05 December 2017
Capitolo Quindicesimo
Non potete nascondermi

Io e Rafia arrivammo a Montego Bay, in Giamaica, quando Osho era
già lì, perché avevamo fatto scalo a Miami. Mi sentivo svenire dal caldo
e la devitalizzazione che il dentista mi aveva fatto il giorno prima mi
faceva male al punto che avrei potuto mettermi a urlare.
Ci vennero a prendere all’aeroporto e ci portarono in una villa che Arup
aveva trovato in tutta fretta per Osho. Arup, fedele e incrollabile, era
sopravvissuta all’esperienza di aver lavorato con le due donne tiranne
– Laxmi e Sheela – di cui era stata assistente e ne era uscita sorridente.
In quel periodo era rimasta in contatto con Hasya e Jayesh, allora in
Portogallo e, venuta a sapere quanto pericoloso fosse diventato per Osho
stare in Uruguay, era partita immediatamente dall’Olanda per la Giamaica,
dove aveva trovato un luogo adatto alla sosta. La casa apparteneva
a un famoso tennista; era un bungalow con del terreno intorno, una
piscina e una bellissima vista dell’isola.
La maggior parte del nostro gruppo era rimasta in Uruguay, per chiudere
la casa e aspettare di scoprire come sarebbero andate le cose. Gli
uruguayani coi quali eravamo in contatto, stavano portando avanti una
causa legale contro il governo, perché il rifiuto di concedere il visto permanente
a Osho era illegale, ma soprattutto aveva distrutto la loro illusione
di vivere in un paese libero.
Faceva male scoprire che il loro paese non era altro che una colonia
della “gente del nord”, come loro chiamavano gli americani.
Appena arrivati, ricevemmo una buona notizia: avevano dato, senza
nessuna difficoltà, un visto turistico a Osho all’aeroporto di Kingston,
in Giamaica; subito seguita da una brutta notizia: dieci minuti dopo
l’atterraggio dell’aereo di Osho, era arrivato anche un jet della Marina
Americana. La cosa era alquanto sospetta. Anando li aveva visti
scendere e mentre due agenti in borghese attraversavano la pista, lei
aveva fatto uscire rapidamente Osho e tutti gli altri dall’aeroporto e li
aveva fatti salire su un taxi.
In Uruguay, sapevamo di avere il telefono sotto controllo e una volta
Anando chiese a Osho: “Perché ci mettono sempre i telefoni sotto controllo?
Vogliono forse consigli spirituali a buon mercato?”.
Dopo cinque minuti di pettegolezzi, mi ritirai nella stanza che avrei
dovuto dividere con Anando. Era piccola, ma aveva l’aria condizionata
ed era fresca; diedi uno sguardo all’armadio chiedendomi se valeva
la pena disfare i bagagli. Decisi di aspettare, presi delle pillole per il
mal di denti e dormii per quattordici ore.
La mattina seguente, mentre facevo colazione, qualcuno bussò rumorosamente
alla porta.Mi affacciai alla finestra e vidi sei uomini di colore,
tutti molto alti, vestiti in pantaloncini color kaki e con in mano dei
bastoni. Dissero di essere della polizia.Anando andò a parlare con loro;
sembravano molto arrabbiati: senza mezzi termini, dissero che tutte le
persone arrivate in Giamaica il giorno prima, dovevano uscire con i
loro passaporti!Anando li rassicurò, dicendo che avevamo tutte le carte
in regola e chiese qual era il problema. Dissero che dovevamo lasciare
l’isola – immediatamente!
Quando se ne andarono, Anando chiamò Arup, che stava in un hotel
lì vicino; lei si mise in contatto con il nostro amico tennista che conosceva
delle persone all’interno del governo, nella speranza che potessero
aiutarci.
Noi tutti pensavamo a un errore…
Passammo alcune ore a telefonare a questi amici del tennista, che nel
frattempo ci aveva raggiunti.Ma alla fine, lui commentò: “È molto strano,
ma ogni volta che dico il mio nome, subito mi rispondono che tizio
o caio non sono in ufficio. Nessuno è al lavoro oggi, e neppure a casa…
non riesco a trovare nessuno che vi possa aiutare!”.
La polizia tornò due ore dopo.Questa volta sentii un gran peso nel cuore,
quando ci ritirarono i passaporti e annullarono i visti. Per fortuna riuscimmo
a tenere Osho in disparte, così non fu costretto a stare in piedi
sotto il portico, con quel caldo soffocante. I poliziotti erano molto
aggressivi, e avevano addosso il consueto odore della paura. Forse anche
loro pensavano di avere davanti a sé pericolosi terroristi, come tutti gli
altri poliziotti che avevamo incontrato in America, in India e a Creta.
Quando Anando chiese perché ci ordinavano di lasciare il paese, dissero
semplicemente: “Ordini.” Quando lei insistette per avere un minimo
di spiegazioni, le risposero che erano ordini che riguardavano la
Sicurezza Nazionale.
Osho doveva uscire dal paese prima del tramonto.
Non avevamo né un aereo, né un paese dove andare!
Di certo non potevamo restare in Giamaica: avevamo paura per la sicurezza
di Osho.
Fortunatamente era arrivato Cliff, il pilota di Osho, che alcuni mesi
prima l’aveva accolto a Dubai con un ombrello aperto, e subito si mise
a fare telefonate su telefonate, nel tentativo di affittare un aereo per portar
via almeno Osho… visto che non sapevamo dove andare!
Era praticamente impossibile nascondere i nomi dei passeggeri e lamaggior
parte delle compagnie rifiutavano immediatamente, non appena ne
venivano a conoscenza. Inoltre non conoscere la propria destinazione è
un altro punto a sfavore, quando si cerca di affittare un jet, visto che
tutti i piani di volo devono essere preparati in anticipo e comunicati dai
piloti ai paesi in cui si desidera atterrare.
Hasya e Jayesh erano in Portogallo, dove stavano cercando di ottenere
un visto per Osho, ma ancora non avevano in mano nulla. Il resto dell’Europa
era fuori questione, e quando Devaraj arrivò a menzionare
Cuba, ci ricordammo che Osho aveva già detto ad Hasya, poche settimane
prima: “No, Castro è un marxista.”
Prima la fuga dall’Uruguay e adesso questo… Vivek crollò. Disse che
non voleva più saperne! Era arrabbiata e voleva lasciare il gruppo.
Subito io mi innervosii; mi accadeva sempre, quando lei entrava in uno dei
suoi momenti di umore nero.
Avevo sentito dire che Osho quella mattina si era alzato molto presto,
stimolato dalla forte luce del sole giamaicano, ed era uscito per dare
un’occhiata alla casa. Passeggiando in giardino e intorno alla piscina,
aveva incontrato Leroy, il giardiniere, che era rimasto praticamente
sconvolto dalla sua apparizione, al punto che aveva subito lasciato la
casa, dicendo: “Quell’uomo è veramente incredibile. Non avevo mai
visto un uomo così prima d’ora.”
Osho aveva poi fatto dei piani per installare dei condizionatori d’aria
nel soggiorno, dove avrebbe ripreso i suoi discorsi, e adesso era sedu-
to nella sua stanza, in silenzio, e io gli portai quelle ultime notizie, informandolo
di come ci stavamo muovendo per trovare una soluzione.
Avevo paura. Pensavo che da un momento all’altro la polizia (“Ma erano
davvero poliziotti?” Chiesi. “Non so nemmeno che aspetto hanno i poliziotti
giamaicani”, mi sembravano dei criminali) avrebbe potuto tornare
e ucciderci, e le nostre foto sarebbero apparse su Newsweek o sul
Time. Ma a chi sarebbe interessato? Il mondo intero sembrava disinteressarsi
alla nostra sorte!
Nel primo pomeriggio Cliff aveva finalmente trovato un aereo: sarebbe
venuto a prenderci dal Colorado; ora tutto ciò che avremmo dovuto
fare, era aspettare! L’aereo sarebbe dovuto arrivare verso le sette
di sera e alle sei, Cliff, Devaraj e Rafia partirono con tutti i bagagli.
Ci avrebbero telefonato a operazioni di carico terminate e noi li
avremmo raggiunti.
Lasciarono Anando, Vivek, Maneesha e me insieme a Osho; quattro
donne e un mistico in una casa isolata nella campagna di quell’isola per
noi diventata così inospitale.
Passate le sette, ogni minuto divenne un’eternità; poi, all’improvviso si
spensero le luci. Ci avevano tolto la corrente elettrica e su di noi calò
un buio pesto. Pensai: “Ecco, ci siamo!”.
Trovai una candela, la misi dentro un bicchiere e, brancolando nel buio,
andai nella stanza di Osho. Era seduto vicino al condizionatore d’aria
che ovviamente non funzionava più e la stanza stava diventando molto
calda. Lo vidi rilassato, anche se era preoccupato per il condizionatore…
gli lasciai la candela e tornai nell’altra stanza dove tutti cercavano
candele e aspettavano che il telefono suonasse.
Alle otto non avevamo ancora ricevuto nessuna telefonata. Tornai da
Osho per vedere come stava; vidi che non era più seduto sulla sedia, la
stanza era immersa nel buio. Lo chiamai ma non mi rispose. Per alcuni
minuti rimasi là impalata nel buio; stavo per mettermi a urlare quando
la porta del bagno si aprì e Osho avanzò verso di me con in mano
quel portacandele rudimentale che gli avevo preparato, reggendolo con
attenzione in modo da non bruciarsi le dita.
Ero così felice e sollevata nel vederlo che posso descrivere l’espressione
sul suo volto con un’unica parola: delizia. Assoluta delizia. Sorrideva
come un bambino quando gioca… avevamo giocato a nascondino!
Gli feci vedere che avevo portato un portacandele migliore ma
lui disse: “Questo va benissimo.” Gli dissi che poteva bruciarsi le dita,
ma a lui piaceva, se lo portò vicino alla sedia e si mise a sedere. Allo-
ra appoggiai lì anche l’altra candela, e lo lasciai seduto tra quelle due
candele accese e raggiunsi gli altri.
Qualcuno bussò alla porta… provai un tuffo al cuore, ma era solo il
nostro amico tennista. Era venuto a vedere come ce la passavamo
durante il black out e aveva portato anche la moglie e il figlio. Pensai
che probabilmente, se portava con sé la sua famiglia per incontrare
Osho, non sarebbe successo nulla di orribile.
Il telefono squillò! L’aereo era arrivato; velocemente radunammo
le ultime cose e Osho uscì dalla camera sorridendo e salutando tutti
col namasté.
Andai con Osho e Arup all’aeroporto. La destinazione era il Portogallo:
era la nostra ultima spiaggia ed era anche la fine delle nostre
speranze di trovare un paese in cui Osho avrebbe potuto vivere. La
nostra principale paura era che Osho dovesse tornare in India; dopo
l’ultima esperienza in quel paese, sembrava la cosa peggiore che ci
potesse capitare. Pensavamo che non avrebbero permesso l’ingresso
a nessun discepolo occidentale.
Decollammo verso il Portogallo e atterrammo in Spagna! C’era stato
un malinteso con i piani di volo, ma non ci furono problemi, solo un
po’ di confusione e una sosta di un’ora a Madrid per fare il pieno.
A Lisbona le cose andarono incredibilmente lisce: Hasya e Jayesh lo
aspettavano, e lui superò gli uffici di immigrazione tranquillamente,
ottenendo il visto senza problemi.
Quasi per miracolo, qualunque rete fosse stata tesa intorno a noi, riuscimmo
a spezzarla… e Osho sparì per sei settimane. Usciti dall’aeroporto,
andammo direttamente all’hotel Ritz. Facemmo entrare Osho da
un’entrata secondaria, e non registrammo il suo nome, perché non volevamo
dare troppo nell’occhio. Per Osho, avevamo preso una suite, che
aveva una stanza in più, dove mi sistemai con Vivek.
Durante il volo Osho aveva dormito, come al solito; si era svegliato
solo per mangiare e andare al bagno. Poi mi chiese una Diet Coke e
Vivek, che lo aveva sentito, mi disse: “Non dargliela, gli fanno male;
digli che sono finite!”.
Non avevo mai rifiutato qualcosa a Osho, ma con Vivek che mi osservava,
gli dissi coraggiosamente: “Hai appena bevuto l’ultima.”
“Cosa!” disse, mettendosi a sedere con gli occhi spalancati. Mi sentivo
come se fossi entrata nella tana di un leone – i poliziotti giamaicani non
erano niente al confronto! – “Non ci sono più Diet Coke?”.
“Beh…!” borbottai, desiderando con tutta me stessa che non mi guardasse
con quegli occhi, mentre cercavo di dire una bugia. “Sono finite.”
Fortunatamente, scoprimmo che era la verità, ma lui non la smise più di
ripetere che avremmo dovuto farne una buona scorta, non appena a terra.
La cosa più divertente fu che nei tre anni successivi a questo incidente,
Osho ha bevuto solo e unicamente Diet Coke. Non posso dire se sia
stata o meno una semplice coincidenza…
La prima mattina a Lisbona, mi svegliò il suono della voce di Osho che
diceva: “Chetana, Chetana.” Non me lo dimenticherò mai.
Ero ancora mezza addormentata e sentire la sua voce che mi chiamava
per nome…
Aveva fame. Era venuto in camera nostra e si stava dirigendo verso i
piatti della sera prima, che non avevo messo fuori dalla porta, perché
ero troppo stanca. “No Osho, quello è il cibo di ieri sera,” dissi, e andai
a cercareMukti per vedere se poteva rimediare qualcosa dalle borse frigorifere
che portavamo sempre con noi.
Quando viaggiava in aereo, a Osho piaceva molto sperimentare prodotti
alimentari nuovi, che scopriva a bordo. Trovò dei biscotti che gli piacevano
moltissimo e in seguito fu per noi una gioia cercare di farglieli
trovare, ovunque andassimo.
Nella prigione di Mecklenberg, gli diedero uno yoghurt – Yoplait – che
gli piacque tantissimo… per anni ci industriammo a farlo arrivare dall’America,
dovunque Osho si trovasse.
In volo, poi, passava diverso tempo in bagno, dove sperimentava le
diverse creme e i saponi. Una volta scoprì un prodotto che continuò a
usare per anni: ‘Evian’ – era acqua pura che spruzzata addosso aveva
un effetto rinfrescante.
Aveva una particolare abilità nel farsi piacere cose che non si trovavano
più, perché il prodotto non era più in commercio, o perché la ditta
era fallita. Quando qualcosa gli piaceva, gli piaceva veramente.
In un negozietto dell’Oregon trovammo un balsamo chiamato ‘cool
mint’; gli piacque molto, perché gli rinfrescava la testa e continuò a
usarlo per anni. Ne consumava una bottiglia ogni pochi giorni,ma quando
cercammo di comprarne ancora, scoprimmo che la società che lo
produceva era canadese e aveva una distribuzione molto limitata.
Facemmo un contratto con la società: ogni volta acquistavamo diverse
casse che venivano spedite in Germania; da lì il prodotto raggiungeva
Osho, ovunque fosse, portato dai sannyasin tedeschi.
Anche una crema verde alla menta, prodotta da una piccola ditta di Los
Angeles lo aveva affascinato:Osho era il loromiglior cliente, perciò quando
la ditta cessò l’attività, ci accordammo con la padrona per comprare
tutte le rimanenze, più la ricetta in modo da poter continuare a produrla.
Per i sannyasin fare acquisti per Osho era una sfida incredibile. Ovviamente
a lui non dicevamo mai quanto fosse difficile reperire certi prodotti…
sapevamo che ci avrebbe risposto di non voler disturbare nessuno.
Certo, metteva sottosopra tutto il pianeta, ma quella è un’altra storia.
La gioia nel fargli avere uno shampoo, o un semplice sapone e il
piacere nel sentirgli dire: “Mi piace moltissimo,” con quel suo entusiasmo
che vibrava nella quiete del suo essere e gli occhi che gli brillavano,
ricompensava gli sforzi fatti.
È un uomo molto semplice e non chiede molto.
Nel giro di pochi giorni, divenne evidente che, se qualcuno avesse cercato
Osho, il Ritz hotel sarebbe stato il posto più ovvio. Eravamo fuori
stagione eAnando trovò un hotel molto bello e deserto in una città vicina
a Lisbona, Estoril.
Studiammo come far uscire Osho senza clamori, nella notte, passando
dal garage in modo da evitare accuratamente la hall dell’albergo.Anando,
Hasya, Mukti e io, dovevamo farlo salire di nascosto in un ascensore
di servizio, standogli intorno, in modo che non venisse riconosciuto
da chiunque passasse in quel momento nel corridoio.
Osho uscì dalla stanza prima del previsto, indossava una tunica bianca e
la sua barba lunghissima spiccava inesorabilmente; Anando scherzando
cercò di persuaderlo a indossare un impermeabile col bavero alzato e un
cappello con le falde abbassate. “Non potete mascherarmi!” replicò.
Allora Vivek provò a convincerlo, ma lui rispose: “No, no, non mi riconosceranno
senza il mio cappello!”.
Alcuni di noi uscirono a gran velocità dal garage, su una prima macchina,
su cui salii anch’io, che doveva depistare eventuali agenti americani,
o giornalisti sulle sue tracce. Nella nostra mente ci vedevamo inseguiti
per cui andavamo a gran velocità per le strade strette e piene di
curve, facendo giri a vuoto e usando tutta la nostra immaginazione per
far perdere le tracce agli eventuali inseguitori.
Più tardi, Anando mi ha raccontato che Osho era invece assolutamente
rilassato, in contrasto con le nostre paure e le nostre preoccupazioni.
Vivendo senza il peso di una mente che proietta nel futuro tutte le possibili
calamità, giustificata peraltro da un passato recente a dir poco
drammatico, per Osho non stava accadendo nulla…se non una passeggiata
fuori programma.
Quando arrivò in garage, sorrise a tutto il personale e salutò col namasté,
mentre le persone presenti lo fissavano a bocca aperta per la meraviglia.
Hasya e Anando cercavano di farlo entrare rapidamente in macchina,
ma lui si fermò.GuardandoHasya negli occhi, iniziò a dirle quanto
erano belli i tappetini del bagno… erano un vero comfort!
“Per favore Bhagwan, entra in macchina!” Lo incalzava Hasya. Ma
lui, dopo qualche passo si fermò di nuovo: sì, quei tappetini erano
veramente fantastici…gli sarebbe piaciuto averne uno anche dove stavano
andando ora.
Impiegammo due ore per arrivare nel nuovo hotel. Senza fare troppo
rumore salimmo le scale per andare nelle nostre stanze. Io iniziai subito
a disfare i bagagli. Fu un errore, perché non mi accorsi che la stanza
di Osho aveva un odore di muffa che gli provocò un attacco d’asma.
Devaraj gli diede delle medicine, ma subito ci rendemmo conto che,
sebbene fossero le due di notte, la sola cura era andarsene da quell’albergo
e tornare al Ritz.
Scendemmo le scale in punta dei piedi, passammo di fianco ai proprietari
che dormivano davanti al televisore spento, scivolammo dietro di
loro nel salone vuoto dell’hotel fino alla macchina che ci aspettava. Io
rimasi lì: dovevo rifare i bagagli e raccontare una storia plausibile che
spiegasse il nostro strano comportamento.
Restammo al Ritz ancora qualche giorno, poi trovammo finalmente una
casa per Osho. Era in montagna, nell’entroterra portoghese; l’unica
costruzione all’orizzonte era un castello sotto al quale una foresta di
pini si estendeva, fino ad avvolgere anche la nostra casa. Finalmente
eravamo riusciti a dare a Osho la pineta che gli avevamo promesso per
anni a Rajneeshpuram.
Mi stupisce la coincidenza di alcuni ricorsi, oserei dire storici: la pineta
di Rajneeshpuram era alla fine di una strada il cui tracciato non finì
mai in tempo, la pineta che ora ci avvolgeva sarebbe stata alla fine della
nostra strada nei cieli del mondo, in un tour nel quale avevamo sperimentato
di tutto, ma soprattutto il peso di un ostracismo quale mai era
stato decretato, nei confronti di un essere umano. Sembrava che il
mondo intero avesse chiuso la porta in faccia a un uomo che voleva
semplicemente condividere la propria consapevolezza risvegliata.
Comprammo dei mobili nuovi per la stanza di Osho e spostammo
quelli esistenti in un’altra parte della casa. Pulimmo la sua camera e
la rendemmo più Zen possibile… e i tappetini del bagno erano come
quelli del Ritz. La sua stanza aveva un balcone letteralmente parte
della foresta. Su quel balcone di solito Osho pranzava, cenava e lavorava
con Anando.
Non appena arrivammo, fece subito un giro intorno alla casa, suggerendo
come migliorarla. Nei pressi vide uno stagno e consigliò di
prendere dei cigni. Pian piano la vita riprendeva; dalla Giamaica, arrivò
il resto del gruppo e in pratica eravamo pronti a ricominciare da
capo; ma non fu così.
Io mi sentivo veramente senza speranze; certo, andammo in giro a vedere
alcune ville e dei palazzi in vendita; certo, ancora una volta la concessione
del visto sembrava ormai sicura, ma… ero sfinita.
Preparammo una sala dove Osho avrebbe potuto ricominciare a parlare,
ma lui se ne stava seduto sul balcone, a guardare la pineta. Dopo una
decina di giorni, il clima cambiò, la nebbia cominciò a salire lungo i
fianchi della montagna e inghiottì la foresta. Osho chiamòAnando nella
sua stanza e le disse: “Guarda, una nuvola è entrata nella mia stanza.”
La nebbia era la cosa peggiore per la sua salute. Iniziò ad avere attacchi
di asma, fu ovvio che non poteva più sedersi sul balcone: di nuovo
era praticamente confinato in camera. Non lasciò più la sua stanza per
il resto del tempo che rimanemmo lì.
In seguito, lo sentii dire aNeelamche era rimastomolto deluso nel vedere
che il Portogallo ha strane vibrazioni e che non c’è alcuna possibilità
di meditare in quell’ambiente.
Vivemmo nella foresta per più di un mese. Di fatto ci stavamo nascondendo,
in modo che le pratiche per l’immigrazione potessero procedere
senza problemi, e non fossero ostacolate da notizie sui giornali del
tipo: “È arrivato il guru del sesso!”, che facessero perdere la testa a tutti.
Mi sembrava ingiusto nascondere Osho agli occhi del mondo: un diamante
dovrebbe riflettere i colori dell’arcobaleno, per la meraviglia di
tutti. Questa era la ragione per cui avevamo lasciato l’India. Avevamo
portato Osho in giro per il mondo alla ricerca di un posto in cui potesse
vivere e dove potesse parlare alla sua gente. Non chiedeva molto,
solo di poter condividere la sua saggezza.
Ero triste e in più mi ammalai: passai diverse settimane a letto, con un
piede che si era misteriosamente gonfiato. La causa non venne mai scoperta,
ma sospettammo di tutto, dal morso di un ragno velenoso,
all’osteomielite. Me ne stavo tutto il giorno a letto a guardare il castagno
in fiore che mandava riflessi dorati fuori dalla mia finestra e ad
ascoltare il continuo, secco crack, crack, crack delle pigne che esplodevano
al calore del sole, inondando il terreno di semi.
La mia intima tristezza era equilibrata dall’allegria che ci accompagnava
sempre, come gruppo affiatato. In quei giorni ci godevamo le delizie
del primo chakra: il cibo, organizzando banchetti luculliani, intorno
a una lunga tavola di legno posta sul balcone: da una parte vedevamo
l’ampia distesa della pianura e dall’altra la vista del castello. Nei giorni
freddi e nebbiosi, sedevamo intorno a una grande tavola rotonda di
quercia nell’immensa sala da pranzo. Feci anche brevi passeggiate nel
bosco e nuotai nello stagno, quando non c’era nessuno che mi dicesse
di tornare a letto: vivemmo così per quattro settimane.
Poi un giorno arrivò la polizia.
Erano due macchine con otto agenti, e all’inizio ci dissero di essersi
persi. Era una bugia troppo ovvia e cinque minuti dopo chiarirono apertamente
di voler dare un’occhio intorno, perché eravamo persone
sospette: non uscivamo mai e non andavamo in giro come gli altri turisti.
Ci spiegarono che il Portogallo aveva molti problemi con i trafficanti
di droga e i terroristi.
Io andai subito nellamia stanza per indossare qualcosa che andasse bene
per la prigione; anche se mi sentivo lucida, le gambe mi tremavano.
Questo mi sconvolse, non mi era mai successo prima. Fino ad allora il
nervosismo non aveva mai interferito con il mio corpo e pensavo di
essermi ormai abituata a quel dramma ricorrente. Mi resi conto di essere
molto vicina a una crisi di nervi: la tensione degli ultimi dieci mesi
mi aveva fatto arrivare ai limiti delle mie capacità di sopportazione.
Raggiunsi Anando alla porta: stava ancora parlando con la polizia che
alla fine se ne andò. Ma il giorno dopo vedemmo una loro macchina
che stazionava nei pressi: presero a sorvegliarci giorno e notte.
Osho disse che voleva tornare in India.
Chiamammo Neelam, che si trovava in Italia, e le dicemmo di raggiungerci,
per viaggiare con Osho e cercargli una sistemazione in India.
Lui le disse: “Non posso usare il mio corpo ancora per molto; è diventato
molto doloroso essere nel corpo. Ma non posso lasciarvi così – il
mio lavoro non è ancora finito.”
Arrivò il giorno della partenza di Osho: il 28 luglio.
Quel giorno, ci riunimmo tutti nel piccolo atrio; mentre lui scendeva le
scale, al suono della chitarra di Milarepa e delle nostre voci. Se doveva
essere l’ultima volta che ci vedevamo, che fosse bello! Non volevo
che mi vedesse con un volto triste; volevo dimostrargli che apprezzavo
uno dei tanti regali che mi aveva dato, cioè la capacità di celebrare tutto,
sempre e comunque.
La mia tristezza si tramutò in una profonda accettazione e ballai come
non avevo mai ballato. Momenti come questi sono come la morte…
e quante volte avevo affrontato questi momenti in quell’ultimo anno?
Attraverso quante morti ero passata tutte le volte che ci eravamo separati
e mi ero ritrovata da sola di fronte all’ignoto?
Osho avrebbe detto a Neelam: “Guarda gli alberi. Quando si leva un
forte vento, sembra distruttivo. Ma non è così. Per gli alberi e le piante
è una sfida, per vedere se desiderano crescere o meno. E quando il
vento cala, le loro radici penetrano ancor più in profondità nella terra.
Si potrebbe pensare: ‘Questa pianta è troppo piccola, la furia del vento
la sradicherà.’ Ma non è così: se la pianta, allorché il vento si alza,
accetta di muoversi con lui, sarà salva… e non solo salva, avrà anche
una certezza priva di qualsiasi dubbio: ‘Sì, voglio vivere!’Allora crescerà
con maggior rapidità, perché la sfida del vento le ha dato tantissima
forza.
Se l’albero o la pianta non si accompagna al vento e viene distrutta,
non provare tristezza: sarebbe stata distrutta da un altro vento, se questo
non l’avesse fatto, perché non ha un profondo desiderio di vivere.
E non conosce la legge dell’esistenza – cioè, se ti accompagni all’esistenza,
ti protegge. È la lotta che ti distrugge.”
Osho ballò a lungo con ognuno di noi, in casa, sotto il porticato e
vicino alla macchina, dove perfino Rafia, che stava scattando fotografie,
venne stuzzicato dal Maestro finché non si mise a ballare con
la macchina fotografica che volava intorno a lui. Solo Vivek non riuscì
a ballare e gli si buttò tra le braccia piangendo – era la sua particolare
forma di danza.
Seguimmo la macchina di Osho fino all’aeroporto, e dal tetto del terminal
guardammo l’aereo che lo avrebbe allontanato da noi, un’altra
volta per sempre.
John disse a Maneesha una cosa molto bella, quando lei lo intervistò
per raccogliere le testimonianze di quell’incredibile esperienza, e
farne un libro.
Disse che a lui il tour mondiale aveva dato un punto di riferimento signi-
ficativo, in quanto gli aveva permesso di vedere Osho nel contesto del
mondo. Per tutto il tempo Osho era rimasto esattamente come l’uomo
Zen che lui descrive: semplice e ordinario.
John pensava ai cosiddetti leader della ‘new age’ californiana che vanno
in giro dicendo “sono così in alto,” “la vita è fantastica,” “sono tutt’uno
con l’Universo.”
Erano dichiarazioni intellettuali. Lui era stato con Osho in occasioni in
cui aveva avuto l’opportunità di dire cose del genere. Quando era stato
arrestato a Creta, non aveva detto come Gesù: “Perdonali, perché non
sanno quello che fanno.” Quando era stato in prigione in Inghilterra non
aveva detto: “Mi sento tutt’uno con l’Universo, nonostante questi poveri
idioti.” Quando fu costretto a partire dalla Giamaica a causa della sua
reputazione di “persona indesiderata”, non disse nulla del genere:
“Io sono così in alto e questa gente è così in basso.”
Si era limitato a chiedere un bicchiere di latte, oppure voleva che gli
spiegassimo cos’era una colazione a base di cereali, oppure voleva
sapere che ora era.
L’aereo si avviò sulla pista, mentre i motori rombavano e noi lo vedevamo
lanciarsi in quella corsa verso il cielo, uniti da un silenzio che
potevamo sentire come un blocco unico e solido.
Potevo vedere la mano di Osho che ci salutava attraverso il finestrino,
mentre l’aereo prendeva velocità, saliva rapido nel cielo e scompariva
all’orizzonte.
Due parole mi uscirono dalla bocca… barca vuota…
Ero nel mezzo dell’oceano, in una barca vuota.