Libro di Prem Shunyo
Kulu Manali
Il volo per Kulu-Manali decollò da Delhi alle dieci del mattino. Era stata una mattinata intensa perché Osho aveva tenuto una conferenza stampa alle sette, allo Hyatt Regency Hotel e non aveva usato mezzi termini nell’esprimere quello che pensava dell’America.
Ero riuscita a dormire un paio d’ore, prima di una folle e caotica corsa attraverso Delhi, in un furgone carico di bauli, che la stampa indiana definì “d’argento e ricoperti di gioielli”. Erano gli stessi bauli che avevo riempito due notti prima ed erano stati acquistati in un negozio di ferramenta in una zona sperduta dell’Oregon.
Si erano uniti a noi la madre di Osho,Mataji, con altri membri della sua famiglia; e poi Haridas, un esperto tuttofare che aveva vissuto con noi a Rajneeshpuram, Ashu, la giovane infermiera di Osho, con i capelli rossi, la pelle che sembrava di porcellana e una risata maliziosa, e Mukta, una delle prime discepole occidentali, appartenente a una ricca famiglia di armatori greci. Mukta, dalla folta capigliatura argentata, era stata la giardiniera di Osho per molti anni. Fui contenta di sapere che anche Rafia viaggiava con noi. Era stato il miglior amico diVivek negli ultimi due anni. Emanava una grande forza interiore, pur essendo, al tempo stesso, sempre pronto a ridere e scherzare. L’aereo era così carico che i bauli non poterono essere imbarcati;sarebbero arrivati più tardi, o così speravamo.Che gioia potersi finalmente sedere in aereo prima del decollo, senza nulla da fare!
Guardandomi intorno, vidi Osho seduto vicino al finestrino che beveva un succo di frutta; aveva parlato così tanto delle cime dell’Himalaya che mi emozionai all’idea che presto le avrebbe viste, e io l’avrei potuto osservare mentre le guardava. Certo, dove stavamo andando non c’erano i romantici picchi innevati, ma solo i primi altipiani da cui i monti iniziano a salire, tuttavia…
Hasya e Anando erano rimaste a Delhi per sbrigare alcune faccende.Osho sospettava che il governo indiano avrebbe reso difficile la vita ai suoi discepoli occidentali; inoltre si dovevano prendere dei contatti per organizzare l’acquisto di una proprietà. Dopo un breve volo di due ore, ci trovammo a percorrere una strada tortuosa tra le colline. La gente che vedevamo passando era molto povera, ma aveva una dignità che i poveri di Bombay non hanno. Avevano visi stupendi, probabilmente risultato di incroci con altre razze,forse i tibetani! La proprietà, chiamata ‘Span’, distava circa quindici chilometri, e la maggior parte del percorso si snodava parallelo a un fiume; alla fine superammo un ponte traballante proseguendo per una strada fiancheggiata da muri di pietre molto primitivi. Il paesaggio era diventato invernale. All’improvviso girammo a destra ed entrammo in un mondo completamente diverso. Era un centro di villeggiatura caratteristico, con una decina di bungalow in pietra, sparsi intorno a un edificio più grande, sempre in pietra, con due grandi finestre che davano sul fiume. Osho avrebbe vissuto in uno dei bungalow vicino al fiume, mentre la costruzione più grande sarebbe diventata il luogo in cui avremmo mangiato, guardato film e urlato al telefono nei nostri disperati tentativi di parlare con Hasya. Tuttavia, c’era qualcosa in quel posto che non mi convinceva. Il manager non ci trattava come i nuovi proprietari, e io mi chiedevo se fossea conoscenza del fatto che lo eravamo.
La mattina dopo Osho uscì per vedere la proprietà e disse a Rafia cheavremmo acquistato la montagna dall’altra parte del fiume e avremmo costruito un ponte di collegamento. Camminava con la mano sul fiancoe parlava a Rafia della sua visione di quel posto e delle sue possibilità. Questa scena così toccante, si sarebbe ripetuta dovunque arrivavamo,in quello che sarebbe diventato un giro del mondo, in effetti ‘senza fissa dimora’: immediatamente, ovunque fossimo, Osho aveva una visione dell’insieme e indicava dove costruire case, laghetti e giardini. Ovunque Osho si trovasse, quello era ‘Il Posto’. I giornalisti indiani venivano a intervistarlo, anche due volte al giorno,e sedevano nel suo soggiorno o sotto il portico che dava sul fiume. Il letto del fiume era molto roccioso e la forte corrente faceva un rumore incredibile al suo passaggio; era solo un torrente e non riuscivo proprio a capire come si sarebbe potuto anche solo immaginare un’isola in mezzo! Ogni giorno Osho faceva una passeggiata lungo il fiume, oltre i bungalow, e poi si sedeva su una panca a guardare le montagne dell’Himalaya, sempre più ricoperte di neve. Molti vecchi amici e sannyasin vennero a trovarlo, e lui li incontrava durante la passeggiata e chiacchierava con loro. A volte lo accompagnavo e mi sedevo con lui sulla panca, mentre il fiume scorreva rumoroso e il pallido sole d’inverno dorava le cime delle montagne. Ogni tanto arrivavano notizie da Rajneeshpuram. Venimmo a sapere cheil governo americano aveva bloccato i beni della Comune, dichiarandone la bancarotta. Centinaia di sannyasin erano dovuti andarsene senza un soldo in tasca. Mi sembrava di essere in tempo di guerra, quando famiglie e amici vengono separati e dispersi. Fino a quel momento avevo pensato che la Comune sarebbe esistita per sempre, e ora mi venivano in mente tutte le volte in cui ero stata infelice perché il mio uomo aveva deciso di stare con un’altra. Se fossi stata consapevole della caducità delle cose, avrei potuto godermi anche quei momenti. Riflettei anche che un giorno sarebbe sopraggiunta la morte, proprio come era arrivato il governo americano, e giurai a me stessa che non mi sarei più guardata indietro con rammarico. Non c’è tempo per essere infelici.
Alla domanda di un giornalista: “Ti senti responsabile, in qualche modo,nei riguardi dei sannyasin che hanno investito denaro, a volte tutta la loro eredità, e tanto lavoro nel progetto della Comune…?”, Osho rispose:“ La responsabilità, secondo me, è qualcosa di individuale. Io posso essere responsabile soltanto delle mie azioni, dei miei pensieri. Non posso essere responsabile delle tue azioni e dei tuoi pensieri. Ci sono persone che hanno dato tutta la loro eredità. Anch’io ho dato tutta la mia vita. Chi è responsabile? Loro non sono responsabili del fatto che io ho dato tutta la mia vita per loro, e i loro soldi non sono più importanti della mia vita. Con la mia vita posso trovare migliaia di persone come loro. Con i loro soldi non possono trovare un altro come me. Ma io non penso che loro ne siano responsabili. L’ho fatto perché questa è la mia gioia, ho amato ogni momento e continuerò a dare la mia vita alla mia gente, fino all’ultimo respiro, senza far sentire nessuno in colpa perché era una loro responsabilità.”
Durante la prima settimana di dicembre, arrivò Sarjano a intervistare Osho per una rivista. Sarjano è uno dei discepoli italiani di Osho più selvaggi che, in maniera del tutto inusuale, è sempre riuscito a mantenere i contatti col mondo della stampa, grazie al suo talento di scrittore e di fotografo, anche se ha passato molti anni seduto ai piedi di Osho. Forte di quella intervista, era riuscito a convincere Enzo Biagi a venire lì per fare un documentario su Osho per la RAI. Purtroppo l’ambasciata indiana negò alla troupe di Biagi il visto d’entrata,e per me questo fu il primo segnale che l’India, come ogni altro paese, non era in grado di riconoscere un Buddha.
Il procuratore di stato americano, Charles Turner, era stato chiaro sulle intenzioni del suo governo: Osho doveva rimanere isolato in India, tagliato fuori dai suoi discepoli occidentali, e gli si doveva impedire di parlare in pubblico,specialmente con la stampa internazionale. Chiaramente volevano porre fine al suo lavoro e al suo messaggio al mondo, e anche l’India non era immune alla pressione politica dell’onnipotente America. Nel frattempo, noi vivevamo alla giornata e io mi occupavo a tempo pieno della lavanderia, che era molto diversa da quella di Rajneeshpuram! Lavavo i vestiti in un secchio, in un bagno stile indiano, dove c’era solo un rubinetto da cui usciva acqua di un bel colore rosso ruggine. Li appendevo poi ad asciugare nella stanza accanto, con sotto secchi e pentole per raccogliere l’acqua senza bagnare il pavimento, e stiravo sul letto. Le stupende tuniche di Osho ben presto iniziarono a perdere la loro forma, presero l’odore di muffa tipico di Kulu, e quelle bianche stavano diventando marroni. Ma ero ancora fortunata, perché due settimane dopo, con l’arrivo della neve, non ci sarebbe stata più né l’acqua,né l’elettricità, ma solo neve da sciogliere.
Osho parlava anche due volte al giorno con i giornalisti e noi ci sedevamo ad ascoltare il fluire della sua voce, accompagnata in sottofondo dal rumore del fiume, mentre la pallida luce del sole si rifletteva sui nostri volti, che ora vedevo più maturi di un tempo. Gli ho sentito dire:“Le difficoltà vi rafforzeranno.”La sua pazienza con chi lo intervistava era immensa. Molti giornalisti indiani lo interrompevano mentre parlava per dichiararsi d’accordo o meno. Non mi era mai capitato di assistere a una cosa del genere e a volte queste interruzioni erano particolarmente divertenti. Da Rajneeshpuram arrivarono Neelam e sua figlia Priya, due donne stupende che sembrano sorelle, e che erano con Osho da più di quindicianni, da quando Priya era appena nata. Sono due dei molti discepoli indiani di Osho che testimoniano un perfetto incrocio fra Oriente e Occidente. Neelam servì il pranzo a Osho e lo accompagnò nella sua passeggiata, il giorno in cui tutti noi andammo da Mister Negi, ilcommissario di polizia di Kulu, per ottenere l’estensione del nostro visto di soggiorno. L’incontro fu molto piacevole, e lui sembrava contento di offrirci innumerevoli tazze di chai, il tipico tè indiano, e soprattutto di avere un così bel gruppo di persone a cui raccontare le sue storie di turisti divorati dagli orsi. Ci assicurò che non ci sarebbe stato nessun problema per il visto, così, dopo una stretta di mano, tornammo a Span tutti felici.
Il giorno dopo, il 10 dicembre, ero in camera mia quando Devaraj venne a dirmi che non ci avevano concesso l’estensione del visto. Mi misi a sedere sul letto. Avevo la nausea. Com’era possibile? Il fatto che un ufficio di immigrazione indiano fosse così efficiente, era di per sé preoccupante. Pensai che per loro dovevamo rappresentare un caso molto serio – non mi era mai successo di vedere le autorità indiane fare qualcosa con tanta velocità. In quel momento era molto difficile anche fare una telefonata, perché l’inverno imperversava. Le condizioni del tempo stavano peggiorando e i voli per Delhi venivano regolarmente annullati. Telefonare ad Hasya a Delhi era stato così difficile che, in un’occasione,lei aveva preferito prendere un aereo e venire di persona, piuttosto che aspettare ore per avere la linea. Quello stesso giorno la polizia arrivò a Span, ritirò i passaporti di tutti gli stranieri presenti e appose un timbro: “Ordine di lasciare l’India immediatamente!”.
Poco prima Vivek, Devaraj, Rafia, Ashu, Mukta e Haridas erano partiti per Delhi con l’intento di estendere lì il loro visto, così avevano evitato di incontrare la polizia. Il giorno prima di partire per Delhi, sentii Vivek parlare con Neelam,riferendole la decisione di Osho di seguirci, qualora fossimo stati espulsi,ed esortandola a dissuaderlo. Vivek disse a Neelam: “Per favore, non permettergli di seguirci, perché in India perlomeno lui è al sicuro.”Hasya e Anando avevano tentato tenacemente di fissare appuntamenti con le autorità di Delhi. All’epoca Arun Nehru in quanto ministro degli interni era il personaggio chiave per i permessi di cui avevamo bisogno,ma sembrava irraggiungibile: continuava a disdire tutti gli appuntamenti. Alla fine, incontrarono un alto funzionario del ministero, che disse loro in tono ‘confidenziale’ che la fonte del problema era da ricercarsi all’interno del nostro gruppo. Sembrava che Laxmi avesse scritto al ministero degli interni dandoglii nominativi di tutti i discepoli occidentali presenti e secondo quanto ci fu riferito, aveva anche aggiunto: “Osho non ha bisogno di avere accanto a sé degli stranieri che si prendano cura di lui.” La realtà era ben diversa: Osho considera il suo lavoro più importante della sua stessa vita e, per farlo, aveva bisogno dei suoi discepoli occidentali. Lui stesso avrebbe spiegato: “I miei discepoli indiani meditano, ma non farebbero niente per me. Invece i miei discepoli occidentali farebbero qualsiasi cosa per me, ma non meditano.” All’epoca non capivo cosa volesse dire, ma ben presto l’avrei compreso.
Quel pomeriggio, pochi minuti prima che Osho uscisse per la sua passeggiata lungo il fiume, sentii degli schiamazzi al cancello della nostra residenza. Andai a vedere e scoprii che i guardiani a stento riuscivano a controllare un intero autobus di Sikh ubriachi e molto aggressivi, che vociavano chiedendo a tutti i costi di vedere Osho. Corsi immediatamente attraverso il prato a zigzag tra i bungalow e arrivai al portico dove trovai Osho, già pronto per la passeggiata. Era visibile dalla strada e gli chiesi per favore di rientrare in casa, perché al cancello c’era un gruppo di Sikh ubriachi e molto aggressivi. Rientrammo e io chiusi tutte le tende del salotto. Incominciò a piovere e la stanza si faceva sempre più buia, d’un tratto guardai Osho che disse:“Sikh! Ma io non ho mai detto niente contro i Sikh. Che idiozia! Cosa vuole questa gente?” Poi si mise a sedere sull’orlo del divano con le spalle un po’ curve e la testa abbassata e commentò: “Questo mondo è folle, che senso ha vivere?”.Non ho mai visto Osho in uno stato che non sia di beatitudine. Durante la prigionia e la distruzione della Comune in America, era rimasto sempre completamente distaccato. Non posso dire che in quel momento fosse triste o in collera, era solo stanco. Era seduto lì e guardava nel vuoto, mentre io stavo ad alcuni metri da lui, incapace di muovermi. Qualsiasi cosa avessi detto, sarebbe stata superficiale, qualsiasi gesto sarebbe stato inutile. Pensai solo che era libero di sentirsi così e che non dovevo fare niente per interferire. Rimanemmo immobili nelle nostre posizioni mentre lo scrosciare della pioggia riempiva la stanza e mi sembrò di essere sull’orlo di un precipizio,con lo sguardo fisso su un abisso nero. Quanto durò? Non lo saprò mai, ma ad un tratto, con la coda dell’occhio,vidi un raggio di sole filtrare attraverso la tenda. Attraversai la stanza e aprii la tenda – aveva smesso di piovere. Uscii e vidi che eratutto tranquillo. I Sikh se ne erano andati.“Osho, vuoi andare a fare una passeggiata?” gli chiesi.
Mentre camminavamo lungo il fiume, sentii una gioia incontenibile, e danzai intorno a lui come un cucciolo. Lui sorrideva. Sul sentiero incontrammo alcuni sannyasin che lo aspettavano, per salutarlo. Tra loro, due vecchi amici, Kusom e Kapil, che erano stati fra i primi a diventare sannyasin,e con loro c’era il figlio che Osho non vedeva più dalla nascita.Toccò quel ragazzo con grande amore e chiacchierò a lungo con loro,in hindi. Mi sembrava di camminare sulle nuvole. Era il primo giorno della mia vita: tutto era nuovo e limpido. Da allora, ogni volta che mi sento senza speranza e a un passo dall’abisso,mi fermo e aspetto. Aspetto e basta. La sera, leggevo dei libri a Osho. Gli ho letto la Bibbia, o meglio TheX-Rated Bible di Ben Edward Akerley. Era un libro appena uscito, trecentopagine prese direttamente dalla Bibbia senza modificare neanche una parola: si trattava di pura pornografia; la cosa che mi divertiva di più era pensare che forse neppure il Papa legge la Bibbia, altrimenti ne rimarrebbe inorridito. Quando partimmo da Rajneeshpuram, tutti i componenti del nostro gruppo avevano lasciato alla Comune i loro gioielli perché fossero venduti. Osho in passato mi aveva regalato una collana, un anello e un orologio,ma un giorno, a Kulu, vedendo che non avevo niente al polso, mi chiese dov’era il mio orologio… glielo spiegai. Alcuni giorni prima, Kusom e Kapil gli avevano regalato un braccialetto d’oro, per cui mi disse di andare a prenderlo sul tavolo della sua camera da letto, era mio. Ero commossa, perché anche lui non aveva niente e questo era il primo regalo che aveva ricevuto da quando aveva lasciato l’America. Mi disse: “Per favore non farlo vedere a Kusom,potrebbe rimanerci male.” E gli occhi mi si riempirono di lacrime quando aggiunse: “Un giorno, quando ci stabiliremo da qualche parte, potrò fare un regalo a tutti.”
Una mattina vidi arrivare la polizia, e mentre loro entravano in casa del manager, io corsi da Osho e con un gesto teatrale annunciai il loro arrivo.“Cosa sono venuti a fare?” mi chiese.“Oh, niente, sono solo altri attori di questo dramma,” gli risposi facendo un altro gesto teatrale col braccio. Mi guardò come per dire che non aveva assolutamente bisogno di una risposta esoterica. Voleva sapere cosa stava realmente accadendo, così sentendomi un po’ scema corsi da Neelam che mi diede la brutta notizia:dovevamo andarcene, subito. La polizia se ne andò e Asheesh, Nirupa e io preparammo le valigie. Avremmo fatto in tempo a prendere il primo aereo per Delhi. Andai a salutare Mataji, la madre di Osho, Taru e tutta la famiglia. Piansi così tanto che ebbi la sensazione di aver esagerato. Mi sembrava un addio per sempre.Prima di avvicinarmi a Osho, lo guardai per alcuni minuti. Era seduto sotto il portico, con alle spalle l’Himalaya, i cui picchi erano ricoperti di neve. Indossava una tunica tra le mie preferite, di un intenso colore blu che ero riuscita a lavare particolarmente bene.Aveva gli occhi chiusi e sembrava lontano, lontanissimo. Avevo già visto questa scena, era un deja-vu: il discepolo che lascia il Maestro sulle montagne. La scena mi era così familiare,mentre mi inchinavo a toccargli i piedi con la fronte. Lui si chinò fino a sfiorarmi il capo e io lo ringraziai per tutto quello che mi aveva dato, con le lacrime che mi scendevano giù per il viso. Gli dissi addio e trascinai il mio corpo semi paralizzato fino alla macchina e partimmo.
Mentre uscivamo dal cancello, girai la testa e diedi un ultimo sguardo. Due ore dopo eravamo all’aeroporto di Kulu e dopo altri abbracci di addio, e altre lacrime, ci avviammo verso l’aereo con le valigie. Ma il pilota del volo Delhi-Kulu, ci diede una lettera che Vivek gli aveva consegnato a Delhi, in cui spiegava che l’estensione del visto era stata rifiutata anche a loro ma, essendo venerdì, era meglio rimanere con Osho fino a lunedì. In effetti martedì era il giorno in cui dovevamo ufficialmente uscire dal paese. Tornammo indietro, e mi ritrovai di nuovo nel soggiorno di Osho, la tragedia di due ore prima mi sembrava ad anni luce di distanza. Osho si svegliò dal suo riposino pomeridiano, entrò in soggiorno e ridacchiando disse: “Ciao Chetana.”
La polizia tornò, era furiosa. Ci avevano visto all’aeroporto e volevano sapere perché non eravamo saliti sull’aereo. Stavamo forse cercando di prenderci gioco di loro? Neelam, con il suo fascino, spiegò la situazione: era il fine settimana, l’aereo ormai era partito, le strade erano ghiacciate e quindi, per il momento,era impossibile lasciare l’India. Se ne andarono ancora arrabbiati e dissero che sarebbero tornati dopo alcune ore, ma non si fecero più vivi. Osho disse che potevamo andare in Nepal, dove gli indiani non hanno bisogno di visto, e quindi sarebbe stato più facile. Il suo lavoro non poteva svilupparsi in quel remoto angolo del mondo, insieme a pochi devoti che lo amavano e si prendevano cura di lui; non era quello che voleva, vivere per sempre felice e contento con pochi discepoli. Il suo messaggio doveva raggiungere centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo.
A Creta, alcuni mesi dopo disse: “In India ho detto ai miei sannyasin di non venire a KuluManali, perché avevamo intenzione di comprare della terra e delle case in questa zona; se migliaia di sannyasin fossero arrivati,immediatamente i conservatori e i bigotti avrebbero incominciato ad agitarsi. E i politici aspettano sempre un’occasione…In quei pochi giorni in cui sono stato senza i miei sannyasin, senza parlare con loro, senza guardarli negli occhi, senza guardare i loro volti, senza sentire le loro risate, ho sentito che mi mancava qualcosa di molto importante.”
Sono sicura che Asheesh non dimenticherà mai i giorni che seguirono.Un messaggio doveva pervenire ad Hasya, Anando e Jayesh, aDelhi, visto che dovevano organizzare il viaggio di Osho in Nepal. Le linee telefoniche erano saltate e non c’era nessun aereo per Delhi in quel fine settimana; questo perAsheesh significava dover fare un viaggioin taxi di dodici ore per portare quel messaggio, ricevere una risposta e tornare indietro immediatamente. Le strade erano pericolose,quasi completamente ghiacciate e nevicava così forte, che la maggiorparte di esse era chiusa al traffico. La distanza fra Kulu a Delhi è di circa settecento chilometri. La notte stessa Asheesh partì con un taxi, con il messaggio di “contattare uno dei ministri in Nepal”, che era sannyasin. Correva anche voce che anche il re del Nepal leggesse i libri di Osho. All’epoca non conoscevamo bene la situazione politica del Nepal e non sapevamo che il re aveva un fratello avido di potere, che controllava l’esercito, la polizia e le industrie. Asheesh arrivò a Delhi alle sei di mattina, fece colazione e in serata era di nuovo a Kulu. Ah! Ah! Un altro messaggio. Bisognava trovare una casa in Nepal: un palazzo sul lago. Asheesh mangiò velocemente un boccone e ci raccontò che la nebbia in certi punti era così fitta, che aveva dovuto scendere dalla macchina e fare strada, per evitare che l’autista finisse in un fosso. Poi prese un altro taxi per tornare a Delhi e rientrò il giorno dopo con la risposta; questa volta balbettava un po’ e aveva la vista offuscata. In questo secondo viaggio la macchina si era persa nella nebbia e quando era uscito dal taxi per esplorare i dintorni, si era ritrovato nel letto di un fiume in secca. All’improvviso, mentre la luna faceva capolino fra le nuvole, aveva visto delle strane sagome stagliarsi sul fondo del cielo notturno: erano tre cammelli. Non essendo riuscito a riposarsi durante il viaggio, non dormiva da due giorni e due notti. Ma arrivò un altro messaggio, molto importante!Asheesh ormai delirava: uscì barcollante, nella notte gelida, con ilsuo messaggio, ma riuscì a tornare in tempo per prendere l’aereo per Delhi con me e Nirupa! Quando deve affrontare situazioni particolarmente impegnative, Asheesh fiorisce. A Pune, una volta aveva lavorato giorno e notte, senza interruzione, per costruire una poltrona per Osho, il quale poi disse che Asheesh aveva avuto un’esperienza psichedelica nel portarla a termine. Ancora una volta noi tre toccammo i piedi del Maestro, lo salutammo e lasciammo Span. La polizia ci scortò fino all’aereo e, arrivati a Delhi, ci incontrammo con il resto del gruppo in un piccolo hotel. Vivek, Rafia eDevaraj sarebbero partiti subito per il Nepal alla ricerca del palazzo. Noi saremmo partiti il giorno dopo e saremmo stati ospiti nella Comune di Pokhara,a circa centottanta chilometri da Kathmandu. Alcuni giorni dopo, anche Hasya, che alcune settimane prima aveva avuto l’estensione del visto senza problemi, ricevette la visita della polizia, che l’andò a prendere in albergo e la scortò all’aeroporto sotto la minaccia delle armi.
The Telegraph, un giornale di Calcutta, il 26 dicembre 1985 riportava:“Il governo indiano ha proibito l’entrata nel paese a tutti i discepoli occidentali di Bhagwan Shree Rajneesh.” E continuava dicendo che la decisione era stata presa dal ministro degli interni,Arun Nerhu. Inoltre, le ambasciate e i consolati indiani, in tutto il mondo, avevano ricevuto l’ordine di negare il visto a qualunque straniero “se fosse stato identificato come un seguace di Bhagwan Shree Rajneesh. Quelle persone non dovevano ottenere alcun tipo di visto, neanche come turisti.” Per giustificare l’azione del governo, si insinuava che Bhagwan fosse un agente della CIA! Un Asheesh molto stanco, Nirupa, Haridas, Ashu, Mukta e io ci ritrovammoall’aeroporto di Delhi pronti a prendere l’aereo per il Nepal,quando un ufficiale dell’immigrazione vide che mi mancava uno dei tanti moduli che ci avevano dato da riempire. Disse che non potevo lasciare il paese! Gli mostrai la pagina del passaporto col timbro “Ordinedi lasciare l’India immediatamente” e gli chiesi di cosa diavolo stesse parlando, protestando che, se non smetteva di perdersi in inezie, avrei perso l’aereo.Allora lui richiamò tutto il nostro gruppo, trascrisse i nomi e lasciò imbarcare gli altri, eccetto me. Nel frattempo aveva chiamato altri tre addetti all’immigrazione… la testa mi girava, pensando all’assurdità di quella situazione.
Avevo in mano una rosa, che intendevo trapiantare in Nepal come offerta simbolica, la diedi al poliziotto; lui la prese con grande imbarazzo,la appoggiò frettolosamente sul tavolo e mi disse di andare.