I miei giorni di luce con Osho: Capitolo Primo

Libro di Prem Shunyo

“Sono qui”

“Vorresti dirmi qualcosa?”.

Una voce dentro di me sta gridando: “Sono qui! Sono qui!”, ma non riesco a parlare, sono paralizzata. E poi, quegli occhi… Quando il Maestro guarda il discepolo dritto negli occhi, e guarda e guarda… ne vede l’intera storia: passato, presente e futuro. Per il Maestro il discepolo è trasparente: è in grado di riconoscere il Buddha non ancora realizzato che esiste in ogni essere umano. Non posso far altro che starmene lì seduta e lasciarmi pervadere dalla sua presenza, perché quello è l’unico modo per scoprire il diamante interiore. Ho paura che possa vedere delle cose, nel mio inconscio, che preferirei tenere nascoste, ma mi sta guardando con tale amore che l’unica risposta possibile è dire sì. A volte il suo sguardo non lascia traccia nella memoria, solo una sensazione estatica, un’esplosione di energia che mi fa scoppiare di gioia. Questo è stato il mio primo incontro con Osho, il Maestro.

Era la primavera del 1976, in India.

Solo un anno prima, mi trovavo a Londra, nella cucina bianca e ordinata del mio appartamento e sentivo che la mia vita (così come la vivevo) stava per trasformarsi. Ne ero sicura, come quando le ossa ti dicono che sta per piovere. Eppure non c’era una ragione apparente. Gli amicimi chiedevano spiegazioni, volevano sapere perché: cosa avrei potuto dire? Perché ogni estate i cigni volano verso il lago Mansarovar, sui monti dell’Himalaya? Come fanno a conoscere la strada?

Era un periodo in cui avevo tutto quello che volevo; andava tutto a gonfie vele, ero felice, avevo molti amici, un ragazzo stupendo, facevo il lavoro che mi piaceva e pensavo: “Sono realizzata, non c’è nient’altro che vorrei fare.” Sentivo nell’aria il vento del cambiamento, ma non avevo proprio idea di quale cambiamento sarebbe avvenuto. In una libreria di Portobello Road, trovai per caso un libro: L’esplosione silenziosa di Bhagwan Shree Rajneesh – quindici anni più tardi questo Maestro avrebbe cambiato il suo nome in Osho. Profumava d’incenso. Per anni avevo vissuto sulla cresta dell’onda e sapevo che la ruota della fortuna prima o poi avrebbe girato: volevo prepararmi. Andai a Ibiza con Lawrence, il mio ragazzo. Era uno studioso di misticismo, bello, alto e bruno, riusciva a vedere la magia ovunque e aveva il dono di saperla comunicare a diversi livelli. Aveva appena terminato il suo primo libro Rhythms of vision e si prendeva una meritata vacanza. Quando arrivammo all’aeroporto di Ibiza vidi per la prima volta Lydia, la madre di Lawrence. Ci accolse a braccia aperte e l’immagine di quel primo incontro è ancora molto nitida nella mia mente, come fosse ieri. Lydia è per me una madre spirituale, e il nostro legame è profondo e antico. Aveva vissuto per diciassette anni in Indonesia con un gruppo di ricercatori spirituali, e aveva lavorato con un gruppo di discepoli di Gurdjieff.

Nella sua casa di Ibiza, ce ne stavamo seduti attorno al fuoco alimentato con pigne e parlavamo di quel libro che mi aveva tanto colpita: L’esplosione silenziosa. Volevo il suo consiglio, volevo sapere se per lei era una cosa seria e lei mi disse: “Sì, dovresti provare le tecniche di meditazione.” Avevo un solo dubbio su quel libro: c’era una nota biografica in cui si diceva che Rajneesh era vissuto in Tibet settecento anni prima, nella sua ultima incarnazione. Sembrava un po’ troppo fantastico per essere vero, ma ricordo esattamente lo stupore di Lawrence quando dissi: “In ogni caso non mi aspetto di trovare il perfetto maestro spirituale, perché come può essere perfetto ai miei occhi, se non so ancora cosa sto cercando?”.

Tutti coloro che conoscono Ibiza sanno che è un’isola che fa affiorare sensazioni intense. Governata dalla Dea Thanet, protettrice delle donne, Ibiza astrologicamente è Scorpione: profondità, intensità, buio e magia. Comunque io ero in vacanza e non cercavo esperienze stravaganti; ero contenta di aiutare Lydia in giardino, durante il giorno. Mi sentivo bene a contatto con la terra e non avevo voglia di andare in spiaggia, tantomeno nei soliti posti per turisti. In quell’isola, per la prima volta, sperimentai cos’è la meditazione, cosa significa essere nel momento presente. Fu inevitabile. Lawrence e io andammo con degli amici in campagna.Arrivati sul posto, mi allontanai dagli altri per cogliere dei fiori da portare a Lydia che si era sentita poco bene e non era venuta con noi. Nella boscaglia, trovai per caso un cespuglio alto più o meno come me, che aveva degli enormi fiori bianchi e rosa. Per cogliere i fiori, che non si staccavano facilmente, non potei far altro che strappare i rami, spezzando la pianta. Mentre osservavo il disastro che avevo combinato, notai che una linfa biancastra stava colando dal ramo strappato. Rimasi male, sembrava sanguinasse. Per cui dissi alla pianta: “Beh, ti ho strappata malamente, ma posso almeno leccare la tua ferita.” Leccai le gocce di linfa dal ramo e tornai dai miei amici con i fiori in mano. La lingua e la gola erano intorpidite come dopo un’iniezione di novocaina fatta dal dentista. Quando mi avvicinai agli amici che stavano seduti per terra, una ragazza balzò in piedi: “Butta quei fiori immediatamente e vai a lavarti le mani, sono fiori velenosissimi.” Ma la linfa bianca era ormai dentro di me.

Capii che se avessi detto quello che avevo fatto, si sarebbero lasciati prendere dal panico. E se loro avessero perso il controllo, lo avrei perso anch’io, con gravi conseguenze, visto lo stato in cui ero. “Comunque da queste parti non c’è un ospedale,” dissi a me stessa, “e poi cosa potrei fare? La cosa migliore è accettare questo veleno nel mio corpo e lasciarlo diventare parte di me.” Così non raccontai a nessuno ciò che avevo fatto. Il viaggio di ritorno in auto fu molto lungo, e io rimasi in silenzio, mentre i miei amici raccontavano storie di persone che erano morte a causa di quei fiori. Una coppia e i loro due figli erano morti proprio un paio di mesi prima, per aver usato i rami di quella pianta per il fuoco di una grigliata.

Faceva molto caldo, la macchina era stipata e io stavo seduta sulle ginocchia di Lawrence. Abbassai la testa, guardai fuori dal finestrino e sentii la gola completamente anestetizzata; dissi a me stessa che sarebbe andato tutto bene se solo avessi potuto rilassarmi e accettare il veleno. Feci dentro di me un patto con i fiori: il loro veleno sarebbe stato innocuo fino al giorno in cui avessi deciso di avvelenarmi. Non ho idea di cosa significasse, ma la mia mente diceva così. Arrivammo a casa di Lydia, era quasi sera e ricordo ancora i colori del tramonto e il mandorlo in fiore. Preparammo la cena e mangiammo; io continuavo a tacere. Ero completamente trasportata nel qui e ora, perché ogni momento poteva essere l’ultimo; mi girava un po’ la testa ed ero stordita. Tutto ciò che facevo assumeva grande intensità e valore; ero consapevole, come mai prima di allora, di tutto quello che mi circondava ed ero cosciente di me stessa, del mio corpo, di ogni battito del cuore, di ogni movimento. Il mio intuito mi consigliava di continuare a muovermi, per cui mi misi a pulire a fondo la cucina, anche se Lydia e Lawrence continuavano a dirmi di andare di là in salotto con loro, non capendo perché diavolo stessi pulendo la cucina con tanto accanimento. Mi sentivo calmissima, non pensavo a niente, andai a dormire chiedendomi se mi sarei mai svegliata. Riesco ancora a vedere quella stanza, così come l’ho vista un attimo prima di addormentarmi – ha lasciato un’impressione indelebile in me. Il mattino dopo mi svegliai perfettamente sana. Più tardi cercai di saperne di più su quei fiori. In un’enciclopedia trovai questa descrizione: “Oleandro… ha un succo lattiginoso dalle proprietà tossiche. Il più conosciuto è l’oleandro comune, nativo delle regioni mediterranee è descritto da Plinio il Greco che menziona i suoi fiori simili a roselline e le sue caratteristiche velenose.”

Ma non è questo il punto. La cosa straordinaria è che avevo fatto l’esperienza di come ci si sente a vivere nel momento, a essere consapevoli e coscienti di ogni momento. Avevo iniziato il mio cammino spirituale. Qualche giorno dopo, ero a un cocktail-party con Lawrence e Lydia. Gli invitati erano un misto di gente ricca, aristocratica e molto formale. Il party era stato organizzato da un nostro amico cui piaceva circondarsi di persone interessanti e probabilmente questo era il motivo per cui eravamo stati invitati: eravamo considerati degli eccentrici rispetto al resto della compagnia.

Durante la festa un cane venne investito da una macchina proprio davanti alla casa e i suoi lamenti riempirono i saloni e le terrazze, dove gli ospiti, tutte persone della borghesia bene, stavano tranquillamente sorseggiando i loro drink, impegnati in conversazioni formali. Dovete capirmi, non avevo mai fatto una scenata prima di allora, non per niente sono inglese e mi considero un tipo veramente tranquillo. I lamenti e i pianti del cane mi colpirono così profondamente che iniziai a ululare all’unisono con lui. Neppure per un attimo mi passò per la mente il pensiero che questo non si addiceva a una signora, o che non era socialmente accettabile, o che potevo essere considerata pazza. Accadde, semplicemente. Caddi a terra ululando come un cane; ero completamente persa nel dolore di quell’animale. Quando riaprii gli occhi, l’ultimo ospite stava chiudendo la porta dietro di sé; nella stanza eravamo rimasti solo io, Lawrence, Lydia e il padrone di casa. Perfino Lydia, che è senza dubbio un’anticonformista, sembrava imbarazzata e un po’ preoccupata. Si inginocchiò vicino a me e mi chiese: “Va tutto bene, cara?” Non mi ero mai sentita meglio in vita mia! Qualcosa dentro di me si era liberato e mi sentivo magnificamente; anche il padrone di casa sembrava molto soddisfatto perché tutti avrebbero spettegolato a lungo sul suo party.

Che vacanza! Nelle settimane che seguirono vidi volti senza corpo che nessun altro sembrava notare e in un’occasione udii voci e canti lontani. Decisi che appena tornata a Londra, sarei andata al Centro di Meditazione di Osho e avrei cominciato a meditare, perché qualcosa aveva decisamente iniziato a cambiare nella mia vita. Non ero mai stata affiliata a un gruppo religioso, né ero mai stata a contatto con un Maestro spirituale. Avevo letto qualcosa qui e là sullo Zen e alcuni libri di Khrishnamurti, ma non mi ero mai sentita una ricercatrice spirituale.

Cosa vuol dire essere un ricercatore spirituale? Per me significa sapere che esiste qualcosa in più oltre quello che stai vivendo, qualcosa al di là della tua esperienza. Una parte di te è viva e lo sai, ma non ne sei completamente consapevole. Sai che la vita che conduci non ti basta, sai che c’è di più. Sai che devi trovare qualcosa; così ti metti a cercare. Una parte di me stava risvegliandosi da un lungo sonno; forse stavo sentendo il lontano richiamo di un antico saggio. Ho sentito Osho dire che noi pensiamo di aver trovato lui, pensiamo di aver trovato il Maestro, ma non è così. “Sono io che vi stavo chiamando”, lui afferma. Sapevo di non vedere le cose come sono veramente. Ricordo che quando partii dalla mia casa in Cornovaglia per andare in India, andai a salutare gli scogli e la caletta dove avevo passatomomenti intensissimi della mia infanzia; guardai le rocce e dissi loro che non sarei tornata fino a quando non fossi stata in grado di vederle per davvero. Sapevo di non vederle veramente.

La prima volta che andai al Centro di Meditazione, arrivai tardi e la meditazione era appena terminata. Il Centro si trovava nel seminterrato di un palazzo di Bell Street, a Londra. Fuori c’era un mercato e la strada era gremita. Entrai e mi trovai a percorrere un lungo corridoio tutto bianco, alto poco più di un metro e mezzo. C’erano cuscini su entrambi i lati; questo era il locale in cui i sannyasin si incontravano, bevevano il tè e chiacchieravano. Mentre attraversavo quel lungo corridoio bianco, incontrai imeditatori che uscivano dall’altra parte. C’erano uomini e donne, erano tutti nudi e sudatissimi! “Questa non è meditazione,” dissi a me stessa. Mi guardai in giro e vidi che i muri erano tappezzati di fotografie di chi presumevo fosse Osho. Tutte quelle foto e quella gente seduta ai suoi piedi! Ma chi si crede di essere, una star del cinema o cos’altro? Era evidente che il posto non faceva per me; uscii furiosa e me ne andai a piedi fino a casa; ero troppo infuriata per prendere un autobus o un taxi, anche se abitavo lontano. Quella notte, sognai che stavo lavorando duramente. Era più una sensazione che una visione. Dopo due anni di intenso lavoro mi veniva dato un regalo. A darmelo era un amico che avevo conosciuto e amato per anni e che recentemente aveva preso il sannyas (era cioè diventato discepolo di Osho): ora si chiamava Rishi. Le mie mani si protendevano per ricevere il dono, ma c’era solo il vuoto. Una voce proveniente da non so dove disse: “Beh, non mi sembra che tu abbia raggiunto grandi risultati. Hai lavorato per due anni e non riesci neanche a capire quello che possiedi, non riesci neppure a vederlo!” Non mi importava. Sapevo che avrei lavorato per altri due anni, e poi ancora due… Sentivo un forte vento spazzare via tutto dietro di me, guardavo l’orizzonte e riuscivo a vedere immensamente lontano. Il sogno fu così forte che mi svegliai di soprassalto. Mi dissi che era stato provocato dalla mia visita a quel Centro di Meditazione. Il giorno dopo ci tornai e incominciai a fare la Meditazione Dinamica. La Dinamica ha cambiato la mia vita. Tutti facevano meditazione nudi e mi resi subito conto che non c’era niente di sessuale in tutto ciò. Non avevo per niente la sensazione che qualcuno fosse interessato al mio corpo, al contrario, avevamo tutti gli occhi bendati.

Il primo stadio della meditazione è una respirazione caotica, scandita da una musica molto ritmata; il secondo stadio è catartico, serve a liberare le emozioni. Pensavo di non avere emozioni represse, tantomeno urla da lasciar andare, per cui, durante questa fase danzai soavemente. Solo alcuni giorni dopo, durante la fase catartica, con mia sorpresa mi ritrovai in piedi, sulla cima di una collina; ero una donna molto alta, un’Amazzone e un urlo selvaggio e primordiale esplose letteralmente fuori dalle mie viscere, un urlo che riempì l’intero universo. Urlavo nel buio ed era un’espressione del dolore e dell’agonia di tutto il passato dell’umanità. Mi sentivo distaccata, separata e ascoltavo queste urla come se venissero da qualcun altro.

La catarsi è un processo di pulizia, prima che lameditazione possa accadere. Sapevo di non essere in grado di sedermi semplicemente in silenzio e lasciare che la meditazione accadesse, la mia mente era troppo occupata. A quel tempo infatti mi identificavo con la mente. Non c’era nessuna separazione tra i pensieri che simuovevano costantemente nella mia testa e il mio essere. Non avevo idea di cosa fosse la consapevolezza. Conoscevo solamente i miei pensieri. Ma dopo quell’esperienza cominciai a capire che in ogni essere umano, e dunque in me stessa, c’era molto, ma molto di più di quello che pensavo. Alcuni giorni dopo, durante la fase catartica, feci un’altra esperienza: sentii il mio corpo come se non fossi ‘io’. Era divenuto quello di un gobbo, la faccia era deformata, la bocca aperta, gli occhi mi uscivano dalle orbite. Tutta la parte sinistra sembrava crollare e dalla bocca uscivano strani grugniti, come se non potessi parlare. Mi rannicchiai in un angolo ed ebbi la sensazione di essere incompresa, ma la sensazione più forte fu di amore. L’amore circondava questa ‘creatura’ che era il mio corpo.Mi sentivo di sesso maschile e questo maschio deforme era pieno di un amore incredibile, estremamente dolce e delicato; fu un’esperienza commovente. Non avevo bisogno di spiegazioni e ancora una volta mi ero sentita completamente separata da ciò che accadeva, come se stessi osservando dal di fuori, senza alcuna paura, perché in qualche modo mi sembrava tutto naturale. Tutte queste esperienze per anni le ho tenute dentro di me, non ne ho mai parlato con nessuno, temendo di essere presa per pazza.

Nel terzo stadio della meditazione si salta con le braccia alzate, urlando “Huu! Huu! Huu!” per dieci minuti… finché una voce intima: “STOP”, e ci si ferma immobili, esattamente nella posizione in cui ci si trova. In questo quarto stadio, la meditazione accade da sola. Non si deve fare niente. Lo stadio finale è una danza di celebrazione e anche quella accade da sola. Ho fatto la Meditazione Dinamica tutte le sere per circa sei mesi. È bastato iniziare per esserne catturata e travolta. Talvolta, uscendo dal Centro di Meditazione, mi sentivo completamente beata, come drogata. Bell Street si trova in uno dei peggiori quartieri di Londra, oltre Harrow Road, ed è sotto un cavalcavia; il traffico, soprattutto di mezzi pesanti, è costante e particolarmente intenso. È vicino alla stazione ferroviaria di Paddington e i palazzi di mattoni rossi di quel quartiere sono vecchi e cadenti. A volte uscivo in mezzo a quell’inesorabile caos, in un grigiore insondabile, e tutto mi sembrava stupendo.

Per la prima volta nella mia vita ero sempre puntuale. Ogni sera mi sedevo sull’autobus che andava a Paddington alle sei in punto e pensavo: “Ma che cosa mi sta succedendo? Devo essere impazzita, mai stata puntuale in vita mia, né a scuola né al lavoro, né a qualsiasi appuntamento…”. In quegli anni il sannyas, l’iniziazione che Osho dava a quanti lo sceglievano come Maestro, era caratterizzato da tre regole.

Primo: si portava un mala, cioè una collana di 108 palline di legno, con un medaglione in cui era incastonata la foto di Osho. Per migliaia di anni in India, il mala (senza medaglione) era stato portato dai sannyasin tradizionali: questo nome, infatti, ha sempre contraddistinto i ricercatori del vero, nella tradizione induista.

Secondo: ci si vestiva sempre di arancione: colore che ha caratterizzato da sempre gli abiti del sannyasin tradizionale indiano.

Terzo: si riceveva un nome sanscrito che segnava un nuovo inizio e serviva a staccarsi dal vecchio nome e dalle sue associazioni, di qualunque tipo fossero. Rimasi scioccata quando, in India, vidi i primi sannyasin tradizionali. Erano vestiti proprio come me, in arancione e con il mala al collo, e mi resi conto che doveva essere un duro colpo per un indiano vedere un occidentale (specialmente se donna) vestito come uno dei loro ‘santi’. Nella tradizione indiana, il sannyasin tradizionale ha rinunciato al mondo; di solito è vecchio, ovviamente è un uomo e non si farebbe mai vedere in giro con una donna… Adesso, mentre scrivo, i discepoli di Osho non vestono più di arancione, né portano il mala. Sembra che la funzione di questi espedienti si sia esaurita. Vestirmi di arancione mi veniva naturale, quasi non mi accorgevo che era una delle ‘regole’. Portare ilmala diventò una necessità. Iniziò poco dopo aver cominciato a meditare: avevo sempre la sensazione di aver perso qualcosa. A volte mi mettevo improvvisamente la mano sul petto, ansimando, come se avessi perso una collana. Cominciava a diventare imbarazzante, poteva capitare dovunque e in qualsiasi momento. Per cui finii per pensare: “Al diavolo, devo proprio avere una di quelle collane!”. I sannyasin che incontravo al Centro erano dei personaggi che non mi attraevano particolarmente. Ad esempio, non avevo mai incontrato una donna che non si truccasse e qui c’erano invece donne dai volti pallidi, carnagioni rosee e delicate e lunghi capelli diritti. Gli uomini sembravano effeminati. Non erano quel tipo di persone che avrei portato a casa mia per farle conoscere ai miei amici. Non capivo cosa c’era in loro che mi attirava, ma passavo sempre più tempo al Centro e uscivo sempre meno con i miei amici per andare ai party.

C’era una donna che vedevo tutte le sere seduta nel tunnel bianco, lavorava a maglia e stava facendo una sciarpa dai colori sgargianti ed esotici. Non era una sannyasin e, da quanto avevo sentito dire, dietro quel viso giovane e attraente, ai vestiti afgani e gli stivaletti tibetani, si nascondeva un’avvocatessa e una donna d’affari di successo. Si chiamava Sue Appleton e il suo nome sarebbe presto diventato Anando. Non sapevo allora che le nostre vite si sarebbero intrecciate, come i colori della sua sciarpa variopinta.

Incontrai un’altra donna, si chiamava Susan e il suo nome sarebbe diventato Savita. Era e sembrava una ragioniera; e i suoi modi semplici e dimessi la mascheravano benissimo: infatti nella storia che sto per raccontare sarebbe diventata un personaggio chiave nella distruzione e nella rovina di molte vite. Il suo talento e la sua abilità a giocare con le cifre le permisero di arrivare a controllare milioni di dollari e la fecero diventare una criminale.

Partecipammo insieme a un gruppo di terapia in una casa di campagna nel Suffolk. Non vi fu alcun contatto tra i partecipanti, durante il gruppo, ma proprio alla fine, al buio, a tutti fu detto di togliersi i vestiti e metterli in un angolo della stanza. Poi ognuno dovette prendere qualcosa dal mucchio e indossarlo. Quando le luci si riaccesero io avevo il suo e lei il mio. Ci guardammo sospettose e mi sentii strana, come se involontariamente e molto cerimoniosamente, con quello scambio fossimo diventate ‘sorelle di sangue’. Un legame che non avrei mai onorato. Mi accorsi che la pratica quotidiana della Meditazione Dinamica non solo mi dava una grande gioia, ma mi rendeva sempre più consapevole del fatto che tutto ciò che conoscevo stava perdendo significato.Mentre prima mi piaceva moltissimo uscire con gli amici, andare per night club o a cena fuori, cominciai a notare che tutti quei volti per i quali mi vestivo con sfarzo, erano vuoti e morti. Persino la gente più ricca sembrava vuota e insignificante. I miei amici intellettuali discutevano accanitamente ma, in realtà, mentre parlavano si guardavano distrattamente intorno, e non incontravano mai, neppure con sguardi fugaci, la persona con cui stavano parlando.

Una volta,mentre chiacchieravo con un amico, all’inaugurazione della sua galleria d’arte, notai che, sebbene stessimo parlando, lui non c’era, non era presente. Non c’era nessuno dietro quegli occhi! Non si accorse neppure che smisi di parlare nel mezzo di una frase, fissandolo negli occhi incredula. Mi sembrava tutto falso. Scrissi pagine e pagine a Osho chiedendo con foga e insistenza: “Perché non c’è niente di reale?” Fortunatamente ebbi il buon senso di non imbucare la maggior parte delle lettere.

Questo fu l’inizio della mia nuova vita, della mia trasformazione; furono giorni molto incerti, perché quando iniziai a guardare la mia vita e la gente intorno a me con attenzione e maggior presenza di quella che comunemente si dedica – o non si dedica – all’incontro tra comuni esseri umani, tutto divenne difficile. Vedevo una realtà che mi spaventava. Insomma, in quei primi mesi di meditazione, molti veli caddero davanti ai miei occhi: era come se vedessi le cose per la prima volta. LaMeditazione Dinamica risveglia un’energia vitale che ha il potere di dare nuova chiarezza, nuova freschezza agli occhi del meditatore. E la vita si schiude davanti a lui in tutte le sue sfumature. Facevo la segretaria due giorni alla settimana per dei fotografi di moda e un artista loro amico, che si vestiva sempre di blu, aveva una moglie vestita di blu, un figlio vestito di blu, viveva in una casa blu con tappeti blu, mobili blu e quadri blu su muri blu. Quando cominciai a vestirmi di arancione, pensò che fossi impazzita. Chiamò i fotografi e parlarono di me, dicendo che erano preoccupati, che avevo perso la testa, e la causa era ovvia: avevo cominciato a meditare. Mi dissero che di tutta la gente che conoscevano, io ero quella che ne aveva meno bisogno. “Sei sempre così contenta e rilassata”, aggiunsero per distogliermi da quanto stavo facendo.

Altri due miei amici mi presero in disparte e con un’espressione molto seria mi chiesero se mi stavo drogando. “No, sto meditando”, risposi soave. Un giorno alla settimana lavoravo per un attore che mi presentava come la sua assistente personale. In effetti, lo ascoltavo soltanto parlare. Era giovane, bellissimo e ricco, eppure periodicamente si ubriacava e distruggeva tutti i mobili e le finestre della sua casa e si ritrovava con le mani sanguinanti.Mi disse che non potevo sprecare la mia vita meditando e che se quella era la mia scelta, non mi avrebbe aiutato finanziariamente, pur potendolo fare. Il mio cuore era altrove. La sola cosa che desideravo era incontrare colui che aveva inventato questa meditazione e trasformato così tanto la mia vita… non vedevo l’ora di prendere il sannyas. Presi il sannyas a Londra, da Shyam Singha, un discepolo ‘ribelle’, una tigre d’uomo dai fiammeggianti occhi verde-gialli. Era straordinariamente saggio e dotato di un grande carisma; all’inizio mi aiutò molto, ma poi le nostre strade si divisero. Mi diede un foglio di carta su cui Osho aveva scritto un nome: Ma Dharma Chetana. Quel giorno c’era un’eclissi di luna nuova in Scorpione nell’ottava casa e mi sembrava un buon auspicio. Scrissi la mia prima lettera a Osho (chiamandolo ‘Signore della Luna Piena’, che è poi il significato di Rajneesh) dicendo che lo avevo sentito parlare del ‘cammino’, ma che ero così persa da non riuscire neppure a trovare i piedi per percorrerlo. La sua risposta fu: “Vieni, vieni semplicemente, con o senza i piedi.” Fu così romantico fin dall’inizio… una strizzata d’occhio e un gran senso dell’umorismo. Fissai il giorno in cui sarei partita per l’India. Non avevo un soldo, ma quando quel giorno fosse arrivato, sarei partita con o senza biglietto. Preparai ogni cosa, come se non dovessi più ritornare; portai i miei due gatti in campagna da una vecchietta stravagante che ne aveva quasi duecento; ai miei due assegnò una roulotte privata, parcheggiata in giardino. Portai il mio cane Shih Tzu ‘la belva’ dai miei genitori, in Cornovaglia. Essi accettavano questa mia “stravaganza che non sarebbe durata a lungo”, e mia madre, nel giorni in cui rimasi da loro, mi accompagnava addirittura sulla spiaggia all’alba, a fare la Dinamica. Quando andavo con lei in paese a fare la spesa, era fiera di dire a vicini e ai negozianti: “Nostra figlia Sandy adesso fa meditazione.” Ma dopo alcuni giorni iniziò a preoccuparsi per me: “Fare meditazione tutti i giorni è troppo…” con affetto tutto materno, mi disse che sarei diventata pazza o che sarei finita in convento. La bellezza di mia madre è la sua innocenza; quella di mio padre il suo senso dell’umorismo. Alla fine, salutai mia nonna, mia sorella e mio fratello. Piansi quando salutai i miei genitori e mi affacciai al finestrino del treno che lentamente si allontanava dalla vecchia e pittoresca stazione sulle colline di Liskeard. Pensavo che me ne stavo andando per sempre e che non avrei più rivisto nessuno. Lawrence mi accompagnò all’aeroporto di Londra; voleva vedermi partire per questa avventura interiore, mentre lui era pronto a iniziare la sua avventura nel mondo, daHollywood alle tribù primitive dellaNuova Guinea. Non sapevamo se ci saremmo rivisti e piangendo gli chiesi: “Pensi che lì riuscirò a imparare lo yoga?”.

Lui mi abbracciò e disse: “Sono sicuro che lì imparerai molte cose.”

Pubblicato in I miei giorni di luce con Osho.