12 July 2017
Capitolo Quattordicesimo
In Uruguay

21 marzo 1986: anniversario dell’illuminazione di Osho.
Partii per l’Uruguay dall’aeroporto di Londra, con quattro guardie del
corpo ingaggiate da Hasya e Jayesh; erano degli specialisti in anti-sommosse,
anti-terrorismo, addestrati in comunicazioni, demolizioni e armi
da fuoco. Ognuno di loro aveva una specializzazione.
Avrebbero dovuto essere le guardie del corpo di Osho in Uruguay,
perché non avevamo veramente idea di cosa ci aspettava. Mi stavano
accanto, sembravano soldati dall’aspetto minaccioso… mi sentivo
ben protetta.
Quando arrivai, Osho stava in un albergo a Montevideo e il giorno stesso
mi misi a pulire la sua stanza. Lui era seduto vicino alla finestra e sembrava
stanco. Devaraj mi disse che si era sentito molto debole in Irlanda,
al punto che non riusciva a fare due passi per arrivare al corridoio.
Gli toccai i piedi e mi misi a sedere fissandolo. Gli chiesi come si
sentiva e lui fece un cenno per dire che stava bene. Voleva sapere se
mi ero ripresa completamente dall’incidente e io gli dissi che, anche
se mi ero resa conto di essere stata stupida ad andare su quella moto,
era stata per me un’esperienza preziosa. Non disse niente, gli diedi
un bicchiere d’acqua e continuai a pulire la sua stanza, mentre lui
rimaneva seduto in silenzio.
Quell’anno non celebrammo il giorno dell’illuminazione e mi ricordai
che già a Kathmandu ci aveva detto di non volere particolari celebrazioni:
tutti i giorni dell’anno dovevano diventare di festa.
All’hotel trovai Anando, Vivek, Devaraj, John, Mukti e Rafia che mi
raccontarono quello che era successo in Irlanda: erano rimasti chiusi in
albergo, senza neppure il permesso di lasciare il secondo piano, dove si
trovavano le loro stanze. Era come un arresto domiciliare volontario.
Non vedevano altro che le quattro mura della propria stanza o di quella
di qualcun altro – che comunque era identica – per tutto il giorno. La
polizia locale sosteneva di aver ricevuto minacce dall’IRAnei confronti
di Osho, per cui era sorvegliato a vista ventiquattro ore su ventiquattro
da uomini armati, e l’albergo risuonava continuamente di conversazioni
sussurrate nelle radio portatili dietro barricate fatte di materassi.
Quando Osho lasciò l’hotel, dopo tre settimane, il personale lo andò a
salutare e lui disse al manager che era stato molto bene in quell’hotel,
si era sentito a casa. Adesso, in Uruguay, Osho ci chiese per favore di
telefonare in Irlanda, a quell’hotel e chiedere la ricetta della salsa chutney
che gli avevano servito, ringraziandoli perché era il miglior chutney
che avesse mai assaggiato.
Hasya e Jayesh giunsero subito dopo e trovarono una casa per Osho
a Punta del Este. Era considerata la riviera del Sudamerica e in effetti
era così bella che eravamo davvero meravigliati che il resto del
mondo non la conoscesse.
Il giorno dopo, Jayesh, Anando e io, guidammo per tre ore attraverso
una campagna piatta e verde, fino a Punta del Este. La casa era a tre
minuti a piedi dalle dune sabbiose, che portavano a una spiaggia lunga
e piatta, e al mare! L’aria marina di quella zona era famosa per le sue
qualità curative, e aveva un odore pulito e dolce.
La casa era magnifica. Originariamente erano due case che erano state
riunite in un secondo tempo, per cui era enorme. Fuori, circondati da
alti eucalipti dalle cortecce multicolori, c’erano un prato, una piscina
e un campo da tennis. Hasya e John, che avevano vissuto a Hollywood
prima di venire a Rajneeshpuram, ci dissero che era molto meglio
di Beverly Hills.
Le stanze di Osho erano alla fine di una scala a chiocciola. Sul pianerottolo
mettemmo il tavolino dove mangiava, proprio davanti a una finestra
stretta e altissima, da cui si potevano ammirare gli alberi. Un piccolo
corridoio portava alla stanza da letto da un lato, mentre dall’altro
c’era un bagno moderno e molto grande, bello quasi come quello che
aveva a Rajneeshpuram. La stanza da letto non era eccezionale,ma nella
casa era l’unica ad avere l’aria condizionata e una privacy totale. Era
buia e un terzo era separato dal resto da porte scorrevoli di legno di
quercia. Quella stanzetta aveva un’atmosfera e un odore un po’ strani.
Scherzavamo sempre dicendo che ci doveva essere un fantasma. Ma la
casa era pulitissima e Osho era soddisfatto.
Appena arrivato, aveva fatto un giro con la mano sul fianco, ammirando
la casa e il giardino. Dopo un paio di giorni cominciò a venire quotidianamente
a sedersi in giardino. Era una vera gioia vederlo scendere
dalle scale, tenendo per mano Vivek e camminare sul bordo della piscina
fino alla sedia che era stata preparata per lui.
Un giorno arrivò indossando quello che io chiamo il suo pigiama: una
lunga tunica bianca, senza cappello, ma con occhiali da sole Cazal, che
definivamo i suoi occhiali da mafioso. La scena aveva un sapore intimo
e al tempo stesso eccentrico. A volte lavorava con Hasya e Jayesh
o Anando, oppure rimaneva semplicemente seduto, perfettamente
immobile, per due o tre ore, finché Vivek lo andava a prendere per dirgli
che il pranzo era pronto. Se ne stava seduto immobile, senza leggere,
senza il minimo movimento.
Noi ci tenevamo discretamente fuori dalla sua visuale.
Le persone che stanno intorno a Osho, senza che lui avesse bisogno
di chiederlo, sono sempre molto sensibili nel rispettare la sua privacy.
Quando è con noi al discorso, ci dà così tanto per cui, quando
passeggia in giardino o mangia, viene lasciato totalmente da solo.
Ma se per caso incontra qualcuno, è incredibile vedere con quale
totalità lo saluta; il suo sguardo è estremamente penetrante e qualche
volta, incontrandolo per caso, sono rimasta completamente sconvolta
– ma ci si sente molto meglio a rispettare la sua privacy. Quindi,
pur vivendo nella stessa casa, lui sedeva sempre da solo, quando
non ci parlava al discorso.
Anando mi disse che un giorno, seduta con Osho in giardino, mentre
gli leggeva dei ritagli di giornale e delle lettere di discepoli, si alzò un
forte vento dal mare. C’erano parecchi abeti tutt’intorno, che svettavano
alti sopra la casa; percossi dal vento iniziarono a ondeggiare e centinaia
di piccole pigne presero a cadere intorno a loro, simili a una pioggia
di sassi, con violenza e accompagnate da un rumore secco, thud!
thud! Quando lei chiese a Osho di spostarsi al riparo sotto un tetto, lui
le rispose con naturalezza: “No, no, non mi colpiranno,” e, molto rilassato,
rimase seduto lì, mentreAnando saltava in continuazione, per evitare
le pigne che continuavano a cadere intorno a loro. La cosa che la
impressionò fu la sua incredibile tranquillità e come fosse ordinaria la
sua certezza che non sarebbe stato colpito.
Nel giro di due settimane, la polizia ci mise sotto sorveglianza; pattugliavano
la casa ventiquattro ore su ventiquattro con lenti giri in auto
attorno alla proprietà. Questo mise fine alle passeggiate di Osho in giardino:
adesso se ne stava in camera sua, con le serrande abbassate per
sicurezza. Avevamo sempre paura che qualcuno potesse fargli del male
e questo significava che la sua vita spesso era confinata nella sua stanza.
Ma lui ci ripeteva che, poiché stava seduto con gli occhi chiusi, non
faceva nessuna differenza. Diceva che quando si è felici con se stessi,
centrati, non si ha bisogno di andare da nessuna parte, perché non si può
trovare un posto migliore del proprio essere.
“…Io sono sempre me stesso, dovunque mi trovi. E proprio perché sono
felice ovunque sono, quel posto per me diventa benedetto.” – Osho.
La zona era tranquilla, la stagione turistica stava finendo e l’inverno si
avvicinava. Questo luogo appartato sarebbe diventato per me una vera
e propria miniera di diamanti; una continua scoperta di tesori interiori,
mentre Osho continuava a offrirci una chiave dietro l’altra per aprire
nuove soglie sul mistero dell’esistenza.
Nelle settimane successive, mi dimenticai completamente del mondo;
tutto si svolgeva nella più assoluta serenità. Le guardie del corpo private
se ne tornarono a casa e facemmo persino amicizia con i poliziotti.
Osho ci parlò delle nostre paure e disillusioni per il trattamento che lui
aveva subito da parte del mondo esterno: “Aver fiducia significa semplicemente
che qualsiasi cosa accada, ci lasciamo andare con gioia, non
riluttanti o controvoglia – altrimenti se ne perde il significato – ma danzando,
cantando, con una risata, con amore, perché qualsiasi cosa succeda,
va bene. L’esistenza non può sbagliare.
Se non realizza i nostri desideri, vuol dire semplicemente che i nostri
desideri erano sbagliati.” (da The Path of the Mystic)
Hasya e Jayesh continuavano a viaggiare da un paese all’altro, alla
ricerca di un posto che potesse ospitare Osho, in caso fossero sorti
problemi in Uruguay.
Furono invitati dal primo ministro dell’isola di Mauritius e fecero un
volo di quaranta ore solo per scoprire che voleva sei milioni di dollari
per lasciar entrare Osho nel paese.
La Francia chiese dieci milioni di dollari per quello che era praticamente
un contratto di cinque anni.
A quel punto, ventun paesi avevano rifiutato il visto a Osho, persino
quelli a cui non avevamo neanche pensato! A tal punto erano terrorizzati
dal fatto che Osho potesse distruggere la loro morale, anche solo
atterrando all’aeroporto!
Osho iniziò a parlare due volte al giorno. Scendeva dalla scala a chiocciola,
camminava sul pavimento di piastrelle rosse con le mani giunte
nel segno del namasté ed entrava nel bellissimo soggiorno, dove c’era
posto per circa quaranta persone.
Questi discorsi erano molto diversi da quelli che ricordavo; l’atmosfera
era molto intima e lui parlava lentamente, con grande calma. Non
erano più i discorsi focosi di Rajneeshpuram e di Pune; trovare domande
da fargli divenne “una grande pulizia dell’inconscio,” come lui la
descrisse. A volte rispondeva a cinque o sei domande e non tutte quelle
che facevamo venivano accettate. Maneesha si dava un gran da fare
nel metterne insieme di nuove: non era affatto facile formularne una,
quando l’ultima aveva avuto come risposta una bastonata Zen!
“…Ricordate una cosa: quando mi fate una domanda, siate pronti ad
avere qualsiasi risposta. Non aspettatevi la risposta che vi piacerebbe;
altrimenti non imparerete niente, non vi sarà una crescita. Se vi dico che
avete sbagliato, provate a prenderne nota.Non lo dico per farvi delmale.
Se dico una cosa è proprio quella.
E se incominciate a sentirvi feriti da queste piccole cose, diventerà
impossibile per me lavorare. In questo caso dovrò pensare a quello che
vi piace. Allora non sarò di aiuto, non sarò più un Maestro per voi.”
Osho ci ha parlato anche dello spazio bellissimo cui il discepolo arriva,
quando non ci sono più domande: “Quello è il vero lavoro del Maestro,
del Mistico…prima o poi le persone che sono vicine a lui, incominciano
a non avere più domande. Essere senza domande è la vera risposta.”
“Amato Maestro,
questa mattina, quando dicevi che ‘la vera risposta è essere senza domande,’
ho osservato le mie domande sciogliersi nel silenzio che ho condiviso
con te per un momento. Ma una domanda è sopravvissuta ed è questa:
se non ti facciamo più domande, come potremo giocare con te?”.
Osho: “Questa è una vera domanda!
Sarà difficile, per cui sia che abbiate o non abbiate domande, continuate
lo stesso a chiedere. Non c’è bisogno che le domande siano
vostre, ma devono essere di qualcuno, devono venire da qualche parte.
E le mie risposte possono aiutare qualcuno, da qualche parte. Per cui,
continuiamo a giocare.
Io non posso dire niente, lasciato a me stesso. A meno che non ci sia
una domanda, io sono in silenzio. Per me è possibile rispondere perché
c’è una domanda. Quindi non importa se la domanda è vostra; ciò che
conta è che sia di qualcuno, che venga da qualche parte.
E non sto solo rispondendo a voi; tramite voi sto rispondendo a tutta
l’umanità… e non solo all’umanità contemporanea, ma anche all’umanità
che arriverà quando non sarò più qui a rispondere.
Per cui, cercate tutte le domande possibili, sotto tutte le angolazioni, in
modo che tutti, anche in futuro, quando non ci sarò più, potranno trovare
nelle mie parole la risposta alle loro domande.
Per noi è un gioco. Per qualcun altro può essere una questione di vita
o di morte.”
Come un colpo sordo nel cuore, mi resi conto all’improvviso che Osho
sapeva che non sarebbe stato riconosciuto e compreso dai suoi contemporanei.
Tutto questo era per i posteri. Le mie speranze, i miei sogni che
da qualche parte nel mondo il suo lavoro avrebbe potuto fiorire e centinaia
di migliaia di persone sarebbero venute a vederlo, non erano reali.
Capii in un lampo che non sarebbe mai accaduto che i suoi discorsi fossero
trasmessi via satellite per milioni di persone e che lui potesse vedere
centinaia dei suoi discepoli illuminarsi.
Mentre rispondeva a una domanda diManeesha, fu molto esplicito: “Ci
vorrà tempo, ma il tempo non scarseggia mai. E non c’è bisogno che la
rivoluzione avvenga davanti ai nostri occhi. È sufficiente sapere di essere
parte di un movimento che ha cambiato il mondo, che avete fatto la
vostra parte a favore della verità, che sarete parte di una vittoria che alla
fine non potrà non accadere.” (da Beyond Psychology)
Andavo letteralmente in delirio quando parlava di metodi per lasciare
il corpo, di ipnosi per ricordarsi le vite precedenti e di antiche tecniche
tibetane, Sufi o tantriche, per poi riportarci sempre e comunque
al ‘testimone’.
Ci spiegò che le tecniche per lasciare il corpo sono utili per far vivere
l’esperienza di non essere il corpo, ma non vanno più in là di quello.
Comprendere le vite passate e sapere di essere già stati qui prima, rendersi
conto che si commettono sempre gli stessi errori e che ci stiamo
muovendo in cerchio va benissimo, ma poi ci vogliono la meditazione
e il testimone, per uscire dalla ruota.
Ci diede da sperimentare tecniche che mostravano il potere della mente
sul corpo e ci fece fare esperimenti telepatici per vedere quanto eravamo
in armonia e interconnessi l’uno con l’altro.
Era nata la “Scuola dei Misteri”.
In giardino c’era una stanza per i giochi coperta da un tetto di paglia,
nella quale Kaveesha ci ipnotizzava in piccoli gruppi. Facevamo esperimenti
con la telepatia e, man mano che il gruppo diventava più armonioso
e più affiatato, anche la pulizia della casa e il cucinare divennero
attività rilassanti, al punto che nessuno aveva la sensazione di lavorare
sul serio. Tutta la giornata ruotava intorno ai discorsi di Osho e ai nostri
esperimenti con le diverse tecniche. Gli riferivamo come le cose procedevano
e lui ci dava ulteriori consigli, conducendoci ogni volta più in
profondità in territori sconosciuti.
Mentre ci faceva fare voli straordinari nel mistero, Osho continuava
a ripeterci che il più grande mistero è dato dal silenzio e dalla
meditazione.
“La spiritualità è uno stato estremamente innocente della consapevolezza,
in cui non succede niente, il tempo si ferma, non ci sono più
desideri, non ci sono più nostalgie, né ambizioni. Questo momento
diventa il tutto…
Siete separati, totalmente separati.
Siete solo dei testimoni e nient’altro.” – Osho.
Disse che quel rimanere testimoni deve avvenire in uno stato di estremo
rilassamento. Non è concentrazione; è la consapevolezza di tutto
ciò che si fa: respirare, mangiare, camminare. Ci disse di cominciare
dalle piccole cose – osservare il corpo, come se ne fossimo separati;
osservare i pensieri che passano sullo schermo della mente, come se
stessimo guardando un film; osservare le emozioni quando vengono,
sapendo che non sono noi. L’ultimo passo accade quando siamo completamente
in silenzio e non c’è più niente da osservare: allora il testimone
si volge verso se stesso.
A una persona disse che non era ancora pronta per osservare, perché si
sarebbe sentita divisa in due. Le disse che prima doveva espellere le
emozioni negative (ma solo in privato – senza mai gettarle sugli altri)
perché per osservare si deve essere privi di repressioni.
Io credo che, se ci si sente a proprio agio osservando, se si prova una sensazione
di pace e di gioia, allora vuol dire che si è pronti. Come per ogni
altro metodo di meditazione, se ti fa sentire bene, è quello giusto per te.
Parlò anche dei sette livelli della consapevolezza e dei limiti della
psicologia e psichiatria occidentali, che sono molto, molto indietro
rispetto all’Oriente.
Ascoltavo questi discorsi con le antenne alzate, ascoltavo con un tale
senso di urgenza ed ero talmente affascinata che avvertivo un formicolio
nella testa. Era un fenomeno nuovo per me, perché per anni mi ero
seduta in meditazione mentre Osho parlava, senza preoccuparmi troppo
di quello che diceva. Glielo raccontai e lui rispose che lo stavo ascoltando
dal cuore: “Quando il cuore è colmo di gioia, inizia a straripare
in tutte le direzioni; la mente non è tenuta in disparte. Sta succedendo
questo: all’improvviso hai iniziato ad ascoltare sforzandoti di capire e
hai la sensazione che la testa sia piena di formicolii. Significa che qualcosa
sta straripando dal cuore, perché quel formicolio non può verificarsi
quando capisci solo le parole… La mente e il cuore incominciano
a essere in armonia; il loro conflitto si sta dissolvendo, il loro antagonismo
sta scomparendo. Molto presto, saranno una cosa sola. Allora
il tuo ascoltare avrà entrambe le qualità, arriverà al tuo cuore come una
vibrazione, come un fremito, e alla mente come una comprensione – ed
entrambe sono connesse con te.”
Gli ho sentito dire: “Dovete capire una distinzione, la distinzione fra
cervello e mente. Il cervello è parte del corpo. Ogni bambino nasce con
un cervello nuovo, ma non con una mente nuova. La mente è uno strato
di condizionamenti che circonda la consapevolezza. Non ve ne ricordate,
ecco perché esiste una discontinuità.
In ogni vita, quando una persona muore, il cervello muore, ma la mente
viene liberata dal cervello e diventa uno strato intorno alla consapevolezza.
Non è un fenomeno materiale: è semplicemente un tipo di vibrazione.
Per cui intorno alla nostra consapevolezza ci sono migliaia di
strati.” (da The Path of the Mystic)
“Voi non vedete il mondo com’è. Vedete il mondo come la vostra mente
vi obbliga a vederlo. Lo potete notare in qualsiasi parte del mondo –
persone diverse vengono condizionate in modi diversi e la mente non è
fatta d’altro che di condizionamenti.” (da The Trasmission of the Lamp)
Lamente, per come intendo io, è ciò che ti viene dato dalla società, dalla
famiglia; la religione nella quale sei nato, per esempio; la tua razza,
nazionalità, classe sociale, morale; tutti i condizionamenti che ti impediscono
di vivere come un individuo autentico.
Durante queste settimane, stavo operando su dime un processo che consisteva
nel cercare di distinguere la realtà dall’immaginazione. Feci
quattro o cinque domande a Osho sulla realtà e sull’immaginazione, e
iniziai a pensare che niente nella mia vita fosse reale. Passavo molto
tempo passeggiando da sola su e giù per la spiaggia, cercando di capire.
Finalmente capii, quando Osho ricordò di non averci mai detto di
discriminare tra l’una e l’altra: la realtà è quella che non cambia mai,
mentre l’immaginazione scompare, una volta osservata. Entrambe non
possono essere presenti contemporaneamente, per cui il problema di
discriminare non sussiste.
Guardando indietro, non riesco più a identificarmi con quelle domande,
ma a quell’epoca mi bruciavano dentro; forse perché Osho mi ha
aiutata a capirle. Penso che, senza un Maestro, sarei senz’altro impazzita
per quell’angoscia esistenziale e sarei rimasta bloccata con lo stesso
interrogativo, forse per tutta la vita.
Passeggiavo da sola, lungo quelle strade stupende, costeggiate di abeti
ed eucalipti, tra tante ville vuote perché la stagione dei bagni era finita,
cercando di capire chi ero. Tutti i miei pensieri non approdavano a
nulla. Non riuscivo a scoprire alcunché.
Ero forse solo quell’energia che fluiva dentro di me, quando chiudevo
gli occhi? Ero l’espressione di quell’energia? O ero la consapevolezza
di tale energia?
Osho disse che l’energia, in quanto consapevolezza, è la più vicina al
vero centro dell’esistenza, che esiste un’unica energia, ma nel pensiero
o nell’espressione, l’energia si muove verso la periferia… “Vai indietro
passo dopo passo,” disse. “È un viaggio verso le tue origini, e l’unica
cosa che hai bisogno di sperimentare sono le tue origini, perché non
sono solo le tue origini, sono le origini di tutte le stelle, della luna e del
sole. Sono le origini di tutto.”
Mentre lavoravo in lavanderia e pulivo la stanza di Osho, pensavo a
nuove domande, ma allo stesso tempo cercavo ancora di digerire il
discorso di alcune ore prima.
Una volta gli chiesi: “Dov’è la demarcazione tra il mio mondo interiore e
il mondo esterno? Quando ogni evento viene visto attraverso i miei occhi
e la mia percezione, mi sembra diventi il mio mondo, quindi è interiore.
D’altro canto, se il testimone è la mia realtà interiore e il testimone è universale,
mi sembra che, ancora una volta ho fatto un salto da dentro a fuori.”
“Chetana, stai impazzendo!” mi disse Osho.
Era vero. Mentre passeggiavo sulla spiaggia o fra le dune di sabbia, il
dialogo con il mio maestro interiore continuava: “Forse esisto solo perché
penso di esistere!”.
“Forse senza pensieri non esisterei affatto!”.
Osho ha detto che la mente non potrà mai capire la verità, perché è di
gran lunga al di sopra e al di là di essa, ma in qualche modo dovevo provarci,
se non altro per stancarmi e realizzare che la mia mente è completamente
inutile nella sfera mistica. Gli avevo sentito dire che la mente
non può comprendere ilmondo interiore,ma quella non era unamia comprensione
e non avevo ancora fatto quell’esperienza in prima persona.
Così, giorno dopo giorno, stavo impazzendo, nel tentativo di capire.
Osho raccontò una bellissima storia: “Un re, che era anche un mistico,
costruì una grande città e dentro la città costruì un tempio di pietra rossa.
All’interno era rivestito di piccoli specchi…milioni di specchi. Per cui,
quando entravi nel tempio, ti vedevi riflesso in milioni di specchi.
Tu sei uno, ma le tue immagini sono milioni.
Si racconta che una notte un cane entrò nel tempio e si uccise. Non c’era
nessuno, le guardie se n’erano andate, avevano chiuso il tempio e il cane
era rimasto dentro. Incominciò ad abbaiare contro quei cani, milioni di
cani. Iniziò a saltare da una parte all’altra andando a sbattere contro gli
specchi. E tutti quei cani gli abbaiavano contro… si può capire cosa
accadde a quel povero cane: tutta la notte ad abbaiare e a litigare… si
uccise da solo, andando a sbattere contro le pareti.
Almattino, quando aprirono le porte, trovarono il canemorto, c’era sangue
dappertutto. I vicini dissero: ‘Per tutta la notte ci siamo chiesti quale
fosse il problema. Il cane continuava ad abbaiare.’
Quel cane doveva essere un intellettuale. Naturalmente pensava: “Oh
mio dio, quanti cani! Io sono solo, è notte, le porte sono chiuse e sono
circondato da tutti quei cani… mi uccideranno.”
E si uccise da solo; non c’era nessun altro cane.
Questa è una delle cose più importanti ed essenziali che dobbiamo
capire del misticismo; le persone che vediamo intorno a noi, sono solo
nostre proiezioni.
Stiamo inutilmente combattendo l’uno contro l’altro, abbiamo inutilmente
paura gli uni degli altri. Abbiamo così tanta paura che stiamo
accumulando armamenti atomici – e c’è solo un cane, tutti gli altri sono
solo immagini riflesse.
Per cui, Chetana, non fare l’intellettuale. Non pensare a questi problemi;
altrimenti rimarrai sempre più confusa. Piuttosto, diventa consapevole
e vedrai che il problema sparirà. Io non sono qui per risolvere,
ma per dissolvere i vostri problemi – e la differenza è enorme.”
(da The Path of the Mystic)
Se nessuno gli poneva domande, Osho non parlava e quando parlava ci
svelava misteri e segreti sublimi. Spesso, gli ho sentito dire che, sebbene
sapesse che la maggior parte di quello che diceva era al di sopra delle
nostre possibilità, doveva dirlo comunque.
Avevo la sensazione che si affrettasse a dire il più possibile perché rimaneva
poco tempo. Ne parlai con Rafia e lui mi disse che gli veniva in
mente una storia che Osho aveva raccontato molte volte: “Gautama il
Buddha e il suo discepolo Ananda camminavano in autunno nella foresta
e quest’ultimo chiese al Buddha se aveva detto tutto quello che sapeva
o aveva lasciato ancora qualcosa di inespresso. Buddha aveva parlato
per quarant’anni, ma si inchinò e con una mano raccolse una manciata
di foglie. Disse ad Ananda che aveva parlato tanto così (indicando
la manciata di foglie) e che il non detto era tanto così, e con la mano
indicò tutta la foresta cosparsa di foglie secche.”
Rafia mi disse che aveva la sensazione che Osho in Uruguay avesse raccolto
una manciata di foglie e le avesse fatte piovere su di noi.
“La verità è pura consapevolezza.” – Osho.
Anche se Osho non raccontava barzellette durante questi discorsi, nondimeno
ridevamo. Una sera abbiamo riso così tanto che non riuscivamo
a fermarci. Mi ricordo che mi guardavo in giro, c’era anche Hasya
quella sera, la guardavo e questo ci faceva ridere ancora di più. La
nostra risata continuò incontrollabilmente anche dopo che Osho aveva
finito con la sua battuta e aveva incominciato a parlare di qualcosa di
‘serio’. Geeta aveva una risata così acuta e impressionante, che quando
Osho la sentiva, si metteva a ridere. Smetteva di parlare e si mettevano
semplicemente a ridere insieme, senza ragione apparente, mentre
il resto del gruppo, piano piano, veniva travolto da quella risata contagiosa.
Alla fine ridevamo tutti a crepapelle.
Osho ha spiegato che la risata è il più grande fenomeno spirituale: “La
risata del Maestro e la risata del discepolo hanno esattamente la stessa
qualità, lo stesso valore. Non c’è nessuna differenza.
In ogni altra cosa vi sono delle differenze: il discepolo è il discepolo,
sta imparando, brancola nel buio. Il Maestro è pieno di luce, non brancola
più, quindi ogni azione sarà differente. Ma che tu sia al buio o in
piena luce, la risata può unire.
Per me la risata è la massima qualità spirituale, il luogo in cui l’ignorante
e l’illuminato si incontrano.” (da The Trasmission of the Lamp)
Se Geeta aveva un rapporto unico col Maestro, tramite la risata, anche
Milarepa aveva un modo straordinario di giocare con Osho. Gli faceva
sempre domande che lo facevano ridere, provocando Osho a prenderlo
in giro. Era un gioco stupendo.
Tuttavia, la situazione politica per ciò che riguardava il visto di Osho
era seria. Al termine di lunghe trattative, il governo dell’Uruguay decise
di concedergli un permesso di soggiorno permanente e noi preparammo
un comunicato stampa… ma il giorno dopo venne tutto annullato.
Il presidente uruguayano, Sanguinetti, aveva ricevuto un messaggio da
Washington. A chiare lettere si diceva che, qualora Osho fosse diventato
residente, tutti i prestiti valutari che l’America stava per contrarre con
l’Uruguay sarebbero stati annullati. Punto e basta!
Hasya e Jayesh erano quasi sempre in viaggio.Qualcuno pensò che forse
ci conveniva comprare un transatlantico e trasferirci a vivere lì… e
Hasya e Jayesh andarono in Inghilterra, con l’idea di comprare una portaerei
in disuso, e poi a Hong Kong a vedere una nave. Ma a Osho girava
la testa anche solo a vedere qualcuno seduto su un’altalena, quindi
sembrava impossibile che potesse vivere su una nave! Tuttavia, malgrado
questo, si mise con grande entusiasmo a fare piani complicatissimi
per rendere possibile quel progetto.
Non ho mai sentito Osho dire di no a qualche cosa. Quando Hasya gli
disse che pensavamo che vivere su una nave non avrebbe fatto bene alla
sua salute, rispose: “Bene, se mi sono abituato a stare su questo pianeta,
il mio corpo si abituerà a vivere su una nave. In questo modo, voi
avrete più libertà.”
Quando non erano in giro per il mondo, Hasya e Jayesh erano a Montevideo
con Marcos.Marcos era un uomo d’affari uruguayano che aveva
parecchi contatti col governo.
Era un uomo innocente, dal cuore d’oro e stava veramente facendo di
tutto per permettere a Osho di rimanere nel suo paese. Una sera Osho
chiamò Vivek e Devaraj nella sua stanza e disse che non si sentiva più
al sicuro in Uruguay. Voleva tornare in India!
In quel momento l’Uruguay aveva perso il suo fascino e sentii che di
nuovo eravamo circondati dal pericolo. Due giorni dopo la polizia,
che aveva diligentemente sorvegliato la casa nelle ultime dieci settimane,
se ne andò. Ci sembrava strano: forse qualcuno avrebbe cercato
di fare del male a Osho e la polizia non voleva esserne coinvolta?
Contattammo la polizia e questa volta addirittura li pagammo per sorvegliare
la casa.
L’atmosfera stava diventando tesa; Hasya e Jayesh erano via, e John e
Isabel, una sannyasin cilena appena arrivata, continuavano a dialogare
col governo, ma attraverso un altro canale. Non volevano lavorare con
Marcos e scelsero come intermediario un loro amico, Alvarez. Anche
lui era un uomo veramente bello, divenne anche sannyasin, ma io non
mi sono mai fidata molto di lui. Era troppo affascinante, troppo bello.
Al nostro arrivo in Uruguay, il governo aveva ricevuto dei telex
dalla NATO, col timbro ‘informazioni diplomatiche segrete’, la cui
fonte erano gli USA. Le informazioni contenute nei telex dicevano
che noi (i discepoli di Osho) eravamo trafficanti di droga, contrabbandieri
e prostitute!
Un giorno, durante le ultime settimane della nostra permanenza, arrivò
la polizia a perquisire la casa. Sapevamo che era pericoloso, in quanto
di solito, durante le perquisizioni nascondevano della droga nelle
case di persone indesiderate, per un qualsiasi motivo, anche se non avevano
commesso reati.
Li trattenni fuori dalla porta, visto che non avevano un mandato e corsi
nella stanza di Osho, che in quel momento stava parlando con Hasya e
Jayesh. Entrai e dissi che c’era la polizia. Osho continuò a parlare con
Hasya senza mostrare alcun cenno di agitazione, come se niente fosse
successo. Lasciai la stanza e dopo cinque minuti arrivò Hasya: alla fine
era riuscita ad alzarsi e dire a Osho che le dispiaceva, ma non riusciva
più ad ascoltare quello che le diceva, perché tutta la sua attenzione era
altrove, al fatto che c’era la polizia alla porta, per cui doveva andare a
vedere cosa stava succedendo.
La polizia se n’era andata, ma la situazione ormai era diventata complicata
e disagevole…fu allora che Osho disse di volersene andare. Anche
quell’avventura era conclusa!
Ma di fatto continuava, perché ci rifiutavamo di guardare in faccia l’evidenza.
Nella seconda settimana di giugno, Alvarez aveva promesso a
John e a Isabel che Osho poteva rimanere senza problemi almeno altre
sei settimane, dopo di che quasi sicuramente avrebbe ottenuto la residenza.
Per noi fu una buona notizia: era quello che volevamo sentire!
Il 16 giugno andai dal dentista a Montevideo e come al solito andai a
trovare Marcos e la sua famiglia.
Lo trovai terrorizzato, mi disse che aveva sentito voci secondo le quali,
se Osho non fosse uscito dal paese entro il 18 del mese, sarebbe stato
arrestato. Il presidente Sanguinetti era a Washington con Reagan, dove
stava negoziando i nuovi prestiti americani per il suo paese ed era la sua
prima visita in tutti quegli anni.
Tornai a casa di corsa, lo dissi a Vivek che lo riferì subito a Osho e
immediatamente organizzammo la partenza con un aereo privato… il
problema era trovare un paese dove avremmo potuto atterrare.
La Giamaica era la nostra nuova speranza. La sera avevo già finito di
fare i bagagli e la mattina dopo, all’alba, ero su un volo di linea per la
Giamaica insieme a Rafia. Osho sarebbe arrivato con un aereo privato
insieme a Vivek, Devaraj, Anando e Mukti.
Il giorno in cui Osho lasciò l’Uruguay, arrivò una raffica di telefonate
al ministero dell’interno di Montevideo, praticamente una ogni ora: era
Washington che voleva sapere se Osho aveva lasciato il paese.
Alle cinque del pomeriggio del 18 giugno, telefonòAlvarez: aveva ricevuto
un telegramma dal dipartimento dell’immigrazione, in cui era scritto
che Osho si sarebbe dovuto presentare nel loro ufficio prima delle
5:30 altrimenti l’avrebbero arrestato.
Mi è stato detto che Osho lasciò la villa, diventata la nostra Scuola dei
Misteri, alle 6:30, proprio mentre stavano arrivando tre pattuglie della
polizia, che a quel punto si limitarono a seguire la macchina di Osho
fino all’aeroporto.
Mentre Marcos e tutti i sannyasin che in quel periodo si erano raccolti
intorno a Osho celebravano, cantavano e ballavano con lui, ai poliziotti
non rimase che stare a guardare, sbigottiti. L’atmosfera di tensione
si dissolse di fronte alla celebrazione con cui Osho veniva accompagnato
al jet in attesa.
Mentre l’aereo saliva già alto nel cielo, e ormai si vedevano solo due
piccole luci sparire nella notte, giunsero diverse auto della polizia…
nessuno saprà mai perché.
Gli Stati Uniti d’America annunciarono, il 19 giugno, che l’Uruguay
avrebbe ricevuto un prestito di 150 milioni di dollari.