Questa è la terza Comune – e l’ultima, perché mi sto stancando. Ogni tanto penso che forse Buddha ha avuto ragione a non accettare nessuna donna nella sua Comune, per vent’anni. Non parteggio per lui: sono il primo ad avere accettato uomini e donne allo stesso modo, ad aver dato a entrambi le stesse opportunità di illuminarsi. Però mi sono bruciato le dita due volte, e sempre a causa delle gelosie delle donne. Ma io sono una persona testarda. Dopo due Comuni e immensi sforzi buttati al vento, ho iniziato una terza Comune, e non ho fatto nessun cambiamento – è sempre in mano alle donne. Io voglio che le donne in questa Comune non si comportino come donne. Ma le piccole gelosie…”. (da Hyakujo: The Everest of Zen)
In quei giorni, anch’io dovevo ricevere il mio shock…accadde una sera, quando Osho disse: “Perfino la gente che mi è vicina continua a chiedermi: ‘ Mi vuoi bene, Bhagwan?’. Non posso fare altrimenti. Non dipende dalle vostre qualità, il mio amore è incondizionato. Ma riesco a vedere la povertà del cuore umano. Tutti continuano a chiedere: ‘Hai bisogno di me?’ E se non vi liberate dal desiderio che qualcuno abbia bisogno di voi, non conoscerete mai la libertà, non conoscerete mai l’amore e non conoscerete mai la verità. Ad esempio, Chetana lavora moltissimo, non si ferma mai, si prende cura del mio benessere, eppure continua a chiedere: ‘Mi ami?’ Anche ieri, mentre mi trovavo sulla sedia del dentista, sotto l’effetto del gas anestetizzante, continuava a chiedere: ‘Mi vuoi bene?’ Io ho promesso al mio dentista di non parlare… ma è impossibile. E poiché non le ho risposto ‘ti voglio bene’, la cosa deve averla così infastidita, al punto che si è dimenticata di mettermi l’asciugamano in bagno. Ho dovuto fare il bagno senza asciugamano. Più tardi, quando gliel’ho chiesto, mi ha detto: ‘Mi dispiace’. Ma non è solo la sua situazione. Riguarda ciascuno. E tutto il mio insegnamento consiste nel fatto che dovete essere più rispettosi verso voi stessi. Perdete la vostra dignità quando chiedete queste cose e in particolare a un Maestro, il cui amore vi viene già dato. Perché mendicare? Il mio lavoro qui consiste nel fare di voi degli imperatori. Il giorno, il momento in cui capirete l’incredibile splendore dell’essere presenti, non avrete più bisogno di niente. Voi bastate a voi stessi. Da quella comprensione scaturisce una gioia immensa, ‘Aha! Mio dio! Sono sempre stato qui e stavo cercando da ogni altra parte’.” Non avevo fatto consapevolmente la domanda: “Mi vuoi bene?” Ma il Maestro lavora sull’inconscio. Porta in superficie i desideri inconsci, perché una volta visti e compresi, non hanno più alcuna influenza sulla persona. Questo incidente si riferisce a una serie di sedute dentistiche nelle quali Osho ha lavorato sul mio inconscio, mentre Devageet lavorava sui suoi denti. Mentre Devageet giostrava nella sua bocca, con gli attrezzi in equilibrio precario, Osho parlava in continuazione. Di solito alle sessioni erano presenti anche Amrito, Nitty, Anando, che stava seduta su uno sgabello alla destra di Osho e prendeva appunti, e io seduta alla sua sinistra, accanto a Nitty. Osho, occasionalmente, tirava fuori una mano da sotto la coperta con cui lo coprivamo e dava un buffetto a Nitty o ad Ashu, che a volte assisteva Devageet. Oppure teneva una di loro per mano rendendo difficile il loro lavoro. Ad Anando Osho tirava i bottoni del vestito oppure dava dei colpetti sul chakra del cuore e della gola. Era molto divertente ma di solito, durante queste sedute, non avevo un gran senso dell’umorismo…eccovi un esempio di monologo che avveniva in quelle occasioni: Osho: “Posso sentire i tuoi pensieri… Chetana, non va bene così… Chetana, sii una testimone… Dov’è la mia Anando? (Prendendola per mano)… Chetana deve stare al suo posto. Questa non è la sua mano… Non voglio interferire con la libertà di nessuno…Chetana, mi stai forzando a parlare… Ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa. Lascia cadere il bisogno di essere voluta. Vedo la differenza nella tua mano (mi sta tenendo per mano)…Chetana sii in silenzio, sii una testimone… Lascia la mia mano! (Improvvisamente lascia cadere la mia mano e ritira la sua sotto la coperta.) Stai lì, Chetana, stai lì. Sì, con le tue lacrime. Io sono duro, ma cosa posso farci? Devo essere duro con me stesso. Stai lì senza gelosia… Devageet! (“Sì, Osho”) Chetana mi sta tormentando troppo… Non puoi semplicemente essere, questo è tutto il mio insegnamento: solo ESSERE. (agitando il dito verso di me)…Chetana, la tua funzione è solo essere…Dov’è Chetana? Dammi la mano altrimenti ti perderai…A volte dico delle cose dure che normalmente non dico. Non offenderti e meditaci sopra…Chetana, se vuoi puoi andare a lavorare. Qualsiasi scusa è buona per l’inconscio…Posso sentire un singhiozzo e la porta che si apre e si chiude…Voglio che tu sia qui una volta per tutte. Ma non chiederlo continuamente. Stai qui in silenzio… Sono crudele, non mi importano le conseguenze… Se chiedi di nuovo, Chetana… No! Chetana sta piangendo, ma piangere non aiuta. Riuscite a vedere le mie lacrime per Chetana? Chiedere di essere voluta, questo è quello che deve abbandonare…Che tragedia su questo piccolo palcoscenico, dove eccetto me, nessuno è consapevole… Risate in un teatro vuoto… Le donne sono difficili per quanto riguarda la comprensione… È un compito arduo essere un Maestro… Prendi nota, Anando: Chetana vuole ancora, eppure ha tutto quello che posso darle… (poi incomincia a cercare i bottoni nel vestito di Anando dicendo): Cerco i bottoni… Che cosa è successo ai tuoi bottoni? Prendi nota che cercavo di trovare il bottone, ma non ci riuscivo… Deve essere là… Ti stai nascondendo… Chetana, posso sentire la tua mente… L’eterno bisogno di essere necessaria. Voglio che siate tutti qui per amore, non per bisogno…”.
Sedute come questa duravano ore e, quando i suoi denti richiedevano molto lavoro, potevano anche andare avanti per settimane. Durante questo periodo non dormivo bene, perché la routine di Osho prevedeva uno spuntino ogni due ore, durante la notte. Mi chiamava e io gli portavo uno spuntino, stavo lì mentre mangiava, poi riportavo i piatti in cucina. Quindi tornavo a letto, dormivo un’ora e dovevo rialzarmi per portargli un altro spuntino. Per circa dieci settimane non dormii più di due ore di seguito. Penso che il sonno che normalmente viene conosciuto come R.E.M. fosse disturbato: la necessità di sognare era così forte che sognavo anche prima di dormire. Ho sentito Osho dire che, se una persona dorme otto ore, sei di queste sono piene di sogni. Ero sbalordita nel vedere in che confusione si trovava il mio inconscio. Possono passare giorni e mesi e la vita sembra tranquilla e tutto va bene; poi, all’improvviso, basta un’opportunità che permetta di vedere cosa succede di notte, e ci si rende conto che la mente è completamente folle! Normalmente una persona non è cosciente di tutti i sogni, ma se viene svegliata continuamente nel mezzo di un sogno, riesce a vedere che non sono altro che un incredibile miscuglio di sfogo e liberazione dell’inconscio. Poiché tutto questo processo era stato disturbato, iniziai a sentirmi fragile. Ero a dir poco suscettibile. Guardandomi indietro, mi sembra impossibile che potessi farmi colpire così facilmente, ma Osho sa esattamente dove sono i nostri punti deboli e sa come toccarli. Mi sembra anche impossibile che non riuscissi a capire per niente quello che Osho stava cercando di fare. Il mio ego, il modo in cui funziona la mia mente, erano così trasparenti, così evidenti, come mai non riuscivo a vederlo? Ero arrabbiata, piangevo, ero turbata e chiedevo a Osho perché urlava sempre contro di me. Lui continuava a ripetermi di sedermi in silenzio e osservare me stessa e tutto quello che mi succedeva intorno – ma per me non era abbastanza. Non mi bastava sedermi in silenzio. Mi disse che non urlava a me, urlava al mio inconscio! Non riuscivo a vedere che erano i miei condizionamenti e la mia mente che governavano tutta la mia vita? Mi disse che continuavo a paragonarmi ad Anando, pensando che fosse in una posizione migliore della mia. Disse che Anando stava solo facendo il suo lavoro – e io dovevo fare il mio; ma il mio condizionamento mi diceva che lei riceveva di più. “Non riesci a vederlo?” Mi disse. Continuò dicendo che pensava fosse questo il motivo per cui Buddha non aveva mai permesso alle donne di essere iniziate. Le donne sono sempre state trattate come oggetti e hanno accettato questa condizione. Le donne vogliono che si abbia bisogno di loro e pensano che, se non si ha bisogno di loro, qualcun’altra verrà usata al posto loro, così diventeranno inutili. Disse che il condizionamento di voler essere necessarie è così forte, così profondo, che non è possibile scoprirlo da sole. Qualcuno deve farcelo vedere. Essere bisognose vuol dire essere senza dignità. “È umiliante. Stai da sola.” Disse: “Sii autosufficiente.”
Osho aveva appena finito di cenare mentre avveniva questa conversazione. Io e Anando eravamo sedute per terra, mentre lui era seduto al tavolo da pranzo. Lo guardai e vidi quanto era stanco, e come il suo compito fosse ingrato e senza speranza. Cercava di aiutarmi a svegliarmi e io mi arrabbiavo con lui. Lo guardai ancora; aveva le spalle leggermente curve per la stanchezza; che cosa aveva guadagnato provando ad aiutarmi? Niente! Sembrava così antico, un antico ricercatore con una missione impossibile. La sua compassione è senza fine, la sua pazienza e il suo amore sono vasti come il cielo. Mi misi a piangere e gli toccai i piedi.
Passò un mese e la salute di Osho peggiorò ulteriormente. Molte volte mi disse che non riusciva a credere che il governo americano potesse essere stato così crudele. “Perché non mi hanno ucciso e basta?” disse. Il dolore alle articolazioni aumentava, specialmente alla spalla destra e in entrambe le braccia. “Le mie braccia sono come mutilate,” osservò. Era molto instabile nel camminare e cominciò a passare sempre più tempo a letto. Le sue giornate diventavano sempre più corte. Un giorno si alzò alle cinque di mattina, fece il bagno, poi la colazione e mentre andava dalla sala da pranzo alla stanza da letto vide un orologio su un tavolo e disse: “Oh, le sette di mattina. La mia giornata è terminata. Un altro giorno se ne è andato!” Erano le sette di mattina e per lui era la fine di un altro giorno. Rideva quando chiamavamo i suoi pasti, colazione, pranzo e cena, perché in effetti erano solo spuntini e lui non sapeva che ora del giorno fosse, a meno che non dessimo un nome allo spuntino. Cominciò a dormire sempre più spesso durante il giorno, per cui non lavorava più come prima con Neelam e Anando. Anando e qualche volta Neelam, venivano a parlare con lui mentre pranzava o cenava. Durante questi pasti ha dettato ad Anando un intero libro, che copre la sua intera filosofia: La filosia dell’esistenza – il mondo di Osho. La scena era veramente toccante: Osho seduto al suo tavolino, sotto il quale accavallava le gambe e riposava i piedi su un piccolo sgabello o su un cuscino e Anando o Neelam, sedute a gambe incrociate sul pavimento con il blocco degli appunti e le lettere da leggergli. Tutta una parete della sala da pranzo è di vetro e dà su un roseto che di notte è completamente illuminato. Fu in una di queste occasioni che Osho disse: “Chetana può scrivere un libro,” e mi diede il titolo. I miei giorni di luce con Osho sottotitolo ‘Il nuovo sutra del diamante’. Gli dissi che quando ero diventata sannyasin, gli avevo scritto, dicendogli che gli avrei dato un diamante, e a quel tempo ero rimasta molto perplessa per aver fatto quella promessa, perché sapevo che non avrei mai avuto i soldi per regalargli un diamante. Quando mi diede questo libro da scrivere, non mi resi conto di quale regalo mi stesse facendo, per cui non ho mai potuto ringraziarlo. Non mi diede alcuna indicazione, né mi chiese mai se avevo iniziato a scriverlo. Solo una volta menzionò il libro, in una circostanza molto misteriosa.
Era l’agosto del 1988 e Osho mi chiamò con l’interfono.
Era notte fonda e io corsi, preoccupata che avesse avuto un attacco di
asma. Aprii la porta e vidi che era seduto sul letto, completamente sveglio; la stanza era al buio, fatta eccezione per una lampada accesa sul
comodino. L’aria fredda e il profumo di menta che aleggiava nell’aria
mi svegliarono.
“Porta un blocco per gli appunti,” disse, “ho qualcosa per il tuo libro.”
Ritornai con un blocco e una penna e mi misi a sedere di fianco al
letto, dove poteva vedere quello che stavo scrivendo. Mi dettò la pagina
seguente e mi disse di scrivere i nomi in circolo. Si accertò che
avessi capito bene, poi si sdraiò e si rimise a dormire. Non gli ho mai
fatto domande in merito, né gli ho mai parlato di quella lista di nomi.
L’ho solo messa fra i miei appunti e basta. Non ne ho mai parlato con nessuno e ho sempre pensato che era “per il libro.” È interessante notare
che, malgrado mi abbia parlato di dodici persone, mi diede tredici
nomi. Ma in seguito il nome di Nirvano sarebbe stato eliminato, anche
se allora nessuno lo sapeva.
AMRITO JAYESH
ANANDO AVIRBHAVA
HASYA NITTY
OSHO
CHETANA NIRVANO
DAVID KAVISHA
NEELAM MANEESHA
DEVAGEET
“Dodici possono essere nominati . Il tredicesimo rimane innominato . Questo è stato il mio gruppo segreto . Questo gruppo segreto di tredici . Nel mezzo lo sconosciuto Bhagwan.” Otto mesi dopo Osho formò l’‘Inner Circle’ di cui fanno parte ventuno membri. Il ‘gruppo segreto’ di cui ho parlato sopra non ricevette compiti specifici, è semplicemente rimasto quello che è – un gruppo segreto! Ogni volta che riprendeva a tenere i discorsi, negli intervalli tra le fasi più acute della malattia, Osho appariva molto fragile; avevo la sensazione che si fosse allontanato da noi molti anni-luce. Ma quando incominciava a parlare, acquistava pian piano una forza sempre maggiore. Lo si poteva notare anche dalla sua voce: diventava più sonora e, dopo un paio di giorni, aveva un aspetto completamente differente. Ci aveva sempre detto che parlare a noi lo aiutava a rimanere nel corpo e che il giorno in cui avrebbe smesso di parlare, non avrebbe vissuto molto a lungo. Quando parlava, sembrava così forte che era difficile credere che fosse malato, ma quello era l’unico momento del giorno in cui aveva un po’ di forza. Risparmiava tutta la sua forza per venire a parlarci. Non ho mai sentito Osho fare commenti su un discorso, alla fine; era come se le cose che diceva venissero dal nulla e non gli rimanessero impresse nella memoria. Ma una sera, dopo un discorso, mi chiese se pensavo che avesse chiarito abbastanza un certo argomento. Questo mi obbligò a considerare con attenzione quelle parole: “Sul palcoscenico è solo una recita. Sul palcoscenico avviene solo una rappresentazione. Dietro le quinte c’è silenzio puro. Nulla, riposo, rilassamento. Tutto si è trasformato in totale tranquillità.”
Incominciò a parlare dello Zen, ma più che parlare, avevo la sensazione che preparasse un’atmosfera di silenzio. Si fermava e diceva: “…Questo silenzio…” quasi indicandolo; oppure si fermava e dirigeva la nostra attenzione sui suoni attorno a noi – lo scricchiolio dei bambù, il suono della pioggia, il lamento del vento fra le foglie che cadevano: “Ascoltate…” diceva, e una coltre di silenzio avvolgeva la Buddha Hall. Non potrò mai sapere se Osho scherzava oppure usava una situazione come un espediente, oppure se le cose erano veramente come apparivano. Per esempio, i fantasmi: Osho ha detto molte volte nei suoi discorsi che i fantasmi non esistono, sono solo prodotti delle paure umane. Lui sapeva anche che ero molto affascinata dall’idea dei fantasmi e una volta gli avevo perfino detto che io ho sempre incontrato solo spiriti amichevoli, quindi non ne avevo paura. Era vero, era così che sentivo e, poiché Osho si comportava con sincerità, in qualsiasi situazione, anch’io facevo altrettanto. Lui mi disse che non se ne preoccupava, almeno finché non disturbavano il suo sonno. Ma mi chiamòmolte volte per chiedermi se qualcuno era stato nella sua stanza. Una volta, Osho chiamò Anando e le disse di aver visto una figura passare attraverso la porta, camminare fino ad arrivare davanti al suo letto, e poi andare a mettersi dietro alla sua poltrona, per poi riattraversare la camera, provare a toccargli i piedi, e infine ripassare attraverso la porta e uscire. Disse che stava dormendo tranquillamente e che quello spirito gli aveva disturbato il sonno. Non era sicuro se fosse lo spirito di un morto oppure di qualcuno che aveva un forte desiderio di stare accanto a lui. Pensava potessi essere stata io, visto che camminava come me e il suo corpo era simile al mio. Mentre questo spirito passava attraverso le porte io stavo dormendo; fu un sonno particolarmente ristoratore, mi sentivo metà sveglia e metà addormentata; per cui, quando Anando me lo riferì, pensai che forse ero stata veramente io. Forse il mio desiderio era stato soddisfatto mentre dormivo, ecco perché era stato un sonno così rigeneratore.
La camera di Osho è dietro un piccolo corridoio e vi si accede attraverso una doppia porta a vetri che di solito è chiusa a chiave; inoltre la sua stanza è sempre chiusa a chiave. Da un lato di quel corridoio c’è la stanza di Osho e dall’altro c’è una stanza dove stavo io, quando mi prendevo cura di lui. Diverse volte mi chiamò nella sua stanza e mi disse che aveva sentito qualcuno bussare alla porta. Non sembrava possibile, perché le porte erano sempre chiuse a chiave e nessuno poteva entrare in quel corridoio. Era accaduto per un paio di anni, ma di rado, in tempi più recenti la frequenza aumentò. La prima volta che accadde, chiese a Nirvano di scoprire chi era stato. Erano le due di notte, e Nirvano andò in tutte le stanze della casa e chiese a ognuno di noi se qualcuno si era alzato ed era andato a bussare alla porta di Osho. Nessuno l’aveva fatto e le guardie al cancello non avevano visto entrare nessuno. In seguito, accadde ancora, ma il mistero non venne mai risolto. Il 7 dicembre 1988, quattro giorni prima della Celebrazione per il suo compleanno, Osho si ammalò gravemente. Nirvano e Amrito si prendevano cura di lui e io mi occupavo dei suoi vestiti nella stanza accanto alla sua. La casa sembrava mortalmente tranquilla e buia. Sapevo che era molto malato, ma non sapevo perché, o cosa non andasse. Poi, per una settimana, non ricevetti nulla da lavare, per cui arguii che non si muoveva dal letto, non faceva il bagno e non si cambiava i vestiti. Osho non voleva mai che si sapesse quando era gravemente malato, perché tutti si sarebbero preoccupati e l’energia in tutto l’Ashram sarebbe calata, cosa che non avrebbe aiutato nessuno. Durante quelle settimane fu quasi sul punto di morire.