I miei giorni di luce con Osho: Capitolo Diciassettesimo

Libro di Prem Shunyo

Diagnosi: avvelenamento da Tallio

Eraclito dice: “Non si può entrare nello stesso fiume due volte.”

E Osho dice: “Non si può entrare nello stesso fiume neppure una volta.”
Pertanto non esiste una seconda Pune.

Quando arrivai a Pune all’inizio di gennaio del 1987, mi sentivo invecchiata
 di cento anni, se non di più. Avevo vissuto molte vite,molte morti;
 ero stata in giardini pieni di fiori e li avevo visti distrutti.

Eppure, Osho continuava… provava ancora a portarci lungo quel cammino,
verso ciò che lui chiama il diritto di nascita di ogni essere umano:
 l’illuminazione.

Fu durante questo periodo di tre anni, dal 1987 al 1990, che Osho parlò 
l’equivalente di quarantotto libri, un’impresa grandiosa, considerando
 che per un terzo del tempo fu ammalato.


Dopo quattro mesi trascorsi a Bombay, decise di tornare a Pune, nel glorioso
 Koregaon Park. Quando arrivò, verso le quattro di mattina del 4 
gennaio, la strada che attraversava l’Ashram straripava di sannyasin in
 attesa di salutarlo. Lui era sdraiato sul sedile posteriore della macchina,
 addormentato. Si svegliò e salutò tutti senza alzarsi, ancora avvolto nelle 
coperte; sembrava un bambino che era stato svegliato nel cuore della notte.
 Tre ore più tardi arrivò la polizia con un mandato che gli impediva l’entrata 
nella città di Pune. Se glielo avessero consegnato prima di arrivare 
in città, avrebbe commesso un reato, entrandoci. Ma era partito da
 Bombay di notte, per evitare il caldo e il traffico e la polizia si accorse 
in ritardo della sua presenza.

Quando arrivarono all’Ashram, vollero andare in Lao Tzu e salire nella
stanza dove Osho stava ancora dormendo. Nessuno era mai entrato nella 
sua stanza, mentre dormiva, e per tutti noi era un’incredibile intrusione,
un vero e proprio insulto.
 Io, Vivek, Rafia e Milarepa, pur essendo in cima alla scala che portava 
alla camera di Osho, essendo stranieri, ci tenemmo in disparte, mentre
 Laxmi e Neelam parlavano con la polizia. Dalle scale, potemmo sentire
 delle urla che provenivano dalla stanza di Osho: era la sua voce. Quelle 
urla proseguirono per una decina di minuti, poi Vivek entrò nella stanza 
e chiese ai poliziotti se volevano una tazza di tè! Vivek ci disse poi
 che le sembrarono subito sollevati, di certo non credevano che quell’incontro
 sarebbe stato così intenso, ed erano contenti di poter avere una
 scusa per tirarsi fuori da quella situazione.
 Nel discorso del 10 gennaio, Osho raccontò pubblicamente ciò che
 era successo: “Ero a Bombay. Il presidente di un potente partito politico
 ha scritto una lettera a un ministro e me ne ha mandata una copia.
 Nella lettera diceva che la mia presenza a Bombay avrebbe inquinato
 l’atmosfera.
 Ho commentato: ‘Mio Dio, come si fa a inquinare Bombay? La città
 più sporca del mondo…’. Sono stato lì quattro mesi, ma non sono uscito 
neppure una volta, non ho neppure guardato fuori dalla finestra. Sono 
rimasto in una stanza completamente chiusa – eppure, l’odore…un vero
 e proprio cesso! Questa è Bombay.
…In seguito sono state fatte pressioni sul sannyasin che mi ha ospitato 
per quattro mesi: se non andavo via dal suo appartamento, avrebbero 
bruciato lui, la sua casa e la sua famiglia insieme a me.
 Talvolta mi chiedo se devo piangere o ridere.
 Sono partito da Bombay sabato notte e la mattina seguente, la casa in
 cui ero stato ospitato, è stata circondata da quindici poliziotti armati.
…Sono arrivato a Pune alle quattro di mattina e dopo tre ore la polizia
 era qui! Stavo dormendo, ho aperto gli occhi e ho visto due poliziotti
 nella mia stanza.
 Mi sono detto: ‘Non sogno mai, soprattutto non ho mai degli incubi.
 Come hanno fatto questi cretini a entrare? ’Ho chiesto: ‘Avete un mandato 
di perquisizione?’ Non ce l’avevano. ‘Allora come mai siete entrati 
in camera mia?’
 Mi risposero: ‘Dobbiamo consegnarti un’ingiunzione.’
 Delle volte mi chiedo se la gente dorme, mentre parla.
 È questo il modo di presentare un’ingiunzione? È questo il modo di essere al servizio della popolazione? Tutti costoro sono al servizio della
popolazione! Li paghiamo anche! Dovrebbero comportarsi come servitori…
ma si comportano da padroni.
 Ho detto loro: ‘Non ho commesso alcun reato. Ho solo dormito tre ore,
 è forse un crimine?’
 Uno di loro ha risposto: ‘Tu sei una persona controversa e il questore 
pensa che la tua presenza potrebbe scatenare violenze in città.’
…E riguardo all’ingiunzione… dissi loro: …‘Leggetela. Qual è il mio 
crimine? Il crimine è che sono una persona controversa. Ma ditemi, è
 mai esistito un uomo intelligente che non sia stato controverso? Essere 
una persona controversa non è un crimine. In effetti, l’intera evoluzione
 della consapevolezza umana si fonda su persone controverse: Socrate,
 Gesù, Gautama il Buddha, Mahavira, Bodhidharma, Zarathustra. Ma
 sono stati fortunati, perché nessuno di loro è mai stato a Pune.’ 
Il poliziotto ha reagito in malo modo. Ero sdraiato sul letto e lui mi ha 
tirato il foglio in faccia! Non posso tollerare un comportamento così
 disumano. L’ho immediatamente strappato, l’ho buttato via, poi ho detto
 ai poliziotti:  ‘Andate a riferirlo al questore.’ 
Lo so che non si dovrebbe strappare un’ingiunzione governativa. Ma ci
 sono dei limiti! Prima di tutto, la legge deve comportarsi con umanità
 e rispetto nei confronti degli esseri umani. Solo allora può aspettarsi 
rispetto dagli altri.” (da The Messiah, Volume primo)

Il questore si rifiutò di annullare l’ordine, ma lasciò che pendesse nell’aria
 come una spada di Damocle, stabilendo con l’Ashram alcune
 condizioni: si trattava di vere e proprie ‘norme’ di comportamento. In 
tutto erano quattordici, alcune di queste regole arrivavano a stabilire il
 contenuto e la lunghezza dei discorsi di Osho: non poteva parlare contro
le religioni, né dire nulla di provocatorio. Inoltre, solo cento stranieri
 potevano vivere nell’Ashram e solo mille visitatori potevano 
entrarci, e il nome di ogni straniero doveva essere registrato dalla polizia.
 Le condizioni stabilivano anche quante meditazioni al giorno si 
potevano tenere e quanto lunghe dovevano essere; e che la polizia
 aveva il diritto di entrare nell’Ashram in qualsiasi momento e avrebbe
 dovuto essere presente ai discorsi. Osho rispose a queste condizioni con un ruggito da leone. Fu un
 discorso infuocato: “È questa la libertà per cui migliaia di persone 
sono morte?…
Questo è un tempio di Dio. Nessuno può dirci che non possiamo meditare
 più di un’ora. Io parlerò contro tutte le religioni perché sono false – non sono vere 
religioni. E se lui (il questore) è così intelligente da provare il contrario,
 è il benvenuto. 
Noi non crediamo nelle nazioni, non crediamo negli stati. Per noi nessuno
è uno straniero.”
 E sul fatto che la polizia voleva avere il diritto di entrare nell’Ashram
 fu categorico: “Questo è un tempio di Dio, voi dovrete accettare le nostre 
condizioni.” (da The Messiah)

Osho disse anche che, se il questore e i due poliziotti che erano entrati
 nella sua stanza non venivano sospesi dalle loro attività, li avrebbe 
citati in tribunale. 
Nelle settimane successive la tensione non si allentò. Ci sentivamo assediati.
 Vilas Tupe, l’uomo che nel 1980 aveva tentato di assassinare Osho 
tirandogli un coltello, dichiarò alla stampa: “Non lasceremo che Osho 
viva qui in pace.” Pretendeva che lo arrestassero per motivi di sicurezza 
nazionale e minacciò di assaltare l’Ashram con duecento membri
 della sua organizzazione (induisti dell’EktaAndolan), addestrati in judo 
e karatè, per rapire Osho. Anche il governo ci minacciò e arrivò a piazzare
 delle ruspe fuori dall’Ashram, pronte a raderlo al suolo.
 Io avevo una preoccupazione in più, in quanto temevo che la polizia mi
 annullasse il visto e mi deportasse. Per molte notti non riuscii a dormire, 
perché la polizia aveva minacciato di invadere l’Ashram. Avevamo 
in stanza un campanello d’allarme e ognuno, nel caso, aveva una porta
 o una finestra da sorvegliare. Di fatto, la polizia venne due volte di notte
 e molte volte di giorno, ma non entrarono più in casa di Osho.
 Dopo mesi di lotte in tribunale, condotte dai nostri avvocati sannyasin
e da un coraggioso avvocato indiano, Ram Jethmalani, pian piano le
 pressioni della polizia cessarono e Vilas Tupe fu diffidato dall’entrare 
nella zona di Koregaon Park, dove si trova l’Ashram.
 Il sindaco di Pune presentò a Osho scuse ufficiali e aiutò a prevenire
 ogni azione della squadra demolizioni inviata dal governo. Nei due anni
 seguenti, i consolati indiani di tutto il mondo crearono problemi ai sannyasin
 e rifiutavano il visto, se sospettavano che qualcuno stava andando 
in India per vedere Osho. Molti sannyasin vennero fermati all’aeroporto
di Bombay e immediatamente rispediti nei loro paesi d’origine,
 senza nessuna spiegazione. Tuttavia, malgrado ogni possibile deterrente,
il governo indiano non riuscì affatto ad arginare l’ondata di sannyasin
 in visita che in breve divenne una marea gigantesca.

Sembrava che la guerra fosse finita. Ancora una volta potevamo incominciare
 a vivere in silenzio con il nostro Maestro.
 Poi Osho incominciò a danzare. Danzava con noi quando entrava in
 Chuang Tzu, l’auditorio in cui teneva ora due discorsi ogni giorno, e
 quando usciva. La musica era selvaggia e io sentivo l’energia piovermi
 addosso, e colpirmi come se d’improvviso fosse diventata di fuoco; mi 
ritrovavo a urlare a Osho parole senza senso, prive di significato e al 
tempo stesso dense e liberatorie… dovevo urlare qualcosa, perché
l’energia era troppo forte da contenere.
 Subito dopo, iniziarono gli esercizi di stop: Osho ci faceva danzare 
freneticamente e all’improvviso fermava le braccia a mezz’aria e noi
 ci congelavamo. Durante questi stop, di solito guardava qualcuno 
negli occhi per tutto il tempo; ricevere quello sguardo, era un vero e
 proprio rispecchiarsi nella qualità del vuoto interiore; era un’esperienza 
molto potente. 
Quel periodo mi ricordava molto gli energy darshan della prima Pune,
e sentivo che Osho lavorava moltissimo per ricostruire la forza energetica
 di allora.
 Con tristezza, al nostro ritorno a Pune, avevamo visto la decadenza
 che pian piano aveva intaccato l’antico Ashram: il piccolo gruppo di 
persone che vi aveva vissuto in quegli anni, non aveva curato molto
 né le case né i giardini.
 In quei mesi, i presenti costituivano un gruppo molto variopinto, privo 
di quell’aria viva e vibrante che di solito circonda i sannyasin. C’erano 
alcuni hippies di Goa – occidentali in viaggio per l’India che venivano 
a visitare l’Ashram solo per curiosità – alcuni nuovi sannyasin e
 alcuni vecchi sannyasin a pezzi.
 Durante le prime settimane, osservavo Osho danzare con noi nell’auditorio,
 con una totalità e una forza al di là di qualunque cosa noi potessimo
 dargli in cambio. Stava caricando di energia l’atmosfera e teneva 
discorsi infuocati; compresi che stava ricominciando da capo. Stava
 ricominciando da zero con tutti noi.
 Qualunque tipo di magia stesse creando, funzionò. Iniziarono ad arrivare
 sannyasin da ogni parte del mondo. Dapprima titubanti, poi sempre
 più sicuri… gli ultimi anni erano stati una dura lezione per tutti, e
 molti si erano ricostruiti una propria vita nel mondo – casa, macchina,
 lavoro – ed erano riluttanti a lasciare tutto di nuovo. La decisione tuttavia
 divenne per molti una scelta naturale e spontanea: abbandonarono semplicemente tutto e arrivarono all’Ashram, vulnerabili e con gli
o cchi colmi di meraviglia.
 Alla fine di febbraio l’Ashram era in ebollizione: la pentola era sul
 fuoco! Ma tutti eravamo consapevoli che non si trattava affatto di una 
fuga dal mondo, anzi… Osho insisteva nel dirci che il mondo era sull’orlo
 di un baratro; lo disse esplicitamente, commentando ‘il Profeta’:
“…Kahlil Gibran non ha mai provato a realizzare i suoi sogni. Io ci ho 
provato e mi sono bruciato le dita.
 Andando in giro per ilmondo, ho visto con assoluta chiarezza che l’umanità
 è arrivata in un vicolo cieco. Non ha senso sperare qualcosa da questa
 umanità. Forse alcune persone possono salvarsi e per loro creerò
 un’arca di Noé (di consapevolezza), sapendo perfettamente che quando
l’Arca sarà pronta forse non ci sarà più nessuno da salvare. Magari
 se ne saranno andati via tutti, ciascuno per conto suo.”

Nel libro The Razor’s Edge Osho ha indicato cinque ragioni per le quali 
la fine del mondo è imminente:

1. Armamenti nucleari
 2. Sovrappopolazione
 3. AIDS
 4. Disastri ecologici
 5. Discriminazioni religiose, razziali e nazionali.

Diceva che il mondo ha bisogno di duecento illuminati. “Ma dove le
 troviamo queste duecento persone? Devono essere qui fra voi. Devono 
nascere fra di voi – voi dovete diventare queste duecento persone. E la
vostra crescita è talmente lenta… ci sono tutti i presupposti per aver
 paura che il mondo finisca prima che vi illuminiate. Non state mettendo 
tutta la vostra energia nella meditazione, nella consapevolezza. È una
 tra le tante cose che fate, non è nemmeno una priorità nella vostra vita.
 Voglio che sia la vostra priorità assoluta. E l’unico modo per cui possa 
accadere, è sottolinearvi con forza che il mondo finirà tra breve, in modo 
che si imprima profondamente nella vostra consapevolezza.
 Su di voi grava una responsabilità immensa, perché in nessun’altra parte
 del mondo qualcuno sta provando, neppure in piccoli gruppi, a raggiungere
 l’illuminazione, a essere meditativo, amorevole, gioioso. Noi
 siamo un’isola molto piccola nell’oceano del mondo, ma non importa.
Se alcune persone possono essere salvate, l’intera eredità dell’umanità,
l’eredità di tutti i mistici, di tutti coloro che si sono risvegliati, può essere 
salvata tramite voi.”

Erano parole difficili da digerire.

E Sarjano chiese a Osho: “Perché sotto sotto ridacchio nel mio cuore,
 ogni volta che ti sento usare il mondo intero come un espediente per 
farci crescere, e al tempo stesso usi noi, quale espediente per il
 mondo intero?”.
 Osho: “Sarjano, dovrai smettere di ridere in cuor tuo…questo non è un 
espediente! Non c’è più tempo per nessun espediente. Il tuo ridacchiare
 è semplicemente una razionalizzazione: non vuoi credere che il 
mondo finirà presto, perché non vuoi cambiare. Vuoi che ti dica che è 
solo un espediente, in questo modo ti puoi rilassare – rilassarti nel tuo
 modello di vita statico. Ma non posso mentirti. 
Quando uso qualcosa come espediente, te lo dico con chiarezza. Ma
 questo non lo è, né per trasformare il mondo attraverso voi, né per cambiare
 voi tramite il mondo. Sto semplicemente affermando una triste 
realtà. Il tuo ridacchiare non è altro che il tuo sforzo per cancellare l’impatto
 che sto cercando di creare.
 Ridi di qualunque altra cosa, ma non della tua trasformazione. Questo
 ridacchiare non è altro che il tuo inconscio che prova a imbrogliarti,
 dicendoti che qualcosa accadrà, per cui non occorre preoccuparsi.
 Siamo arrivati alla fine della strada e voglio che entri profondamente
 dentro il tuo essere. Fatta eccezione per la danza e la celebrazione, non
 è rimasto null’altro. E perché accada ADESSO, sto distruggendo completamente
 il domani. Te lo sto portando via dalla mente, che è profondamente
 persa nel futuro…
L’illuminazione non è altro che la tua consapevolezza concentrata su un 
singolo punto – qui e ora.
 La mia enfasi sull’assenza di futuro, non ha niente a che vedere con 
la depressione; ha a che vedere con te. E se puoi abbandonare completamente 
l’idea del futuro, la tua illuminazione diventa immediatamente
 possibile. E abbandonare l’idea del futuro è un’ottima opportunità,
 perché il futuro stesso sta per svanire. Ma non trattenere, nemmeno 
in un angolo buio della tua mente, il pensiero che forse anche
 questo è un espediente: sono le strategie della mente per farti rimanere 
il vecchio zombi che sei.” (da The Hidden Splendor)

Di pari passo con questi discorsi sconvolgenti sulla situazione del
 pianeta, Osho raccontava barzellette e scherzava. Non ci permise 
mai di prendere la vita troppo seriamente – con sincerità sì, ma non
 seriamente.

Ci fu un periodo in cui scherzava molto con Anando; insieme giocavano
 ai fantasmi! Iniziò Osho che, uscendo dall’auditorio per tornare 
in camera sua, doveva attraversare la stanza in cui viveva Anando 
che spesso ascoltava il discorso stando nella vasca da bagno, con tanto
 di coperte e cuscini.
 Accadeva, perché l’auditorio di Chuang Tzu, di capienza limitata, era
 diventato così affollato, che dovemmo adottare un sistema di rotazioni;
 pertanto, a volte, lei si metteva lì, essendo il bagno contiguo all’auditorio.
 Osho sapeva che si era addormentata… e si divertiva a bussare 
alla porta, per sentirla gridare.
 Una volta Anando si nascose in un armadio del bagno nel quale aveva 
fatto costruire un finto muro. Quando Osho attraversò la sua camera, 
lei sporse una mano e gli fece un cenno di saluto dal bagno, ma quando 
lui entrò, il bagno era vuoto. Allora lui aprì l’armadio spingendo la 
falsa parete fino a farla crollare, smascherando Anando e un gruppetto 
di persone, fra risate e strilli di sorpresa.
 Questi giochi mi divertivano molto, perché mi ricordavano le storie che 
Osho ci aveva raccontato di scherzi che si divertiva a fare ad amici e
 conoscenti, quando era giovane. Ovviamente, gli piaceva anche che
 qualcuno facesse scherzi a lui e Anando era la persona giusta.
 Un giorno lei costruì un manichino e lo mise in corridoio seduto su una
 sedia, con le gambe accavallate e un giornale in mano, in modo che 
Osho, andando verso l’auditorio lo vedesse.
 Non ho mai visto nulla che potesse stupire Osho, e in questa occasione
 non fu diverso. Per anni aveva attraversato quel corridoio, per raggiungere
 Chuang Tzu, e noi avevamo sempre fatto in modo che non incontrasse 
mai nessuno. Eppure quella mattina, quando vide un perfetto sconosciuto 
seduto lì, a leggere il giornale, come se fosse nel soggiorno di
 casa sua, Osho non battè ciglio. Si mise a ridere e si avvicinò a quello
 strano personaggio per guardarlo da vicino.
 Ma il gioco andò avanti. In quei giorni Osho prendeva in giro Anando 
nei suoi discorsi, perché sosteneva che un fantasma continuava a bussare 
alla sua porta e la svegliava nel cuore della notte. E una volta, nel
 bel mezzo della notte, Osho mi chiamò e mi disse di farle uno scherzo:
avrei dovuto bussare alla sua porta, aprirla lentamente e poi spingere
 dentro quel manichino vestito da uomo, su una sedia a rotelle.
 Fu un successo… i miei colpi alla porta l’avevano svegliata, e quando 
guardò verso di noi, ancora mezza addormentata e vide entrare qualcuno,
 fiocamente illuminato dalla luce del corridoio che produceva strane ombre sul manichino, nell’oscurità non riconobbe la propria
 creazione e si mise a urlare.

“Così giocoso, così innocente, così non-serio, così vivo è l’approccio 
dello Zen” – Osho.

Quando mi prendevo cura di Osho, ero sempre molto tranquilla, presa 
da meraviglia. “Silenziosa,” diceva Osho. Molto raramente avevo notizie 
o pettegolezzi da raccontargli e quando mi chiedeva cosa stava succedendo 
nel mondo, non avevo molto da dirgli, perché il mio mondo 
consisteva in quale albero stesse mettendo nuove foglie oppure se l’uccello 
del paradiso quel giorno era venuto a trovarci o no.
 Anando aveva i piedi per terra ed era molto allegra con lui. Gli dava tutte le notizie su ciò che avveniva fuori e dentro l’Ashram. Un giorno
 li ascoltai mentre parlavano di politica; la sua capacità di capire la
 politica indiana era davvero impressionante, e conosceva tutti i nomi,
 tutti i partiti. Lei e Osho chiacchieravano come due vecchi amici che
 avevano gli stessi alleati e avversari. Credo che Anando e io ci bilanciamo
 benissimo.
 Vivek sembrava racchiudere in sé entrambe le personalità e il suo rapporto
 con Osho è sempre stato un mistero per me, perché sembrava 
molto antico. Nei tre anni che seguirono, andò via molte volte, ma ogni
 volta, quando ritornava, Osho le dava il benvenuto e immediatamente
le offriva la possibilità di prendersi cura di lui, oppure di rilassarsi e 
non fare niente. La sua libertà di fare qualsiasi cosa volesse nell’Ashram,
 non è mai stata messa in discussione. Era un’eccezione che 
faceva solo per lei.
 In questo periodo ci prendemmo cura di Osho lavorando come un team.
 Non era più un lavoro per una persona sola, a causa della sua debolezza 
e della sua salute precaria. Swami Amrito, il medico di Osho, sebbene
 fosse inglese e fosse un uomo, si era inserito perfettamente nel
 gruppo, perché stava diventando sempre più ricettivo, una qualità femminile,
 e al tempo stesso era lucido e non si lasciava prendere dalle emozioni.
 In lui non ho mai visto un no, o un’esitazione nei riguardi di Osho, 
che molte volte lo ha descritto come un uomo molto umile.

Osho iniziò ad avere problemi con i denti, per cui, dovette sottoporsi a
 diverse sedute alle quali fui presente anch’io.
 Durante una di queste sessioni, mi disse: “Smettila di chiacchierare, stai 
in silenzio!” Non capivo che cosa intendesse, visto che ero seduta nel
 silenzio più assoluto che io conoscessi. Pensavo di essere in meditazione, ma la meditazione era una dimensione nuova per me, per cui non
 ero mai sicura se fosse vera, oppure una mia immaginazione.
 Bastava un piccolo dubbio, per farmi dire: “Oh, all’inferno con questa
 roba,” e smettevo perfino di provarci. Per esperienza, posso dire che la
 meditazione è uno stato molto fragile e vulnerabile, per cui è facile che 
insorgano pensieri come: “È tutta spazzatura.”
All’inizio è così e io sono stata “all’inizio” per molti anni. Per cui, anche
se pensavo di essere in meditazione, quando Osho diceva: “Chetana,
 smettila di chiacchierare, stai zitta,” andavo in confusione e mi arrabbiavo.
 Mi diceva che la mia mente continuava a parlare senza sosta, e
 questo lo disturbava, ma io non capivo cosa intendesse dire.
 La cosa andò avanti per più di una settimana; ogni giorno chiudevo gli 
occhi e provavo ad andare sempre più profondamente dentro di me,
 nello sforzo di raggiungere quello spazio in cui ciò che Osho diceva non 
mi avrebbe più dato fastidio. Per il resto della giornata mi sentivo rilassata,
 ma all’avvicinarsi della seduta, divenivo tesa. Ero veramente indispettita,
 arrabbiata e sconvolta, e un giorno lui disse agli altri: “Vedete
 Chetana, quanto è arrabbiata con me?”.
 Pensavo: “Perché ce l’ha con me? Tutti gli altri hanno trasceso la mente?
 Tutti gli altri sono in silenzio?” Ecco cosa mi mandava in collera: ero 
l’unica fra i presenti che non riusciva a meditare. Proprio io, che avevo
 avuto tante esperienze magiche.
 Passarono due settimane e lui continuava a dire che chiacchieravo, che
 facevo troppo rumore… alla fine, mi disse di sedermi dall’altro lato
 della sedia. E, nel corso della seduta, Osho si voltò verso lo spazio che
 avevo lasciato vuoto e disse: “Stai zitta, smettila di chiacchierare!”.
 Finalmente, al termine della seduta, mi disse che non ero io ad averlo 
disturbato in quei giorni: in quel punto c’era un fantasma. Disse che a 
volte uno spirito o un fantasma può usare il corpo di qualcun altro e io 
ero un tramite molto ricettivo. Mi aveva usata per chiacchierare. “Ma 
non dirlo alle cuoche (la cucina era nella stanza accanto), altrimenti si 
impauriranno e non verranno più a lavorare.”
A quel punto mi ricordai che in quella stessa stanza, e proprio in quello 
stesso punto, anni prima venivo posseduta dal latihan.
 Penso che gli spiriti, come i sogni, non devono essere presi seriamente.
 Sono solo un altro colore dell’arcobaleno, un’altra dimensione di cui
 a volte diventiamo consapevoli.
 Quando realizzo che il mio mondo interiore è ancora un territorio inesplorato
 e la meditazione è un ‘lavoro a tempo pieno’, capisco perché Osho non enfatizzi il mondo esoterico e gli spiriti. Potrei perdermi
 molto facilmente in quel mondo che, per quanto misterioso, rimane
s empre al di fuori di me.
 Non mi aiuta a crescere in consapevolezza.
 Certo, è sicuro che esistano altre dimensioni, che raramente possono 
essere viste e non possono essere spiegate. I pensieri per esempio. Di
cosa sono fatti? Com’è possibile leggere i pensieri delle persone, se i
 pensieri non sono una cosa materiale?

Un giorno, rimasi chiusa a chiave nel bagno di Anando e mi misi a chiedere 
aiuto: Osho si svegliò e, sebbene fosse impossibile che avesse sentito
la mia voce, più tardi mi chiese cos’ era successo a quell’ora e perché
 stavo chiamando aiuto. 
Osho ha detto che nella nostra mente ci sono persino pensieri di cui non
 siamo a conoscenza.
Nell’autunno del 1987, per la prima volta da quando ero con lui, Osho 
incominciò a tenere discorsi in manieramolto discontinua.Alcune volte
 era troppo debole per venire a parlarci. Aveva forti dolori alle articolazioni
che gli impedivano di fare qualsiasi cosa; riusciva solo a stare 
a letto tutto il giorno.
 Ho visto Osho in situazioni che mostravano il suo completo distacco
 dal dolore; per esempio, tenere un discorso di due ore dopo l’estrazione
 di un dente. Oppure, in un’altra occasione, quando dopo un massaggio 
con Anubuddha, uno dei massaggiatori dell’Ashram, il dottore gli
 dovette fare un’iniezione all’articolazione della spalla.
 Io e Anubuddha eravamo seduti per terra e parlavamo con Osho. Il dottore 
preparò la difficile iniezione, ma non riusciva a trovare il punto
 esatto fra le ossa, per cui provò diverse volte. Ogni volta che l’ago entrava,
 io e Anubuddha sussultavamo, mentre Osho continuava a parlare,
 restando estremamente rilassato; vedevo che il suo respiro non si alterava
 minimamente, e così il suo viso.
 Osho spiegò ad Anubuddha che un illuminato in effetti è molto più sensibile
 al dolore, ma al tempo stesso può sperimentare di esserne separato.
 Non l’ho mai visto preoccupato o avere paura, e so per esperienza
 personale che è sempre la paura psicologica del dolore – il non sapere
 cosa sia – che mi indebolisce.
 Nel novembre del 1987, Osho incominciò a soffrire per quella che normalmente
 sarebbe stata una semplice infezione alle orecchie, ma che
 richiese quasi due mesi e mezzo di cure intensive, ripetute e fastidiose iniezioni di antibiotici e persino un intervento di chirurgia locale da 
parte di uno specialista di Pune.
 Fu in quel periodo che i suoi dottori iniziarono a prendere in considerazione 
la possibilità che fosse stato avvelenato… per quanto incredibile 
potesse sembrare questa ipotesi.
 Alcuni campioni di sangue, di capelli e di urina, unite a numerose radiografie
 e alla sua storia medica, vennero inviati a Londra, per essere esaminati
 da patologi e da esperti.
Dopo aver fatto le analisi più accurate e minuziose, essi dissero che, a 
loro avviso, i sintomi dei quali Osho aveva sofferto fin dai giorni che 
avevano seguito l’arresto e la successiva incarcerazione da parte del
 governo americano, potevano essere provocati solo da un avvelenamento
 con un metallo pesante quale, per esempio, il tallio.

Pubblicato in I miei giorni di luce con Osho.