I miei giorni di luce con Osho: Capitolo Diciottesimo

Libro di Prem Shunyo

«possiamo celebrare questi 10.000 buddha?»

Più di una volta Osho mi ha detto che andare in America aveva distrutto 
il suo lavoro. Non capivo veramente cosa intendesse dire e gli
 rispondevo: “No, almeno adesso sei conosciuto in tutto il mondo. Hai
 smascherato i politicanti di tutte le nazioni, i tuoi sannyasin sono maturati
 e cresciuti moltissimo.” Ma non capivo. Non sapevo che stava per
 morire avvelenato.


Guardando indietro a quegli ultimi tre anni, mi rendo conto dell’immensa 
mole di lavoro che Osho ha dovuto fare per ricreare la stessa intensità
 di energia che avevamo raggiunto, in quanto organismo consapevole, 
nella Comune degli anni ’70.
 Mi ricordo che una volta, durante un periodo di riposo, si alzò per il
 pranzo e mentre ritornava a letto, mi disse che non aveva niente da fare.
 Replicai: “Per essere uno che non ha niente da fare, stai facendo veramente
 tanto. Non hai lavoro? Ci sono migliaia di persone là fuori che 
sentono che stai ‘lavorando’ su di loro. ”
Lui disse: “Questo è vero.”
“Ho visto migliaia di persone, fra la mia gente, cambiare senza neppure
s aperlo; sono cambiate radicalmente, ma la trasformazione è avvenuta 
in maniera sotterranea. La loro mente non vi ha potuto partecipare,
 è stato un contatto cuore a cuore.” (da Beyond Psychology)

So che è vero, perché ho visto moltissime persone totalmente trasformate
 stando vicino ad Osho. Ma a volte non ci rendiamo conto di quanto 
siamo cambiati, per la semplice ragione che viviamo a stretto contatto 
gli uni con gli altri – proprio come un genitore, vedendo il figlio tutti i giorni, non si accorge di quanto stia crescendo. Eppure, talvolta in me si
 crea una distanza, non fisica, bensì frutto della meditazione, e in questo
 spazio sento di toccare i piedi di tutti coloro che sono in viaggio con me.
 Stare con Osho non vuol solo dire tagliare e rifinire costantemente il 
mio diamante interiore; c’erano giorni di pura luce. Giorni in cui ero
 vicina a Osho, facevo piccole cose per lui, come portargli da mangiare,
 lavargli i vestiti o anche solo stargli accanto a osservare la sua vita estremamente
 semplice. Il modo in cui viveva, così totale, in profondo silenzio,
 assolutamente mite. Guardarlo fare cose del tutto ordinarie, come
 piegare un piccolo asciugamano che teneva sempre vicino a sé, mi bastava.
 Ma queste piccole cose non si possono esprimere a parole e quindi,
 il più prezioso fra i diamanti, non potrà mai essere descritto.

La sartoria di Osho era unica. Gayan, Arpita, Asheesh, Sandhya e Veena
 erano costantemente all’opera, perché Osho era esigente e al tempo stesso 
non lo era affatto. In questo campo, più che in altri, era evidente l’incontro
 degli opposti; in verità, era così tranquillo rispetto a ciò che doveva 
indossare, che non sapeva mai in anticipo quale sarebbe stata la prossima 
tunica, neppure quelle più ricercate che indossava durante le celebrazioni.
 Eravamo noi che preparavamo il vestito, il cappello e le calze
a datte e lui li indossava. Tutte le tuniche avevano uno stile ‘spaziale’ e
t alvolta, quando la stoffa era troppo rigida per creare l’effetto voluto 
sulle spalle, il risultato era un vero disastro.
 Ne ricordo una, in particolare: sembrava un’armatura. Osho chiamò 
Gayan nella sua stanza perché si rendesse conto dell’errore. Mancavano
 cinque minuti all’inizio del discorso e io gli dissi che gliene avrei
 portata un’altra.
“No, no, lasciami indossare questa, voglio vedere la reazione della
 gente,” disse ridacchiando. 
In quell’occasione dovetti insistere dicendo che non poteva indossarla.
 Sapevo che tutti si sarebbero messi a ridere, ma a lui non importava.
 Spesso si divertiva a scegliere i tessuti e a volte scartava una tunica 
anche se ne aveva scelto lui la stoffa. Gli replicavo: “Ma l’hai scelta tu 
la stoffa.” Lui rispondeva: “Non posso sapere sempre…”.
C’erano giorni in cui mi diceva: “Portami una tunica da celebrazione…
ogni giorno è una celebrazione.” E poi, una settimana dopo: “Perché
 mi dai sempre queste tuniche così sontuose e dorate? Mi piacciono
 quelle semplici.”

Quando gliene piaceva una, era bellissimo il modo in cui la toccava,
 esclamando tutto contento: “Questa mi piace molto, è semplice e ricca
 al tempo stesso,” e lo faceva ogni volta che la indossava, come se la
 vedesse per la prima volta. Il colore che preferiva era il nero.
 Quando Vivek tornò da un viaggio in Tailandia, Osho le cambiò il nome:
 adesso si chiamava Nirvano – era un nuovo inizio.
 Era tornata con un’intera collezione di orologi luccicanti, in falso oro e
 con falsi diamanti. A Osho piacquero moltissimo e per tutto l’anno successivo
 ne ricevette a decine, perché amava regalarli. Ogni volta che
 sentivamo di qualcuno diretto a Bangkok, gli chiedevamo di tornare con 
alcuni di quegli orologi, così che li potesse regalare.
 A Osho piaceva moltissimo fare regali e li faceva con lo stesso amore,
 che fossero costosi o semplici. Non faceva differenza cosa donasse o a 
chi. A un certo punto costruimmo un armadio, nel quale venivano messe 
tutte le cose da regalare e ogni volta, lui sostava e sceglieva con estrema
 cura cosa dare a chi… spesso mi chiamava mentre era in bagno,
 dava un occhio nel suo armadietto e selezionava uno shampoo, o una
 crema, e mi diceva a chi darlo… talvolta lo faceva pochi minuti prima
 del discorso: mi dava una dozzina di oggetti da regalare e mentre tornavamo
 dall’auditorio mi chiedeva se avessi già distribuito i doni…con
 Osho ogni cosa era fatta ADESSO: per lui non esisteva altro tempo.
 Anando e Nirvano decisero di far costruire nel giardino un corridoio di
 vetro, in modo che Osho potesse fare un po’ di movimento nel verde,
 nei giorni in cui non si sentiva bene per il discorso.
 Si disse d’accordo, anche se io sospetto sapesse che l’avrebbe usato non
 più di un paio di volte.
 Ebbero anche l’idea di costruirgli un laboratorio in cui dipingere. Anni
 prima dipingeva stupendamente, ma poi era diventato allergico all’odore
 degli inchiostri e dei pennarelli.
 Il laboratorio si trovava accanto alla sua stanza da letto, lì avrebbe potuto
 dipingere con pennelli, inchiostri o penne – qualsiasi materiale inodore
 potessimo trovare. La stanza era di marmo verde e bianco e a lui
 piaceva moltissimo, anche se era molto piccola; dormì in quella stanza
 per nove mesi, la chiamava “la mia piccola capanna” – ma la usò solo
 una volta per dipingere.
 Un giorno mi chiamò nella sua “capanna.”

Era tempo di monsone, pioveva a dirotto e mi disse: “Così vengono 
scritti gli Haiku:
 Meditazione
 Gocce di pioggia che cadono sul tetto.
 Queste non sono poesie, sono immagini pittoriche”… poi si sdraiò e si
 mise a dormire.
 Decidemmo di costruire anche una piscina e una palestra ultimo
 modello, con macchine per esercizi fisici automatizzati. In verità, eravamo 
impegnati nel tentativo di aiutarlo a restare vivo, sperimentando
 qualsiasi metodo, mentre lui lottava contro il veleno che circolava
nel suo corpo.
 Ci avevano detto che aveva nove anni di vita: questo era il tempo massimo,
prima che il veleno facesse il suo effetto. Facemmo arrivare dal
 Giappone medicinali ritenuti efficacissimi nel risucchiare tossine; provammo
 bagni speciali e perfino una cintura radioattiva che, con la giusta
 dose di radiazioni, in Giappone aveva riscosso un certo successo 
nella cura di moltissime malattie.
 Amici da tutto il mondo, da un medico alchimista italiano a un famoso 
scienziato giapponese, inviarono a Osho erbe e medicine da provare.
 Ma lui diventava sempre più debole. A un certo punto non venne più al
 discorso del mattino: riceveva sessioni di massaggi. Però non volle
 rinunciare al discorso serale.
 Incominciò a soffrire di sincopi e svenimenti, cadeva a terra all’improvviso,
 il che aumentava la possibilità che si danneggiassero i vasi circolatori,
 specialmente del cuore. Eravamo costantemente preoccupati (io
 ero terrorizzata) che Osho cadesse quando non c’era nessuno e si rompesse 
un osso. Eppure non volevamo intrometterci troppo nel suo spazio 
standogli sempre accanto.
 In marzo, quando celebrammo il trentacinquesimo anniversario della 
sua illuminazione, nella Buddha Hall rifatta, con il tetto che la faceva 
sembrare una grande astronave, iniziò una nuova serie di discorsi, The
 Mystic Rose, con i quali ci introdusse a una nuova meditazione e a un
 nuovo saluto di apertura, stupendoci ancora una volta con la magica 
spontaneità con cui creava strumenti in grado di aiutare l’evoluzione
 della nostra consapevolezza.
 Davamo il benvenuto a Osho, quando entrava e usciva dalla Buddha
Hall, alzando le braccia e urlando all’unisono… “Yaa Hu!”.
La cosa lo divertiva moltissimo. Ogni notte, quando Osho andava a dormire, gli rimboccavo le coperte prima di spegnere le luci e uscire dalla 
stanza. Mentre lo facevo, Osho mi guardava con occhi sorridenti e mi
 diceva: “Yaa Hu! Chetana.”

Durante questa serie di discorsi, l’intera Comune ricevette una bastonata
 Zen, la cui eco è ancora presente in alcuni di noi. Per diversi giorni,
 qualcuno aveva disturbato con risatine fuori luogo il suo parlare.
 Accadde anche quella sera, mentre Osho stava rispondendo a una
 domanda sul silenzio e sul lasciarsi andare. L’atmosfera era incredibile,
 ci stavamo innalzando con lui sempre di più, tutti insieme…era uno
 di quei discorsi nei quali quasi ci si dimentica di respirare e proprio
 mentre il silenzio e la voce di Osho si espandevano al di là dei limiti
 dell’immaginabile, qualcuno si mise a ridere istericamente. Osho continuò
 a parlare, ma le risa aumentavano e altre persone si unirono a quella 
folle risata. Osho si fermò e disse: “Questo non è più uno scherzo…”
ma le risate continuarono. Ci sentimmo tutti sospesi a mezz’aria e il 
tempo scorreva, Osho guardò la platea e con grande maestà e serenità, 
appoggiò il suo blocco di appunti, si alzò, salutò tutti a mani giunte e 
uscì dalla Buddha Hall, dicendo: “Non aspettatemi domani sera.”
 Non appena si alzò, corsi alla porta per accompagnarlo fino alla sua
 stanza. Ero in uno stato di shock e quando arrivammo alla sua camera,
 mi inchinai per cambiargli le scarpe. Volevo scusarmi con lui per quello 
che era successo, perché sicuramente la mia inconsapevolezza non è
 diversa da quella degli altri, ma non riuscivo a parlare. Lui mi disse di
 chiamare Neelam, Anando e il suo dottore, Amrito. Quando arrivarono,
 Osho era già steso sul letto e da lì parlò con loro per circa due ore. Disse
 che, poiché non eravamo capaci di ascoltarlo, non aveva senso venire 
tutte le sere in Buddha Hall. Stava vivendo solo per noi, sopportando 
dolori lancinanti; era solo per noi che usciva tutte le sere, per parlarci,
e se non riuscivamo neanche ad ascoltarlo…
Faceva un freddo pazzesco ed era buio, a eccezione di una piccola luce
 accanto al letto,  e Osho sussurrava per cui Neelam, Anando e Amrito
 dovevano tenere la testa molto vicina alla sua per riuscire a sentirlo. Io
 ero ai piedi del letto, osservavo la scena ed ero così scioccata da non
 capire cosa provassi. Ripetevo a me stessa: “Cosa senti?” Ma non lo 
sapevo. Ero nel buio più completo, non riuscivo a capire cosa mi stesse
 succedendo. Osho stava dicendo che avrebbe lasciato il corpo e Neelam
 piangeva. Anando provava a scherzare con lui, ma sembrava non 
avesse più alcun senso dell’umorismo e questo era un segno molto pericoloso.
 Finalmente, le mie emozioni eruppero come un’ondata inarrestabile e incominciai a singhiozzare: “No, non te ne puoi andare. Non
 siamo pronti. Se te ne vai ora, vengo con te.” Vi fu una pausa, lui alzò
 la testa dal cuscino e mi guardò dritto negli occhi… io piangevo e mi
 sentivo come il personaggio di una tragedia. Tremavamo tutti dal freddo 
e piangevamo; poi Neelam disse: “Andiamo, lasciamolo dormire.”

Osho era solito fare degli spuntini durante la notte. Dipendeva da come
 si sentiva, e in quel periodo ne faceva due o tre per notte. Avere lo stomaco pieno lo aiutava a dormire e una volta ci aveva detto che questa 
sua abitudine era cominciata quando sua nonna si era presa cura di lui
 e aveva l’abitudine di dargli sempre dei dolci.
 Di solito faceva uno spuntino a mezzanotte; mi chiamò per portarglielo 
e mentre mangiava, seduto sul letto, mi misi a sedere sul pavimento.
 Aspettavo… ma non mi disse nulla sul fatto che avrebbe lasciato il 
corpo. Al contrario, mi parlò di altre cose, come se non fosse successo
 niente e io rimasi molto, ma molto tranquilla, non avevo nessuna intenzione
 di ricordarglielo.
La sera dopo, Osho tornò a parlarci in Buddha Hall e da quella sera l’auditorio 
non fu più un pubblico, ma un’assemblea di meditatori. La qualità
 del nostro ascolto era cambiata e ancor oggi, sebbene Osho non sia 
più nel corpo, quando arrivano persone nuove, avvertono subito quell’atmosfera
 inusuale, riconoscendone il valore e inserendosi con la stessa 
facilità con cui ci si infila un guanto di seta.
 Alcune settimane dopo, alla fine di ogni discorso, Osho incominciò a 
guidarci in una meditazione che iniziava con qualche minuto di gibberish,
 una ripetizione di parole senza senso con cui tutti si liberavano 
della ‘spazzatura’ accumulatasi nella mente.
 Poi diceva: “Fermatevi e sentite il corpo come fosse congelato,” e noi
 rimanevamo seduti, immobili come statue.
 Poi diceva: “Lasciatevi andare,” e noi ci lasciavamo cadere sul pavimento
 dell’auditorio. Mentre eravamo sdraiati, Osho ci sospingeva delicatamente
 verso quello spazio silenzioso che un giorno sarebbe diventato 
la nostra casa, dandoci un assaggio del mondo interiore, dove un
 giorno risiederemo permanentemente.
 Poi ci riportava indietro e chiedeva: “Possiamo festeggiare questi diecimila
 Buddha?”.

Il diamante è la sostanza più dura al mondo e io ho vissuto alcuni dei 
giorni più duri con Osho quando lui cercò di smantellare il mio condizionamento 
inconscio di donna. Un condizionamento vecchio di secoli, radicato così profondamente che mi è molto difficile averne distacco
 e vedere che non mi appartiene.
 Quando parlo di “condizionamento vecchio di secoli,” intendo dire che 
la mia mente di donna è stata programmata da mia madre, la sua da sua 
madre e così via, lungo un percorso che risale alla notte dei tempi. Inoltre,
dobbiamo, se non accettare, almeno giocare con l’idea che le nostre 
menti non sono ‘nuove’: sono una collezione di modelli di pensiero trasmessi
 attraverso i secoli. 
Nessuno ha mai dato alle donne tante opportunità di evolversi come
 individui e di liberarsi dalla schiavitù, come ha fatto Osho. Intorno a lui
 è sempre esistita una società di tipo matriarcale.
 Mi è sempre piaciuto ascoltare tutti gli elogi che Osho ha fatto per anni
 alle donne, durante i suoi discorsi, e ho sentito gli uomini sannyasin
 lamentarsi spesso di essere nati col sesso sbagliato, in questa vita. Ma
 all’inizio del 1988, Osho rivolse alle donne un diverso tipo di attenzione.
 Sembrava che, in tutti gli anni precedenti, avessimo ricevuto tanta
 compassione perché ne avevamo bisogno. Il condizionamento femminile
 è più duro da rompere, perché ci siamo lasciate trattare da schiave,
 e nel profondo le donne hanno ancora quella mentalità.
 Rispondendo a una domanda di Maneesha, su alcuni discepoli che ricevono
 un trattamento speciale, Osho disse: “La tua domanda, non è sul
 trattamento speciale, che poi vuol dire vivere a Lao Tzu e parlare ogni
 giorno in privato con il Maestro. Se sei consapevole di cosa stai domandando…
riesci a vedere la tua gelosia? Vedi il tuo essere donna?”.
 Continuò spiegando che chiunque lo incontrasse personalmente, lo faceva
 per lavoro, e non tutti nella Comune potevano fare lo stesso lavoro.
 Qualcuno gli portava da mangiare, qualcun altro prendeva appunti e gli
 faceva da segretaria. Spiegò perché Anando era adatta a quel lavoro e
 Maneesha al suo. Continuò dicendo: “La prima Comune andò distrutta 
a causa delle gelosie delle donne. Litigavano continuamente. La seconda 
Comune è andata distrutta a causa delle gelosie delle donne. Questa
è la terza Comune – e l’ultima, perché mi sto stancando. Ogni tanto
 penso che forse Buddha ha avuto ragione a non accettare nessuna donna
 nella sua Comune, per vent’anni. Non parteggio per lui: sono il primo 
ad avere accettato uomini e donne allo stesso modo, ad aver dato a 
entrambi le stesse opportunità di illuminarsi. Però mi sono bruciato le
 dita due volte, e sempre a causa delle gelosie delle donne.
 Ma io sono una persona testarda. Dopo due Comuni e immensi sforzi
 buttati al vento, ho iniziato una terza Comune, e non ho fatto nessun cambiamento – è sempre in mano alle donne. Io voglio che le donne
 in questa Comune non si comportino come donne. Ma le piccole gelosie…”.
(da Hyakujo: The Everest of Zen)

In quei giorni, anch’io dovevo ricevere il mio shock…accadde una sera,
 quando Osho disse: “Perfino la gente che mi è vicina continua a chiedermi:
‘ Mi vuoi bene, Bhagwan?’.
Non posso fare altrimenti. Non dipende dalle vostre qualità, il mio amore
 è incondizionato. Ma riesco a vedere la povertà del cuore umano. Tutti
 continuano a chiedere: ‘Hai bisogno di me?’ E se non vi liberate dal
 desiderio che qualcuno abbia bisogno di voi, non conoscerete mai la libertà, non conoscerete mai l’amore e non conoscerete mai la verità.
 Ad esempio, Chetana lavora moltissimo, non si ferma mai, si prende
 cura del mio benessere, eppure continua a chiedere: ‘Mi ami?’ Anche
 ieri, mentre mi trovavo sulla sedia del dentista, sotto l’effetto del gas 
anestetizzante, continuava a chiedere: ‘Mi vuoi bene?’ Io ho promesso
 al mio dentista di non parlare… ma è impossibile.
 E poiché non le ho risposto ‘ti voglio bene’, la cosa deve averla così
 infastidita, al punto che si è dimenticata di mettermi l’asciugamano in 
bagno. Ho dovuto fare il bagno senza asciugamano. Più tardi, quando
 gliel’ho chiesto, mi ha detto: ‘Mi dispiace’.
 Ma non è solo la sua situazione. Riguarda ciascuno. E tutto il mio insegnamento consiste nel fatto che dovete essere più rispettosi verso voi 
stessi. Perdete la vostra dignità quando chiedete queste cose e in particolare
 a un Maestro, il cui amore vi viene già dato. Perché mendicare?
 Il mio lavoro qui consiste nel fare di voi degli imperatori.
 Il giorno, il momento in cui capirete l’incredibile splendore dell’essere
 presenti, non avrete più bisogno di niente. Voi bastate a voi stessi. Da
 quella comprensione scaturisce una gioia immensa, ‘Aha! Mio dio!
 Sono sempre stato qui e stavo cercando da ogni altra parte’.”
 Non avevo fatto consapevolmente la domanda: “Mi vuoi bene?” Ma
 il Maestro lavora sull’inconscio. Porta in superficie i desideri inconsci,
 perché una volta visti e compresi, non hanno più alcuna influenza
 sulla persona.
 Questo incidente si riferisce a una serie di sedute dentistiche nelle
 quali Osho ha lavorato sul mio inconscio, mentre Devageet lavorava 
sui suoi denti.
 Mentre Devageet giostrava nella sua bocca, con gli attrezzi in equilibrio precario, Osho parlava in continuazione. Di solito alle sessioni
 erano presenti anche Amrito, Nitty, Anando, che stava seduta su uno 
sgabello alla destra di Osho e prendeva appunti, e io seduta alla sua sinistra,
 accanto a Nitty. Osho, occasionalmente, tirava fuori una mano da 
sotto la coperta con cui lo coprivamo e dava un buffetto a Nitty o ad
 Ashu, che a volte assisteva Devageet. Oppure teneva una di loro per
 mano rendendo difficile il loro lavoro. Ad Anando Osho tirava i bottoni
 del vestito oppure dava dei colpetti sul chakra del cuore e della gola.
 Era molto divertente ma di solito, durante queste sedute, non avevo un
 gran senso dell’umorismo…eccovi un esempio di monologo che avveniva 
in quelle occasioni: 
Osho: “Posso sentire i tuoi pensieri… Chetana, non va bene così…
Chetana, sii una testimone… Dov’è la mia Anando? (Prendendola per
 mano)… Chetana deve stare al suo posto. Questa non è la sua mano…
Non voglio interferire con la libertà di nessuno…Chetana, mi stai forzando 
a parlare… Ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa. 
Lascia cadere il bisogno di essere voluta. Vedo la differenza nella tua 
mano (mi sta tenendo per mano)…Chetana sii in silenzio, sii una testimone…
Lascia la mia mano! (Improvvisamente lascia cadere la mia
 mano e ritira la sua sotto la coperta.) Stai lì, Chetana, stai lì. Sì, con le
 tue lacrime. Io sono duro, ma cosa posso farci? Devo essere duro con
 me stesso. Stai lì senza gelosia… Devageet! (“Sì, Osho”) Chetana mi 
sta tormentando troppo… Non puoi semplicemente essere, questo è
tutto il mio insegnamento: solo ESSERE. (agitando il dito verso di
 me)…Chetana, la tua funzione è solo essere…Dov’è Chetana? Dammi
 la mano altrimenti ti perderai…A volte dico delle cose dure che normalmente
 non dico. Non offenderti e meditaci sopra…Chetana, se vuoi
 puoi andare a lavorare. Qualsiasi scusa è buona per l’inconscio…Posso 
sentire un singhiozzo e la porta che si apre e si chiude…Voglio che tu 
sia qui una volta per tutte. Ma non chiederlo continuamente. Stai qui
 in silenzio… Sono crudele, non mi importano le conseguenze… Se
 chiedi di nuovo, Chetana… No! Chetana sta piangendo, ma piangere
 non aiuta. Riuscite a vedere le mie lacrime per Chetana? Chiedere di
 essere voluta, questo è quello che deve abbandonare…Che tragedia su
 questo piccolo palcoscenico, dove eccetto me, nessuno è consapevole…
Risate in un teatro vuoto… Le donne sono difficili per quanto
 riguarda la comprensione… È un compito arduo essere un Maestro…
Prendi nota, Anando: Chetana vuole ancora, eppure ha tutto quello che
 posso darle… (poi incomincia a cercare i bottoni nel vestito di Anando dicendo): Cerco i bottoni… Che cosa è successo ai tuoi bottoni?
 Prendi nota che cercavo di trovare il bottone, ma non ci riuscivo…
Deve essere là… Ti stai nascondendo… Chetana, posso sentire la tua
 mente… L’eterno bisogno di essere necessaria. Voglio che siate tutti
 qui per amore, non per bisogno…”.

Sedute come questa duravano ore e, quando i suoi denti richiedevano
 molto lavoro, potevano anche andare avanti per settimane. Durante questo 
periodo non dormivo bene, perché la routine di Osho prevedeva uno 
spuntino ogni due ore, durante la notte. Mi chiamava e io gli portavo 
uno spuntino, stavo lì mentre mangiava, poi riportavo i piatti in cucina.
 Quindi tornavo a letto, dormivo un’ora e dovevo rialzarmi per portargli
 un altro spuntino. Per circa dieci settimane non dormii più di due ore
 di seguito. Penso che il sonno che normalmente viene conosciuto come
 R.E.M. fosse disturbato: la necessità di sognare era così forte che sognavo
 anche prima di dormire. Ho sentito Osho dire che, se una persona
 dorme otto ore, sei di queste sono piene di sogni.
 Ero sbalordita nel vedere in che confusione si trovava il mio inconscio.
 Possono passare giorni e mesi e la vita sembra tranquilla e tutto va
 bene; poi, all’improvviso, basta un’opportunità che permetta di vedere
 cosa succede di notte, e ci si rende conto che la mente è completamente 
folle! Normalmente una persona non è cosciente di tutti i sogni,
 ma se viene svegliata continuamente nel mezzo di un sogno, riesce a
 vedere che non sono altro che un incredibile miscuglio di sfogo e liberazione 
dell’inconscio.
 Poiché tutto questo processo era stato disturbato, iniziai a sentirmi fragile.
 Ero a dir poco suscettibile. Guardandomi indietro, mi sembra 
impossibile che potessi farmi colpire così facilmente, ma Osho sa esattamente
 dove sono i nostri punti deboli e sa come toccarli. Mi sembra
 anche impossibile che non riuscissi a capire per niente quello che Osho 
stava cercando di fare. Il mio ego, il modo in cui funziona la mia mente,
 erano così trasparenti, così evidenti, come mai non riuscivo a vederlo?
 Ero arrabbiata, piangevo, ero turbata e chiedevo a Osho perché urlava
 sempre contro di me. Lui continuava a ripetermi di sedermi in silenzio
 e osservare me stessa e tutto quello che mi succedeva intorno –
ma per me non era abbastanza. Non mi bastava sedermi in silenzio.
 Mi disse che non urlava a me, urlava al mio inconscio! Non riuscivo
 a vedere che erano i miei condizionamenti e la mia mente che governavano 
tutta la mia vita? Mi disse che continuavo a paragonarmi ad
 Anando, pensando che fosse in una posizione migliore della mia. Disse che Anando stava solo facendo il suo lavoro – e io dovevo fare il mio;
 ma il mio condizionamento mi diceva che lei riceveva di più. “Non 
riesci a vederlo?” Mi disse.
 Continuò dicendo che pensava fosse questo il motivo per cui Buddha
 non aveva mai permesso alle donne di essere iniziate. Le donne sono
 sempre state trattate come oggetti e hanno accettato questa condizione.
 Le donne vogliono che si abbia bisogno di loro e pensano che, se non 
si ha bisogno di loro, qualcun’altra verrà usata al posto loro, così diventeranno 
inutili. Disse che il condizionamento di voler essere necessarie
è così forte, così profondo, che non è possibile scoprirlo da sole. Qualcuno
 deve farcelo vedere. Essere bisognose vuol dire essere senza dignità.
 “È umiliante. Stai da sola.” Disse: “Sii autosufficiente.”

Osho aveva appena finito di cenare mentre avveniva questa conversazione.
 Io e Anando eravamo sedute per terra, mentre lui era seduto al tavolo da pranzo. Lo guardai e vidi quanto era stanco, e come il suo 
compito fosse ingrato e senza speranza. Cercava di aiutarmi a svegliarmi
 e io mi arrabbiavo con lui. Lo guardai ancora; aveva le spalle leggermente
 curve per la stanchezza; che cosa aveva guadagnato provando 
ad aiutarmi? Niente! Sembrava così antico, un antico ricercatore con 
una missione impossibile. La sua compassione è senza fine, la sua 
pazienza e il suo amore sono vasti come il cielo.
 Mi misi a piangere e gli toccai i piedi.

Passò un mese e la salute di Osho peggiorò ulteriormente. Molte volte
 mi disse che non riusciva a credere che il governo americano potesse 
essere stato così crudele.
“Perché non mi hanno ucciso e basta?” disse.
 Il dolore alle articolazioni aumentava, specialmente alla spalla destra e 
in entrambe le braccia.
“Le mie braccia sono come mutilate,” osservò. Era molto instabile nel
 camminare e cominciò a passare sempre più tempo a letto. Le sue giornate
 diventavano sempre più corte. Un giorno si alzò alle cinque di mattina,
 fece il bagno, poi la colazione e mentre andava dalla sala da pranzo 
alla stanza da letto vide un orologio su un tavolo e disse: “Oh, le sette
 di mattina. La mia giornata è terminata. Un altro giorno se ne è andato!”
 Erano le sette di mattina e per lui era la fine di un altro giorno.
 Rideva quando chiamavamo i suoi pasti, colazione, pranzo e cena, perché
 in effetti erano solo spuntini e lui non sapeva che ora del giorno
 fosse, a meno che non dessimo un nome allo spuntino.
Cominciò a dormire sempre più spesso durante il giorno, per cui non lavorava più come prima con Neelam e Anando. Anando e qualche volta
 Neelam, venivano a parlare con lui mentre pranzava o cenava. Durante
 questi pasti ha dettato ad Anando un intero libro, che copre la sua 
intera filosofia: La filosia dell’esistenza – il mondo di Osho.
 La scena era veramente toccante: Osho seduto al suo tavolino, sotto il
 quale accavallava le gambe e riposava i piedi su un piccolo sgabello o
 su un cuscino e Anando o Neelam, sedute a gambe incrociate sul pavimento
 con il blocco degli appunti e le lettere da leggergli. Tutta una 
parete della sala da pranzo è di vetro e dà su un roseto che di notte è 
completamente illuminato.
 Fu in una di queste occasioni che Osho disse: “Chetana può scrivere
 un libro,” e mi diede il titolo. I miei giorni di luce con Osho sottotitolo
 ‘Il nuovo sutra del diamante’. Gli dissi che quando ero diventata
 sannyasin, gli avevo scritto, dicendogli che gli avrei dato un diamante, 
e a quel tempo ero rimasta molto perplessa per aver fatto quella
 promessa, perché sapevo che non avrei mai avuto i soldi per regalargli
 un diamante.
 Quando mi diede questo libro da scrivere, non mi resi conto di quale 
regalo mi stesse facendo, per cui non ho mai potuto ringraziarlo.
 Non mi diede alcuna indicazione, né mi chiese mai se avevo iniziato
 a scriverlo. Solo una volta menzionò il libro, in una circostanza molto 
misteriosa.

Era l’agosto del 1988 e Osho mi chiamò con l’interfono.
 Era notte fonda e io corsi, preoccupata che avesse avuto un attacco di
 asma. Aprii la porta e vidi che era seduto sul letto, completamente sveglio; la stanza era al buio, fatta eccezione per una lampada accesa sul
 comodino. L’aria fredda e il profumo di menta che aleggiava nell’aria 
mi svegliarono.
 “Porta un blocco per gli appunti,” disse, “ho qualcosa per il tuo libro.”
Ritornai con un blocco e una penna e mi misi a sedere di fianco al
letto, dove poteva vedere quello che stavo scrivendo. Mi dettò la pagina
 seguente e mi disse di scrivere i nomi in circolo. Si accertò che
 avessi capito bene, poi si sdraiò e si rimise a dormire. Non gli ho mai
 fatto domande in merito, né gli ho mai parlato di quella lista di nomi.
 L’ho solo messa fra i miei appunti e basta. Non ne ho mai parlato con nessuno e ho sempre pensato che era “per il libro.” È interessante notare
 che, malgrado mi abbia parlato di dodici persone, mi diede tredici
 nomi. Ma in seguito il nome di Nirvano sarebbe stato eliminato, anche
 se allora nessuno lo sapeva.
AMRITO        JAYESH
         ANANDO             AVIRBHAVA
            HASYA                 NITTY
                 OSHO
           CHETANA                 NIRVANO
        DAVID                          KAVISHA
        NEELAM                 MANEESHA
        DEVAGEET

“Dodici possono essere nominati
. Il tredicesimo rimane innominato
. Questo è stato il mio gruppo segreto
. Questo gruppo segreto di tredici
. Nel mezzo lo sconosciuto Bhagwan.”
Otto mesi dopo Osho formò l’‘Inner Circle’ di cui fanno parte ventuno
 membri. Il ‘gruppo segreto’ di cui ho parlato sopra non ricevette compiti
 specifici, è semplicemente rimasto quello che è – un gruppo segreto!
 Ogni volta che riprendeva a tenere i discorsi, negli intervalli tra le 
fasi più acute della malattia, Osho appariva molto fragile; avevo la 
sensazione che si fosse allontanato da noi molti anni-luce. Ma quando 
incominciava a parlare, acquistava pian piano una forza sempre
 maggiore. Lo si poteva notare anche dalla sua voce: diventava più
 sonora e, dopo un paio di giorni, aveva un aspetto completamente differente.
 Ci aveva sempre detto che parlare a noi lo aiutava a rimanere 
nel corpo e che il giorno in cui avrebbe smesso di parlare, non 
avrebbe vissuto molto a lungo.
 Quando parlava, sembrava così forte che era difficile credere che fosse 
malato, ma quello era l’unico momento del giorno in cui aveva un po’
di forza. Risparmiava tutta la sua forza per venire a parlarci.
 Non ho mai sentito Osho fare commenti su un discorso, alla fine; era 
come se le cose che diceva venissero dal nulla e non gli rimanessero 
impresse nella memoria. Ma una sera, dopo un discorso, mi chiese se pensavo che avesse chiarito abbastanza un certo argomento. Questo mi
 obbligò a considerare con attenzione quelle parole: 
“Sul palcoscenico è solo una recita.
 Sul palcoscenico avviene solo una rappresentazione.
 Dietro le quinte c’è silenzio puro.
 Nulla, riposo, rilassamento.
 Tutto si è trasformato in totale tranquillità.”

Incominciò a parlare dello Zen, ma più che parlare, avevo la sensazione
 che preparasse un’atmosfera di silenzio. Si fermava e diceva:
“…Questo silenzio…” quasi indicandolo; oppure si fermava e dirigeva 
la nostra attenzione sui suoni attorno a noi – lo scricchiolio dei bambù, 
il suono della pioggia, il lamento del vento fra le foglie che cadevano:
 “Ascoltate…” diceva, e una coltre di silenzio avvolgeva la Buddha Hall.
 Non potrò mai sapere se Osho scherzava oppure usava una situazione 
come un espediente, oppure se le cose erano veramente come apparivano.
 Per esempio, i fantasmi: Osho ha detto molte volte nei suoi discorsi 
che i fantasmi non esistono, sono solo prodotti delle paure umane.
 Lui sapeva anche che ero molto affascinata dall’idea dei fantasmi e una 
volta gli avevo perfino detto che io ho sempre incontrato solo spiriti
 amichevoli, quindi non ne avevo paura. Era vero, era così che sentivo
 e, poiché Osho si comportava con sincerità, in qualsiasi situazione,
 anch’io facevo altrettanto. Lui mi disse che non se ne preoccupava,
 almeno finché non disturbavano il suo sonno. Ma mi chiamòmolte volte 
per chiedermi se qualcuno era stato nella sua stanza.
 Una volta, Osho chiamò Anando e le disse di aver visto una figura passare
 attraverso la porta, camminare fino ad arrivare davanti al suo letto, 
e poi andare a mettersi dietro alla sua poltrona,  per poi riattraversare la
camera, provare a toccargli i piedi, e infine ripassare attraverso la porta 
e uscire. Disse che stava dormendo tranquillamente e che quello spirito
 gli aveva disturbato il sonno. Non era sicuro se fosse lo spirito di un 
morto oppure di qualcuno che aveva un forte desiderio di stare accanto
 a lui. Pensava potessi essere stata io, visto che camminava come me 
e il suo corpo era simile al mio. Mentre questo spirito passava attraverso 
le porte io stavo dormendo; fu un sonno particolarmente ristoratore,
 mi sentivo metà sveglia e metà addormentata; per cui, quando Anando
 me lo riferì, pensai che forse ero stata veramente io. Forse il mio desiderio
era stato soddisfatto mentre dormivo, ecco perché era stato un 
sonno così rigeneratore.

La camera di Osho è dietro un piccolo corridoio e vi si accede attraverso
 una doppia porta a vetri che di solito è chiusa a chiave; inoltre la sua 
stanza è sempre chiusa a chiave. Da un lato di quel corridoio c’è la stanza
di Osho e dall’altro c’è una stanza dove stavo io, quando mi prendevo 
cura di lui. Diverse volte mi chiamò nella sua stanza e mi disse che
 aveva sentito qualcuno bussare alla porta. Non sembrava possibile, perché 
le porte erano sempre chiuse a chiave e nessuno poteva entrare in
 quel corridoio. Era accaduto per un paio di anni, ma di rado, in tempi
 più recenti la frequenza aumentò.
 La prima volta che accadde, chiese a Nirvano di scoprire chi era stato.
 Erano le due di notte, e Nirvano andò in tutte le stanze della casa e chiese 
a ognuno di noi se qualcuno si era alzato ed era andato a bussare alla porta di Osho. Nessuno l’aveva fatto e le guardie al cancello non avevano
 visto entrare nessuno. In seguito, accadde ancora, ma il mistero 
non venne mai risolto.
Il 7 dicembre 1988, quattro giorni prima della Celebrazione per il suo 
compleanno, Osho si ammalò gravemente. Nirvano e Amrito si prendevano 
cura di lui e io mi occupavo dei suoi vestiti nella stanza accanto 
alla sua. La casa sembrava mortalmente tranquilla e buia. Sapevo che
era molto malato, ma non sapevo perché, o cosa non andasse. Poi, per 
una settimana, non ricevetti nulla da lavare, per cui arguii che non si
 muoveva dal letto, non faceva il bagno e non si cambiava i vestiti.
 Osho non voleva mai che si sapesse quando era gravemente malato, perché
 tutti si sarebbero preoccupati e l’energia in tutto l’Ashram sarebbe
 calata, cosa che non avrebbe aiutato nessuno.
 Durante quelle settimane fu quasi sul punto di morire.

Pubblicato in I miei giorni di luce con Osho.