Libro di Prem Shunyo
Diagnosi: avvelenamento da Tallio
Eraclito dice: “Non si può entrare nello stesso fiume due volte.”
E Osho dice: “Non si può entrare nello stesso fiume neppure una volta.” Pertanto non esiste una seconda Pune.
Quando arrivai a Pune all’inizio di gennaio del 1987, mi sentivo invecchiata di cento anni, se non di più. Avevo vissuto molte vite,molte morti; ero stata in giardini pieni di fiori e li avevo visti distrutti.
Eppure, Osho continuava… provava ancora a portarci lungo quel cammino, verso ciò che lui chiama il diritto di nascita di ogni essere umano: l’illuminazione.
Fu durante questo periodo di tre anni, dal 1987 al 1990, che Osho parlò l’equivalente di quarantotto libri, un’impresa grandiosa, considerando che per un terzo del tempo fu ammalato.
Dopo quattro mesi trascorsi a Bombay, decise di tornare a Pune, nel glorioso Koregaon Park. Quando arrivò, verso le quattro di mattina del 4 gennaio, la strada che attraversava l’Ashram straripava di sannyasin in attesa di salutarlo. Lui era sdraiato sul sedile posteriore della macchina, addormentato. Si svegliò e salutò tutti senza alzarsi, ancora avvolto nelle coperte; sembrava un bambino che era stato svegliato nel cuore della notte. Tre ore più tardi arrivò la polizia con un mandato che gli impediva l’entrata nella città di Pune. Se glielo avessero consegnato prima di arrivare in città, avrebbe commesso un reato, entrandoci. Ma era partito da Bombay di notte, per evitare il caldo e il traffico e la polizia si accorse in ritardo della sua presenza.
Quando arrivarono all’Ashram, vollero andare in Lao Tzu e salire nella stanza dove Osho stava ancora dormendo. Nessuno era mai entrato nella sua stanza, mentre dormiva, e per tutti noi era un’incredibile intrusione, un vero e proprio insulto. Io, Vivek, Rafia e Milarepa, pur essendo in cima alla scala che portava alla camera di Osho, essendo stranieri, ci tenemmo in disparte, mentre Laxmi e Neelam parlavano con la polizia. Dalle scale, potemmo sentire delle urla che provenivano dalla stanza di Osho: era la sua voce. Quelle urla proseguirono per una decina di minuti, poi Vivek entrò nella stanza e chiese ai poliziotti se volevano una tazza di tè! Vivek ci disse poi che le sembrarono subito sollevati, di certo non credevano che quell’incontro sarebbe stato così intenso, ed erano contenti di poter avere una scusa per tirarsi fuori da quella situazione. Nel discorso del 10 gennaio, Osho raccontò pubblicamente ciò che era successo: “Ero a Bombay. Il presidente di un potente partito politico ha scritto una lettera a un ministro e me ne ha mandata una copia. Nella lettera diceva che la mia presenza a Bombay avrebbe inquinato l’atmosfera. Ho commentato: ‘Mio Dio, come si fa a inquinare Bombay? La città più sporca del mondo…’. Sono stato lì quattro mesi, ma non sono uscito neppure una volta, non ho neppure guardato fuori dalla finestra. Sono rimasto in una stanza completamente chiusa – eppure, l’odore…un vero e proprio cesso! Questa è Bombay. …In seguito sono state fatte pressioni sul sannyasin che mi ha ospitato per quattro mesi: se non andavo via dal suo appartamento, avrebbero bruciato lui, la sua casa e la sua famiglia insieme a me. Talvolta mi chiedo se devo piangere o ridere. Sono partito da Bombay sabato notte e la mattina seguente, la casa in cui ero stato ospitato, è stata circondata da quindici poliziotti armati. …Sono arrivato a Pune alle quattro di mattina e dopo tre ore la polizia era qui! Stavo dormendo, ho aperto gli occhi e ho visto due poliziotti nella mia stanza. Mi sono detto: ‘Non sogno mai, soprattutto non ho mai degli incubi. Come hanno fatto questi cretini a entrare? ’Ho chiesto: ‘Avete un mandato di perquisizione?’ Non ce l’avevano. ‘Allora come mai siete entrati in camera mia?’ Mi risposero: ‘Dobbiamo consegnarti un’ingiunzione.’ Delle volte mi chiedo se la gente dorme, mentre parla. È questo il modo di presentare un’ingiunzione? È questo il modo di essere al servizio della popolazione? Tutti costoro sono al servizio della popolazione! Li paghiamo anche! Dovrebbero comportarsi come servitori… ma si comportano da padroni. Ho detto loro: ‘Non ho commesso alcun reato. Ho solo dormito tre ore, è forse un crimine?’ Uno di loro ha risposto: ‘Tu sei una persona controversa e il questore pensa che la tua presenza potrebbe scatenare violenze in città.’ …E riguardo all’ingiunzione… dissi loro: …‘Leggetela. Qual è il mio crimine? Il crimine è che sono una persona controversa. Ma ditemi, è mai esistito un uomo intelligente che non sia stato controverso? Essere una persona controversa non è un crimine. In effetti, l’intera evoluzione della consapevolezza umana si fonda su persone controverse: Socrate, Gesù, Gautama il Buddha, Mahavira, Bodhidharma, Zarathustra. Ma sono stati fortunati, perché nessuno di loro è mai stato a Pune.’ Il poliziotto ha reagito in malo modo. Ero sdraiato sul letto e lui mi ha tirato il foglio in faccia! Non posso tollerare un comportamento così disumano. L’ho immediatamente strappato, l’ho buttato via, poi ho detto ai poliziotti: ‘Andate a riferirlo al questore.’ Lo so che non si dovrebbe strappare un’ingiunzione governativa. Ma ci sono dei limiti! Prima di tutto, la legge deve comportarsi con umanità e rispetto nei confronti degli esseri umani. Solo allora può aspettarsi rispetto dagli altri.” (da The Messiah, Volume primo)
Il questore si rifiutò di annullare l’ordine, ma lasciò che pendesse nell’aria come una spada di Damocle, stabilendo con l’Ashram alcune condizioni: si trattava di vere e proprie ‘norme’ di comportamento. In tutto erano quattordici, alcune di queste regole arrivavano a stabilire il contenuto e la lunghezza dei discorsi di Osho: non poteva parlare contro le religioni, né dire nulla di provocatorio. Inoltre, solo cento stranieri potevano vivere nell’Ashram e solo mille visitatori potevano entrarci, e il nome di ogni straniero doveva essere registrato dalla polizia. Le condizioni stabilivano anche quante meditazioni al giorno si potevano tenere e quanto lunghe dovevano essere; e che la polizia aveva il diritto di entrare nell’Ashram in qualsiasi momento e avrebbe dovuto essere presente ai discorsi. Osho rispose a queste condizioni con un ruggito da leone. Fu un discorso infuocato: “È questa la libertà per cui migliaia di persone sono morte?… Questo è un tempio di Dio. Nessuno può dirci che non possiamo meditare più di un’ora. Io parlerò contro tutte le religioni perché sono false – non sono vere religioni. E se lui (il questore) è così intelligente da provare il contrario, è il benvenuto. Noi non crediamo nelle nazioni, non crediamo negli stati. Per noi nessuno è uno straniero.” E sul fatto che la polizia voleva avere il diritto di entrare nell’Ashram fu categorico: “Questo è un tempio di Dio, voi dovrete accettare le nostre condizioni.” (da The Messiah)
Osho disse anche che, se il questore e i due poliziotti che erano entrati nella sua stanza non venivano sospesi dalle loro attività, li avrebbe citati in tribunale. Nelle settimane successive la tensione non si allentò. Ci sentivamo assediati. Vilas Tupe, l’uomo che nel 1980 aveva tentato di assassinare Osho tirandogli un coltello, dichiarò alla stampa: “Non lasceremo che Osho viva qui in pace.” Pretendeva che lo arrestassero per motivi di sicurezza nazionale e minacciò di assaltare l’Ashram con duecento membri della sua organizzazione (induisti dell’EktaAndolan), addestrati in judo e karatè, per rapire Osho. Anche il governo ci minacciò e arrivò a piazzare delle ruspe fuori dall’Ashram, pronte a raderlo al suolo. Io avevo una preoccupazione in più, in quanto temevo che la polizia mi annullasse il visto e mi deportasse. Per molte notti non riuscii a dormire, perché la polizia aveva minacciato di invadere l’Ashram. Avevamo in stanza un campanello d’allarme e ognuno, nel caso, aveva una porta o una finestra da sorvegliare. Di fatto, la polizia venne due volte di notte e molte volte di giorno, ma non entrarono più in casa di Osho. Dopo mesi di lotte in tribunale, condotte dai nostri avvocati sannyasin e da un coraggioso avvocato indiano, Ram Jethmalani, pian piano le pressioni della polizia cessarono e Vilas Tupe fu diffidato dall’entrare nella zona di Koregaon Park, dove si trova l’Ashram. Il sindaco di Pune presentò a Osho scuse ufficiali e aiutò a prevenire ogni azione della squadra demolizioni inviata dal governo. Nei due anni seguenti, i consolati indiani di tutto il mondo crearono problemi ai sannyasin e rifiutavano il visto, se sospettavano che qualcuno stava andando in India per vedere Osho. Molti sannyasin vennero fermati all’aeroporto di Bombay e immediatamente rispediti nei loro paesi d’origine, senza nessuna spiegazione. Tuttavia, malgrado ogni possibile deterrente, il governo indiano non riuscì affatto ad arginare l’ondata di sannyasin in visita che in breve divenne una marea gigantesca.
Sembrava che la guerra fosse finita. Ancora una volta potevamo incominciare a vivere in silenzio con il nostro Maestro. Poi Osho incominciò a danzare. Danzava con noi quando entrava in Chuang Tzu, l’auditorio in cui teneva ora due discorsi ogni giorno, e quando usciva. La musica era selvaggia e io sentivo l’energia piovermi addosso, e colpirmi come se d’improvviso fosse diventata di fuoco; mi ritrovavo a urlare a Osho parole senza senso, prive di significato e al tempo stesso dense e liberatorie… dovevo urlare qualcosa, perché l’energia era troppo forte da contenere. Subito dopo, iniziarono gli esercizi di stop: Osho ci faceva danzare freneticamente e all’improvviso fermava le braccia a mezz’aria e noi ci congelavamo. Durante questi stop, di solito guardava qualcuno negli occhi per tutto il tempo; ricevere quello sguardo, era un vero e proprio rispecchiarsi nella qualità del vuoto interiore; era un’esperienza molto potente. Quel periodo mi ricordava molto gli energy darshan della prima Pune, e sentivo che Osho lavorava moltissimo per ricostruire la forza energetica di allora. Con tristezza, al nostro ritorno a Pune, avevamo visto la decadenza che pian piano aveva intaccato l’antico Ashram: il piccolo gruppo di persone che vi aveva vissuto in quegli anni, non aveva curato molto né le case né i giardini. In quei mesi, i presenti costituivano un gruppo molto variopinto, privo di quell’aria viva e vibrante che di solito circonda i sannyasin. C’erano alcuni hippies di Goa – occidentali in viaggio per l’India che venivano a visitare l’Ashram solo per curiosità – alcuni nuovi sannyasin e alcuni vecchi sannyasin a pezzi. Durante le prime settimane, osservavo Osho danzare con noi nell’auditorio, con una totalità e una forza al di là di qualunque cosa noi potessimo dargli in cambio. Stava caricando di energia l’atmosfera e teneva discorsi infuocati; compresi che stava ricominciando da capo. Stava ricominciando da zero con tutti noi. Qualunque tipo di magia stesse creando, funzionò. Iniziarono ad arrivare sannyasin da ogni parte del mondo. Dapprima titubanti, poi sempre più sicuri… gli ultimi anni erano stati una dura lezione per tutti, e molti si erano ricostruiti una propria vita nel mondo – casa, macchina, lavoro – ed erano riluttanti a lasciare tutto di nuovo. La decisione tuttavia divenne per molti una scelta naturale e spontanea: abbandonarono semplicemente tutto e arrivarono all’Ashram, vulnerabili e con gli o cchi colmi di meraviglia. Alla fine di febbraio l’Ashram era in ebollizione: la pentola era sul fuoco! Ma tutti eravamo consapevoli che non si trattava affatto di una fuga dal mondo, anzi… Osho insisteva nel dirci che il mondo era sull’orlo di un baratro; lo disse esplicitamente, commentando ‘il Profeta’: “…Kahlil Gibran non ha mai provato a realizzare i suoi sogni. Io ci ho provato e mi sono bruciato le dita. Andando in giro per ilmondo, ho visto con assoluta chiarezza che l’umanità è arrivata in un vicolo cieco. Non ha senso sperare qualcosa da questa umanità. Forse alcune persone possono salvarsi e per loro creerò un’arca di Noé (di consapevolezza), sapendo perfettamente che quando l’Arca sarà pronta forse non ci sarà più nessuno da salvare. Magari se ne saranno andati via tutti, ciascuno per conto suo.”
Nel libro The Razor’s Edge Osho ha indicato cinque ragioni per le quali la fine del mondo è imminente:
1. Armamenti nucleari 2. Sovrappopolazione 3. AIDS 4. Disastri ecologici 5. Discriminazioni religiose, razziali e nazionali.
Diceva che il mondo ha bisogno di duecento illuminati. “Ma dove le troviamo queste duecento persone? Devono essere qui fra voi. Devono nascere fra di voi – voi dovete diventare queste duecento persone. E la vostra crescita è talmente lenta… ci sono tutti i presupposti per aver paura che il mondo finisca prima che vi illuminiate. Non state mettendo tutta la vostra energia nella meditazione, nella consapevolezza. È una tra le tante cose che fate, non è nemmeno una priorità nella vostra vita. Voglio che sia la vostra priorità assoluta. E l’unico modo per cui possa accadere, è sottolinearvi con forza che il mondo finirà tra breve, in modo che si imprima profondamente nella vostra consapevolezza. Su di voi grava una responsabilità immensa, perché in nessun’altra parte del mondo qualcuno sta provando, neppure in piccoli gruppi, a raggiungere l’illuminazione, a essere meditativo, amorevole, gioioso. Noi siamo un’isola molto piccola nell’oceano del mondo, ma non importa. Se alcune persone possono essere salvate, l’intera eredità dell’umanità, l’eredità di tutti i mistici, di tutti coloro che si sono risvegliati, può essere salvata tramite voi.”
Erano parole difficili da digerire.
E Sarjano chiese a Osho: “Perché sotto sotto ridacchio nel mio cuore, ogni volta che ti sento usare il mondo intero come un espediente per farci crescere, e al tempo stesso usi noi, quale espediente per il mondo intero?”. Osho: “Sarjano, dovrai smettere di ridere in cuor tuo…questo non è un espediente! Non c’è più tempo per nessun espediente. Il tuo ridacchiare è semplicemente una razionalizzazione: non vuoi credere che il mondo finirà presto, perché non vuoi cambiare. Vuoi che ti dica che è solo un espediente, in questo modo ti puoi rilassare – rilassarti nel tuo modello di vita statico. Ma non posso mentirti. Quando uso qualcosa come espediente, te lo dico con chiarezza. Ma questo non lo è, né per trasformare il mondo attraverso voi, né per cambiare voi tramite il mondo. Sto semplicemente affermando una triste realtà. Il tuo ridacchiare non è altro che il tuo sforzo per cancellare l’impatto che sto cercando di creare. Ridi di qualunque altra cosa, ma non della tua trasformazione. Questo ridacchiare non è altro che il tuo inconscio che prova a imbrogliarti, dicendoti che qualcosa accadrà, per cui non occorre preoccuparsi. Siamo arrivati alla fine della strada e voglio che entri profondamente dentro il tuo essere. Fatta eccezione per la danza e la celebrazione, non è rimasto null’altro. E perché accada ADESSO, sto distruggendo completamente il domani. Te lo sto portando via dalla mente, che è profondamente persa nel futuro… L’illuminazione non è altro che la tua consapevolezza concentrata su un singolo punto – qui e ora. La mia enfasi sull’assenza di futuro, non ha niente a che vedere con la depressione; ha a che vedere con te. E se puoi abbandonare completamente l’idea del futuro, la tua illuminazione diventa immediatamente possibile. E abbandonare l’idea del futuro è un’ottima opportunità, perché il futuro stesso sta per svanire. Ma non trattenere, nemmeno in un angolo buio della tua mente, il pensiero che forse anche questo è un espediente: sono le strategie della mente per farti rimanere il vecchio zombi che sei.” (da The Hidden Splendor)
Di pari passo con questi discorsi sconvolgenti sulla situazione del pianeta, Osho raccontava barzellette e scherzava. Non ci permise mai di prendere la vita troppo seriamente – con sincerità sì, ma non seriamente.
Ci fu un periodo in cui scherzava molto con Anando; insieme giocavano ai fantasmi! Iniziò Osho che, uscendo dall’auditorio per tornare in camera sua, doveva attraversare la stanza in cui viveva Anando che spesso ascoltava il discorso stando nella vasca da bagno, con tanto di coperte e cuscini. Accadeva, perché l’auditorio di Chuang Tzu, di capienza limitata, era diventato così affollato, che dovemmo adottare un sistema di rotazioni; pertanto, a volte, lei si metteva lì, essendo il bagno contiguo all’auditorio. Osho sapeva che si era addormentata… e si divertiva a bussare alla porta, per sentirla gridare. Una volta Anando si nascose in un armadio del bagno nel quale aveva fatto costruire un finto muro. Quando Osho attraversò la sua camera, lei sporse una mano e gli fece un cenno di saluto dal bagno, ma quando lui entrò, il bagno era vuoto. Allora lui aprì l’armadio spingendo la falsa parete fino a farla crollare, smascherando Anando e un gruppetto di persone, fra risate e strilli di sorpresa. Questi giochi mi divertivano molto, perché mi ricordavano le storie che Osho ci aveva raccontato di scherzi che si divertiva a fare ad amici e conoscenti, quando era giovane. Ovviamente, gli piaceva anche che qualcuno facesse scherzi a lui e Anando era la persona giusta. Un giorno lei costruì un manichino e lo mise in corridoio seduto su una sedia, con le gambe accavallate e un giornale in mano, in modo che Osho, andando verso l’auditorio lo vedesse. Non ho mai visto nulla che potesse stupire Osho, e in questa occasione non fu diverso. Per anni aveva attraversato quel corridoio, per raggiungere Chuang Tzu, e noi avevamo sempre fatto in modo che non incontrasse mai nessuno. Eppure quella mattina, quando vide un perfetto sconosciuto seduto lì, a leggere il giornale, come se fosse nel soggiorno di casa sua, Osho non battè ciglio. Si mise a ridere e si avvicinò a quello strano personaggio per guardarlo da vicino. Ma il gioco andò avanti. In quei giorni Osho prendeva in giro Anando nei suoi discorsi, perché sosteneva che un fantasma continuava a bussare alla sua porta e la svegliava nel cuore della notte. E una volta, nel bel mezzo della notte, Osho mi chiamò e mi disse di farle uno scherzo: avrei dovuto bussare alla sua porta, aprirla lentamente e poi spingere dentro quel manichino vestito da uomo, su una sedia a rotelle. Fu un successo… i miei colpi alla porta l’avevano svegliata, e quando guardò verso di noi, ancora mezza addormentata e vide entrare qualcuno, fiocamente illuminato dalla luce del corridoio che produceva strane ombre sul manichino, nell’oscurità non riconobbe la propria creazione e si mise a urlare.
“Così giocoso, così innocente, così non-serio, così vivo è l’approccio dello Zen” – Osho.
Quando mi prendevo cura di Osho, ero sempre molto tranquilla, presa da meraviglia. “Silenziosa,” diceva Osho. Molto raramente avevo notizie o pettegolezzi da raccontargli e quando mi chiedeva cosa stava succedendo nel mondo, non avevo molto da dirgli, perché il mio mondo consisteva in quale albero stesse mettendo nuove foglie oppure se l’uccello del paradiso quel giorno era venuto a trovarci o no. Anando aveva i piedi per terra ed era molto allegra con lui. Gli dava tutte le notizie su ciò che avveniva fuori e dentro l’Ashram. Un giorno li ascoltai mentre parlavano di politica; la sua capacità di capire la politica indiana era davvero impressionante, e conosceva tutti i nomi, tutti i partiti. Lei e Osho chiacchieravano come due vecchi amici che avevano gli stessi alleati e avversari. Credo che Anando e io ci bilanciamo benissimo. Vivek sembrava racchiudere in sé entrambe le personalità e il suo rapporto con Osho è sempre stato un mistero per me, perché sembrava molto antico. Nei tre anni che seguirono, andò via molte volte, ma ogni volta, quando ritornava, Osho le dava il benvenuto e immediatamente le offriva la possibilità di prendersi cura di lui, oppure di rilassarsi e non fare niente. La sua libertà di fare qualsiasi cosa volesse nell’Ashram, non è mai stata messa in discussione. Era un’eccezione che faceva solo per lei. In questo periodo ci prendemmo cura di Osho lavorando come un team. Non era più un lavoro per una persona sola, a causa della sua debolezza e della sua salute precaria. Swami Amrito, il medico di Osho, sebbene fosse inglese e fosse un uomo, si era inserito perfettamente nel gruppo, perché stava diventando sempre più ricettivo, una qualità femminile, e al tempo stesso era lucido e non si lasciava prendere dalle emozioni. In lui non ho mai visto un no, o un’esitazione nei riguardi di Osho, che molte volte lo ha descritto come un uomo molto umile.
Osho iniziò ad avere problemi con i denti, per cui, dovette sottoporsi a diverse sedute alle quali fui presente anch’io. Durante una di queste sessioni, mi disse: “Smettila di chiacchierare, stai in silenzio!” Non capivo che cosa intendesse, visto che ero seduta nel silenzio più assoluto che io conoscessi. Pensavo di essere in meditazione, ma la meditazione era una dimensione nuova per me, per cui non ero mai sicura se fosse vera, oppure una mia immaginazione. Bastava un piccolo dubbio, per farmi dire: “Oh, all’inferno con questa roba,” e smettevo perfino di provarci. Per esperienza, posso dire che la meditazione è uno stato molto fragile e vulnerabile, per cui è facile che insorgano pensieri come: “È tutta spazzatura.” All’inizio è così e io sono stata “all’inizio” per molti anni. Per cui, anche se pensavo di essere in meditazione, quando Osho diceva: “Chetana, smettila di chiacchierare, stai zitta,” andavo in confusione e mi arrabbiavo. Mi diceva che la mia mente continuava a parlare senza sosta, e questo lo disturbava, ma io non capivo cosa intendesse dire. La cosa andò avanti per più di una settimana; ogni giorno chiudevo gli occhi e provavo ad andare sempre più profondamente dentro di me, nello sforzo di raggiungere quello spazio in cui ciò che Osho diceva non mi avrebbe più dato fastidio. Per il resto della giornata mi sentivo rilassata, ma all’avvicinarsi della seduta, divenivo tesa. Ero veramente indispettita, arrabbiata e sconvolta, e un giorno lui disse agli altri: “Vedete Chetana, quanto è arrabbiata con me?”. Pensavo: “Perché ce l’ha con me? Tutti gli altri hanno trasceso la mente? Tutti gli altri sono in silenzio?” Ecco cosa mi mandava in collera: ero l’unica fra i presenti che non riusciva a meditare. Proprio io, che avevo avuto tante esperienze magiche. Passarono due settimane e lui continuava a dire che chiacchieravo, che facevo troppo rumore… alla fine, mi disse di sedermi dall’altro lato della sedia. E, nel corso della seduta, Osho si voltò verso lo spazio che avevo lasciato vuoto e disse: “Stai zitta, smettila di chiacchierare!”. Finalmente, al termine della seduta, mi disse che non ero io ad averlo disturbato in quei giorni: in quel punto c’era un fantasma. Disse che a volte uno spirito o un fantasma può usare il corpo di qualcun altro e io ero un tramite molto ricettivo. Mi aveva usata per chiacchierare. “Ma non dirlo alle cuoche (la cucina era nella stanza accanto), altrimenti si impauriranno e non verranno più a lavorare.” A quel punto mi ricordai che in quella stessa stanza, e proprio in quello stesso punto, anni prima venivo posseduta dal latihan. Penso che gli spiriti, come i sogni, non devono essere presi seriamente. Sono solo un altro colore dell’arcobaleno, un’altra dimensione di cui a volte diventiamo consapevoli. Quando realizzo che il mio mondo interiore è ancora un territorio inesplorato e la meditazione è un ‘lavoro a tempo pieno’, capisco perché Osho non enfatizzi il mondo esoterico e gli spiriti. Potrei perdermi molto facilmente in quel mondo che, per quanto misterioso, rimane s empre al di fuori di me. Non mi aiuta a crescere in consapevolezza. Certo, è sicuro che esistano altre dimensioni, che raramente possono essere viste e non possono essere spiegate. I pensieri per esempio. Di cosa sono fatti? Com’è possibile leggere i pensieri delle persone, se i pensieri non sono una cosa materiale?
Un giorno, rimasi chiusa a chiave nel bagno di Anando e mi misi a chiedere aiuto: Osho si svegliò e, sebbene fosse impossibile che avesse sentito la mia voce, più tardi mi chiese cos’ era successo a quell’ora e perché stavo chiamando aiuto. Osho ha detto che nella nostra mente ci sono persino pensieri di cui non siamo a conoscenza. Nell’autunno del 1987, per la prima volta da quando ero con lui, Osho incominciò a tenere discorsi in manieramolto discontinua.Alcune volte era troppo debole per venire a parlarci. Aveva forti dolori alle articolazioni che gli impedivano di fare qualsiasi cosa; riusciva solo a stare a letto tutto il giorno. Ho visto Osho in situazioni che mostravano il suo completo distacco dal dolore; per esempio, tenere un discorso di due ore dopo l’estrazione di un dente. Oppure, in un’altra occasione, quando dopo un massaggio con Anubuddha, uno dei massaggiatori dell’Ashram, il dottore gli dovette fare un’iniezione all’articolazione della spalla. Io e Anubuddha eravamo seduti per terra e parlavamo con Osho. Il dottore preparò la difficile iniezione, ma non riusciva a trovare il punto esatto fra le ossa, per cui provò diverse volte. Ogni volta che l’ago entrava, io e Anubuddha sussultavamo, mentre Osho continuava a parlare, restando estremamente rilassato; vedevo che il suo respiro non si alterava minimamente, e così il suo viso. Osho spiegò ad Anubuddha che un illuminato in effetti è molto più sensibile al dolore, ma al tempo stesso può sperimentare di esserne separato. Non l’ho mai visto preoccupato o avere paura, e so per esperienza personale che è sempre la paura psicologica del dolore – il non sapere cosa sia – che mi indebolisce. Nel novembre del 1987, Osho incominciò a soffrire per quella che normalmente sarebbe stata una semplice infezione alle orecchie, ma che richiese quasi due mesi e mezzo di cure intensive, ripetute e fastidiose iniezioni di antibiotici e persino un intervento di chirurgia locale da parte di uno specialista di Pune. Fu in quel periodo che i suoi dottori iniziarono a prendere in considerazione la possibilità che fosse stato avvelenato… per quanto incredibile potesse sembrare questa ipotesi. Alcuni campioni di sangue, di capelli e di urina, unite a numerose radiografie e alla sua storia medica, vennero inviati a Londra, per essere esaminati da patologi e da esperti. Dopo aver fatto le analisi più accurate e minuziose, essi dissero che, a loro avviso, i sintomi dei quali Osho aveva sofferto fin dai giorni che avevano seguito l’arresto e la successiva incarcerazione da parte del governo americano, potevano essere provocati solo da un avvelenamento con un metallo pesante quale, per esempio, il tallio.